Scrivere di un’improvvisazione non è la cosa più semplice del mondo, è come descrivere un’opera d’arte basata sullo scorrimento temporale, dove immagini e suoni si uniscono in un legame unico e indivisibile. Sono forme riconducibili alla realtà, ma non per questo descrittive seppur vivide nella loro rappresentazione. Quando mi è stato proposto di partecipare a “Tempi di Reazione” ho accettato con quel briciolo di curiosità che caratterizza i “danzattori” incoscienti alla ricerca di forti emozioni. Essendo un neofita dell’improvvisazione nella danza e non potendo fare totale affidamento su tecniche consolidate nel tempo, non ho potuto fare altro che fidarmi della conoscenza del mio corpo in movimento e di Alessandra, la mia partner sulla scena. Julyen Hamilton, mostro sacro della danza e dell’improvvisazione, quella sera anche nella veste di pianista capace di creare solide strutture sonore sulle quali appoggiare i nostri movimenti, ha decisamente semplificato il nostro lavoro. Ho cercato di dosare le mie energie per evitare che andassero in conflitto con la forza di gravità e usato il peso con estrema attenzione, controllando le distanze anche in base alla vicinanza del pubblico disposto attorno alla sala (è incredibile come lo spettatore possa essere parte attiva dell’improvvisazione, modificandone tempi e distanze in modo del tutto inconsapevole). In questo mio incedere costante, fatto di forme estemporanee, non ho potuto fare a meno di affidarmi al corpo narrante della mia partner attraverso un ascolto e una disponibilità frutto di una fiducia e un affiatamento consolidatosi negli anni. Non è stata quindi solo un’idea d’improvvisazione legata all’estro di un singolo danzatore capace di entrare ed uscire da un filo narrativo personale, ma anche la capacità di creare strutture danzanti con un’altra persona, attraverso un continuo rovesciamento di ruoli, che a sua volta inventava forme lì per lì. Quindi le capacità creative individuali e la totale accettazione dell’evento improvviso sono state messe al servizio della creazione in una struttura globale fatta di molti elementi che hanno trovato un equilibrio visivo e sonoro. Credo che in serate come queste sia fondamentale una permeabilità totale da parte di tutti i partecipanti, perché in una improvvisazione nessuno sa cosa sta per accadere, ci si lascia coinvolgere dalla situazione del momento e il performer diviene al tempo stesso danzatore, autore e coreografo di un momento irripetibile.
Mariano Nieddu
Mariano Nieddu (Nuoro, Italia 1969). Interprete e attore. Dopo essere nato e aver vissuto in Sardegna per vent’anni decide di partire per Bologna nel 1991. Frequenta la Scuola di Teatro di Bologna dove si diploma con borsa di studio nel 1993. Si forma e trasforma frequentando i seminari di Alessandra Galante Garrone, Herns Duplan, Pierre Byland, Francesco Macedonio, Renata Palminiello, Walter Pagliano, Nanni Garella, Vittorio Franceschi, Marco Cavicchioli, Antonio Piovanelli, Alejandro Aquino, Mariachiara Michieli, Richard Buckingham Clark. Successivamente lavora con Thierry Salmon – L’assalto al Cielo – Themiscyre 2, Marco Baliani – Decamerone – La Repubblica di un solo giorno – Piazza d’Italia – Qui comincia l’avventura del Signor Bonaventura- La cena in Emmaus, Alfonso Santagata -Tragedia a mmare – Tragedia a Gibellina – Se la nuì – La notte degli oltraggi, Maria Maglietta – Il cantico degli assassini – Lunga notte di Medea, Maurizio Bercini – Incontri con animali straordinari – Alice nel paese delle meraviglie – Cà ccabaret, Martin Haupl – L’ora in cui non sapevamo niente l’uno dell’altro, Nanni Garella – Sei personaggi in cerca d’autore – Ista laus pro nativitate et passione domini, Ivano Marescotti – Babe-lè, Renata Palminiello – La tragedia di Riccardo – Blu – Confessioni, Luciano Nattino – Historia du Surdatu, Ninni Bruschetta – Giulio Cesare, Walter Pagliaro – La Maddalena lasciva e penitente. Roberto Rustioni, Milena Costanzo – Underground Collabora inoltre con Sandro Mabellini, Manuela Cherubini, Salvatore Arena, Massimo Barilla. Lavora in video con Franco Jannuzzi, Claudio Di Biagio, Piero Sanna, Alessandro Pondi, Domenico Ciolfi, Peter Greenaway. Collabora con Rai Radio 3 Roma, Florian Bologna, Radio Ultrasuoni Roma, Emons audiolibri. Da più di dieci anni lavora con Roberto Castello in diverse produzioni e progetti nel campo della Danza, Cinema e Teatro.
A proposito di ricchezza, qualche settimana fa sono stata colpita dal modo in cui è stata commentata una notizia. Dopo che il ministro dell’Interno in carica ha nuovamente minacciato di sforare i parametri europei, e che la sua dichiarazione ha avuto immediati effetti devastanti per l’economia nazionale sui mercati finanziari, la notizia è stata commentata da alcune testate nazionali nel modo seguente: «La ricchezza degli italiani risulta sempre più in rosso». Questa espressione mi ha colpito, non tanto o non solo per il suo contenuto, ma soprattutto per la forma. Perché – mi sono chiesta – utilizzare una forma contorta per dire che il debito pubblico italiano stava ulteriormente aumentando? Alcuni anni fa non si faceva altro che parlare di debito. Oggi, il peggioramento della condizione dell’economia nazionale, di per sé negativa, è descritto passando attraverso la forma positiva della ricchezza. Una ricchezza, per così dire, negata attraverso la sua affermazione. Come si può arrivare a parlare di ricchezza per somme di denaro mancanti? Si vuole forse alludere, in questo modo, alla ricchezza che avremmo potuto possedere? Oppure il senso di questa espressione giornalistica, di per sé apparentemente innocua, è più complesso e rappresenta il sintomo di un cambiamento radicale nel modo stesso di intendere la ricchezza?
Vale la pena allora chiederci che cosa si intende per ricchezza. Una prima risposta potrebbe essere che la ricchezza non si identifica soltanto con qualcosa di oggettivamente stabile, che semplicemente si possiede (beni, oggetti, quantità di denaro, ecc.). Piuttosto, si può considerare ricchezza anche ciò che si possiede in potenza – o meglio, che è tale in quanto permette di sviluppare investimenti che possono produrre ricchezza. La notizia dell’aumento del debito pubblico, dunque, per quanto negativa, può essere considerata un’indicazione in merito alla ricchezza degli italiani. Questo modo di esprimere i fatti, tuttavia, sembra indice di un mutamento non solo rispetto al valore in sé della ricchezza, ma soprattutto rispetto al modo in cui viene valutata. In definitiva, la ricchezza non è più correlata a un valore oggettivo, non corrisponde in maniera esclusiva a qualcosa di misurabile, ma dipende dalla modalità con cui attribuiamo ad essa un valore.
Cosa cambia rispetto al passato? Per capirlo dobbiamo mettere a fuoco cosa intende il discorso economico quando parla di “valore”. Tuttavia, anziché rispondere a questa domanda da un punto di vista economico, vorrei provare a confrontarmi sulla questione da una prospettiva più ampia. Si può affermare che ciò che caratterizza il discorso economico, fin dalla sua formulazione classica, sia la ricerca di una “sostanza oggettiva” con cui individuare il valore economico. Per gli economisti classici, esisterebbe, cioè, un valore oggettivo dei beni indipendente dalla possibilità che siano scambiati. La necessità di individuare un criterio oggettivo per la valutazione delle merci è ciò che ha indotto gli economisti a ricondurre il valore di scambio di un bene al costo oggettivo del lavoro impiegato per produrlo. In questo modo non solo, nell’economia classica, la produzione risulta la merce di scambio per eccellenza, ma soprattutto la scambiabilità delle merci si fonda su una sostanza – la quantità di lavoro necessaria allo loro produzione – che risulta, così, “oggettiva” e conferisce ai beni un valore intrinseco e indipendente rispetto alla possibilità che vengano scambiati. Questo aspetto, però, in qualche modo si scontra, fin dagli inizi della teoria economica, con la tendenza umana alla comunicazione, a quel peculiare tipo di scambio che potremmo definire spirituale. In essa è in gioco una forma sociale complessa, che è alla base della stessa possibilità dello scambio e a cui è possibile ricondurre la stessa capacità della valutazione. Ciò vuol dire che i valori non esistono di per sé, indipendentemente dal modo in cui vengono valutati.
La valutazione è il meccanismo intrinseco che alimenta l’istituzione del mercato come fenomeno collettivo, in cui ciascun agente che vi partecipa è dipendente non dal “valore” che ogni bene possiede in sé, ma da quello che riveste per ognuno. Tanto che si può dire che il meccanismo di valorizzazione alla base della comunità finanziaria, in definitiva, dipende da un singolare tipo di fede: dalla “fiducia” dei suoi stessi partecipanti, più che dal reale valore economico dei titoli scambiati. I ripetuti tentativi di presentare i problemi economici come problemi esclusivamente tecnici, risolvibili da economisti o da governi adeguatamente composti da esperti con competenze tecniche, si scontrano allora con il dato di fatto che, in questo processo, è in gioco qualcosa che può sfuggire a un approccio esclusivamente specialistico dell’economia. Il problema della valutazione è centrale in filosofia. Il maggiore critico dell’oggettività dei valori, nel XX secolo, è stato Nietzsche, che per primo ha svelato la centralità della valutazione nella storia dell’umanità. Marx, dal canto suo, è sicuramente stato il più efficace critico del valore economico e dei suoi arcani politici. Secondo lui, il valore non è in alcun modo una grandezza “oggettiva”. Il valore economico piuttosto è fenomeno “sociale”, un processo che si realizza. Non è, cioè, fin dall’inizio tale, ma praticamente e concretamente si realizza; è una realizzazione della società capitalistica, non semplicemente come forma in sé quantificabile, ma come fenomeno socialmente qualificabile. Marx ha attributo, comprensibilmente, un ruolo privilegiato alla produzione: è in questo ambito che l’economia è stata in grado di esercitare il suo dominio politico. Tuttavia, quello che aveva davanti agli occhi era un capitalismo fondamentalmente industriale, che non aveva ancora subito la trasformazione che oggi conosciamo. Il capitalismo avanzato dei nostri giorni, il cosiddetto capitalismo finanziario, è il risultato di un processo complesso. Il mercato, come istituzione normativa fondata sulla valutazione, ha sempre più acquistato rilevanza politica. È attraverso la centralità attribuita all’istituzione del mercato che l’economia diviene una forma esplicita di governo in quanto ambito di costituzione di valori validi e condivisibili. Un’istituzione pubblica, il cui unico scopo non è altro che la sua stessa autoriproduzione.
Il punto da mettere a fuoco, allora, è il fatto che questa istituzione apparentemente neutra, che dovrebbe seguire parametri oggettivi, esclusivamente tecnici, risulta in realtà fondata su una razionalità complessa, legata ad una logica amministrativa e imprenditoriale, che è stata estesa a tutti gli ambiti lavorativi, al dominio sociale, a quello politico, fino a coinvolgere l’intera esistenza di milioni di persone. La forma-impresa si è imposta e l’“imprenditore di sé” è divenuto il prototipo cui si sono adeguate tutte le figure portanti dell’economia classica: il “lavoratore”, il “produttore” e il “consumatore”. A causa delle politiche neoliberiste, che hanno fatto del mercato l’istituzione politica per eccellenza, la dimensione valutativa – costitutiva fin dall’inizio dell’economia di mercato – si è così imposta soprattutto e paradossalmente nella forma della “valutazione di sé”. L’“imprenditore di sé” è la figura al centro dell’economia neoliberista, che ha modificato tanto il ruolo del lavoro quanto quello del consumo. Il lavoratore, il produttore, il consumatore non solo sono accomunati dal fatto di essere tutti divenuti “imprenditori”, ma sono anche tutti impegnati a valorizzare al meglio il proprio “capitale umano”, coinvolgendo così sempre più nell’ambito produttivo la dimensione “etica” legata alla valutazione. Il consumo è stato inoltre sempre meno circoscritto alla semplice attività di ricostituzione di forze perdute, ma è diventato esso stesso un fattore di investimento che qualifica, aumentando il valore stesso della vita. Più che a un’accumulazione originaria nel senso di Marx, si può fare, qui, riferimento a un’accumulazione continua, che mira a dirigere dall’interno le vite individuali attraverso la produzione di norme fondamentalmente incentrate su desideri, passioni, sulle stesse modalità di valutazione e di scelta che caratterizzano le vite dei singoli.
Il capitalismo ha sempre più mirato a inscriversi nelle relazioni sociali e nei desideri soggettivi attraverso un’esaltazione della libertà, che di fatto ha trovato la sua reale forma di espressione unicamente nella pratica del consumo. La continua autoriproduzione di desideri, appiattiti su forme inquietanti di godimento per ciò che sembrava si potesse ottenere facilmente, ha così finito per confinare il piacere in modalità autolesionistiche di consumo, che producono forme di disagio crescente. Si tratta dello stato che si è prodotto nel momento in cui, con le politiche neoliberiste, i modi di dar valore alla vita hanno teso a corrispondere pienamente alla stessa valorizzazione del capitale, rendendo così possibile per ciascuno di diventare un “capitale umano”. Le capacità individuali, di per sé potenzialmente aperte, sono state così radicalmente trasformate producendo differenti forme di frustrazioni tutte legate al fatto di non sentirsi mai all’altezza della situazione. Questo, potremmo dire è, in definitiva, il fenomeno che è all’origine di quella condizione di “debito infinito” che per molti aspetti caratterizza la nostra epoca; un debito che è materiale, in quanto per lo più materialmente proviene da forme ossessive di consumo in assenza di liquidità, ma che è anche spirituale in quanto risulta da forme perverse di investimento volte a compensare la convinzione di non essere adeguati o adeguate a quanto richiesto. Da un lato, non c’è dubbio, un ritorno di forme autoritarie e violente di potere è in atto sul piano globale come reazione al dominio apparentemente incontrastato del mercato. Ma più subdola e magari ancora più pericolosa è la dimensione psichica che il potere assume ai nostri giorni nei modi della valutazione economica, meno facile da individuare, ma non per questo meno violenta. Riappropriarsi della valutazione come modalità attiva e non semplicemente reattiva rispetto alle forme proposte dal mercato, significa allora assumere in maniera efficace la forza istituente della valutazione e rovesciarne, così, il suo potenziale politico. Un processo che, passando attraverso le singole vite, può recuperare la sua dimensione comune e collettiva neutralizzando le modalità depotenzianti di competizione e di (s)valutazione che caratterizzano le aspettative del mercato.
Elettra Stimilli
Elettra Stimilli è ricercatrice in Filosofia teoretica presso La Sapienza Università di Roma. Membro del Centre d\’Études des Normes Juridiques \’Yan Thomas\’ (EHESS, Paris) e del comitato scientifico della collana “Political Theologies” (Bloomsbury). Dirige le collane “Filosofia e Politica” e “MaterialiIT” (Quodlibet). Ha insegnato alla Scuola Normale Superiore di Pisa e in diverse università all’estero. Tra le sue pubblicazioni: Jacob Taubes. Sovranità e tempo messianico (Morcelliana, 2004); Il debito del vivente. Ascesi e capitalismo (Quodlibet 2011; tradotto in inglese presso Suny Press, New York 2017); Debito e colpa (Ediesse, 2015;tradotto in inglese presso Bloomsbury, London 2018). Ha curato: Jacob Taubes, Il prezzo del messianesimo. Una revisione critica delle tesi di Gershom Scholem (Quodlibet, 2017). Con Dario Gentili e Glenda Garelli ha edito il volume Italian Critical Thought. Genealogies and Categories (Rowman & Littlefield, 2018).
La questione, se affrontata seriamente, mostra sempre il nostro imbarazzo. Nostro, ossia di noi bianchi, benestanti, occidentali, democratici (non sempre), e mediamente acculturati (anche qui non sempre, viste le agghiaccianti statistiche sull’analfabetismo di ritorno e sull’abbandono scolastico). La questione è, per dirla francamente, il razzismo. Il razzismo di un popolo che non ha esitato a sostenere partiti politici dichiaratamente e programmaticamente razzisti. Un tempo – ma l’Antica Grecia è ormai una leggenda – tra xenofilia e xenofobia non c’erano dubbi: l’ospite era sacro. Oggi il respingimento è pratica quotidiana. E sulle paure si giocano partite politiche (e culturali) aspre, si inneggia al nemico da fermare, arrestare, espellere. Il nemico, ovviamente, è sempre l’Altro, quello che viene da fuori, quello che fa paura. E spesso tale alterità ha le eterne caratteristiche dell’Uomo Nero. Ma ci pensate? Siamo cresciuti con mamme e papà che per minacciarci dicevano «chiamo l’uomo nero!». E allora ecco perché, nell’affranto scenario politico e istituzionale in cui ci muoviamo, per questo numero di Novantatrepercento abbiamo pensato di parlare di Black. Ossia di nero. Black is the colour, nero è il colore. Già il passaggio tra l’inglese e l’italiano crea una ambiguità semantica: black suona più accettabile, più cool, più aperto. E nero, invece, subito rimanda al nostro mai sopito fascismo: alle “faccette”, alle “camicie”, all’ostentata onda nera che attanaglia l’Italia e l’Europa. Eppure quel colore bellissimo, e il mondo che naturalmente evoca, è ancora un orizzonte possibile da vivere. Ma quante dicotomie porta con sé? L’Africa nera, misteriosa, pericolosa, pigra, a fronte dell’Europa bianca, efficiente, pulita, igienica, pura. E il Nero come viscerale, dionisiaco, il bianco come intellettuale e apollineo… Potremmo continuare per pagine e pagine. E dunque attorno al nero, in molte – certo non tutte – le sue declinazioni vogliamo ragionare e soprattutto agire. Ecco dunque Black is the colour. Si tratterebbe, insomma, ora più che mai, di affrontare la questione di cui sopra e, come si diceva, provare a immaginare risposte alternative al razzismo, ossia modelli sociali diversi, di accoglienza e di integrazione, di apertura e di discussione, assolutamente in controtendenza rispetto a quanto esprime la cosiddetta “pancia del paese”. Se l’arte e la cultura – e il teatro, la danza, la musica, il circo, la poesia, la letteratura, la critica… – hanno un compito possibile è proprio quello di scardinare le credenze consolidate, di smontare i luoghi comuni, di abbattere gli stereotipi non proponendone altri (non si combatte un cliché con un altro cliché) semmai semplicemente aprendo i “possibili”, creando ponti, favorendo la dialettica e l’ascolto. Impresa utopica, come è evidente: ché Sisifo in Italia è di casa, cittadino onorario, patrono delle tante cause “perse” che puntellano il fragile equilibrio nazionale. Pare proprio di spalare, sempre di nuovo, l’acqua col forcone da queste parti. Eppure non si può far finta di nulla, star fermi o in silenzio. Meritano le iniziative come quella voluta da ALDES per luglio: Duran Adam, lo “stare in piedi”, naturale evoluzione e specificazione dei Dance Club (http://spamweb.it/), che si apre a un confronto sistematico con le culture africane, ma non solo, proprio per sondare prospettive di integrazione. È una (bella) iniziativa, fortunatamente non l’unica, ma anzi una delle tante che comunque animano il nostro paese e la nostra scena. Tra difficoltà, economie sempre ridotte all’osso, a volte addirittura ostilità, c’è ancora chi si impegna per declinare l’arte e la scena verso quelle dinamiche di socialità e condivisione, che riteniamo assolutamente fondamentali e che danno senso ulteriore al nostro teatro e alla nostra danza. E forse vale la pena ricordare, ogni volta, che Peter Brook non appena insediato alle Bouffes du Nord, partì per un viaggio di tre anni in Africa con tutto il suo meraviglioso gruppo di attori: per cercare, diceva più o meno, i punti di contatto, quello che unisce “me” e “te”, attraverso il teatro.
Allora, proviamo anche noi, su queste pagine, a fornire spunti di riflessione. Abbiamo voluto dare voce a quanti si sono confrontati e si confrontano, con il “Black”. A partire dalle immagini della fotografa Lucia Perrotta (http://www.luciaperrotta.com) che accompagnano questo numero: il nostro giornale, abituato benissimo grazie agli scatti di Nicola Tanzini, si apre in questa occasione dedicata principalmente all’Africa e al mondo Black, alle opere di Lucia Perrotta. Nata a Roma, Perrotta è fondatrice del collettivo di fotografi di reportage WSP e si concentra principalmente su progetti fotografici che esplorano la ritualità nelle sue forme popolari, pagane, religiose e nei suoi significati socio-antropologici. Il suo sguardo intenso coglie dettagli, particolari, uomini, donne bambini sospesi in istanti di vita quotidiana. Sono storie che travalicano l’immagine. Ogni fotografia, dice il filosofo Georges Didi-Huberman, racconta molto di più di quel che mostra: e a percorrere con lo sguardo le immagini di Perrotta possiamo avvertire il senso, il calore, la grana, la profondità di esistenze, di un mondo non così lontano.
Dunque, per parlare di Black non possiamo non partire da una costatazione: il cielo nero sopra di noi. Ci incantiamo con le stelle, certo, ma il fisico Marco Montuori ci racconta quanto l’universo stesso sia “nero”. Secondo le più recenti teorie, infatti, l’universo è decisamente “oscuro”, a quanto pare composto per il 96% (poco più del nostro novantatre) di qualcosa che non vediamo. Un ribaltamento di prospettiva come quello che suggerisce Marco Martinelli, regista e drammaturgo che per noi si mette sulle tracce di Atena Nera: la grande dea ha origini africane, ci spiega Marco, evocando gli studi dello storico Martin Bernal. Con Ermanna Montanari e il Teatro delle Albe, Martinelli è stato un antesignano del confronto con i flussi migratori. Già a metà degli anni Ottanta, invocava un teatro “politttttttico”, con sette t, che sapesse anche dialogare con l’Africa. Ricordo RUH-Romagna + Africa uguale, spettacolo in cui un Griot e un Fuler, il cantastorie senegalese e il cantastorie romagnolo, dividevano la scena. E da quegli anni, le Albe non hanno mai abbandonato il loro impegno africano, fino a contribuire all’apertura di un centro di ricerca teatrale a Dioll Kadd, in Senegal, grazie all’impegno di un attore del calibro di Mandaye N’Daye, indimenticabile Papà Ubu, prematuramente scomparso. E in questa riflessione sul Nero come Altro, ci è sembrato imprescindibile appellarci a uno dei nostri maggiori antropologi della cultura, artefice di un’antropologia attiva, partecipante, come Massimo Canevacci. Raccontando di “Antropofagie e trasfigurazioni” presso la tribù amazzonica dei Bororo, già profondamente studiata da Claude Lévi-Strauss, Canevacci svela i cambiamenti di quel mondo, e del rapporto tra l’antropologo “esploratore bianco e tecnologico” e i presunti “primitivi”. Canevacci analizza «l’importanza fondamentale del linguaggio del corpo, in un contesto ben diverso da una città come Roma. Quando ho partecipato al primo Funeral Bororo, ho scoperto che non solo i corpi ma anche e soprattutto le ossa e il teschio del morto parlavano». E «sospesi tra skin e screen» capiamo quanto quei corpi Bororo raccontano, al pari di quelli africani o europei.
Così, non potevamo non agguantare l’opportunità per fare una veloce disamina sulla danza, in particolare sulla danza cosiddetta “afro”: grazie all’incontro tra Dario La Stella e la coreografa e studiosa Cristiana Natali giungono spunti di riflessione importanti, mentre Valeria Vannucci fa il punto sul lavoro della coreografa Simona Bertozzi con migranti e richiedenti asilo. E siamo anche voluti andare direttamente alla fonte, ossia al cuore d’Africa, a Dakar, grazie al racconto di Andrea de Georgio, che ha visitato la Biennale d’arte: per capire assieme a lui quale sia la produzione, quali i temi affrontati dall’arte contemporanea africana e dai suoi maggiori artisti e con quali esiti. Ma Black, si sa, fa rima con “Music”. Delle evoluzioni (o involuzioni?) della musica nera ai tempi di Trump parla il musicologo Enrico Bettinello, mettendo in fila Kendrik Lamar, Childish Gambino, Ornette Coleman, Art Ensamble of Chicago, Wynton Marsalis e l’hip hop. Con una certezza: «le musiche nere portano con sé, come una pasta madre, questo germe dello spostarsi, dell’essere altro. Forse per questo non smettono di esercitare una forza quasi magnetica nel cuore della cultura di oggi». Last but not least, in questo ventaglio di ipotesi, di ragionamenti e di discorsi, non potevamo non soffermarci sul “look total black”. Questione di moda? Non solo: Margherita Dellantonio racconta quanto, dietro una semplice t-shirt nera, ci siano storie infinite.
Avremmo voluto, infine, affrontare il tema del teatro post-coloniale, ossia di quella produzione teatrale che nasce e si sviluppa in territori che hanno subito la piaga della colonizzazione europea. Seguire Awam Amkpa quando afferma: «In gran parte del mondo colonizzato, essere formalmente educato significa una simultanea subordinazione all’esistenza di due mondi paralleli – il primo è uno spazio globalizzato e un sistema di conoscenza che deriva direttamente dall’Europa, e l’altro è uno spazio locale frammentato da continui assestamenti interni provocati da forze e masse esterne. Una topografia culturale così caratterizza le colonie rappresentandole adesso moderne e tradizionali, indigene e straniere, eurocentriche e aliene». Un mondo in cui il teatro «luogo di frammentazione dell’identità», può diventare e per molti autori sta diventando, il «luogo dove questi frammenti possono essere finalmente re-inventati, liberi dall’influenza coloniale e dove evidenziare l’azione di un attivismo sociale e culturale delle società post-coloniali». Teatro che vari drammaturghi come Wole Soyinka, Femi Osofisann, Ngugi wa Thiong’o e Ama Ata Aidoo usano come mezzo per trasformare il teatro stesso in un’arena di traduzione e contestazione. Ma qui ci saremmo spinti verso i territori di una pratica creativa eminentemente teatrale, che è fatta di comunicazione per lo più scritta (ossia verbale). Cosa che ci porterebbe troppo lontano dalle fondamenta “non verbali” su cui riflette novantatrepercento…
Come spesso accade quando si parla di musica – o di arte più in generale – definire un aspetto come l’improvvisazione è un esercizio piuttosto difficile, quasi innaturale poiché impone essenzialmente di oggettivare qualcosa di sfuggente per sua natura. Qualcosa di contraddittorio che oltretutto dovrebbe trovarsi a tu per tu con la personalità più intima dell’interprete. Dico subito che si tratta di una delle possibilità dell’arte che amo quanto la scrittura, altra possibilità convenzionalmente intesa come suo opposto. È vero che all’interno di una partitura si possono immettere le proprie micro-sfumature improvvisative o che per esempio le improvvisazioni si possono scrivere, circoscrivere, dirigere; infatti le modalità possono essere potenzialmente infinite, tante quante sono le variabili. Al di là delle nozioni dei grandi improvvisatori, storicizzate o nei miei ricordi, – che continuerò ad approfondire e studiare fino alla morte – cercherò di prendere in esame altri elementi, forse marginali e di carattere non didattico basandomi sull’esperienza personale. Io di mestiere faccio il (sono?) cantante, i suoni sono il mio vocabolario preferito. Prima di ogni altra cosa, l’improvvisazione per me è la ricerca in estemporanea della costruzione di un racconto plausibile che, nel divenire della narrazione irripetibile, si avvale, reinventa e trascende più linguaggi, e che scaturisce e dipende indissolubilmente dal contesto esecutivo. Oltre che da eventuali altri narratori implicati se vi fossero, ovviamente.
L’incidenza del contesto esecutivo
– Le linee artistiche: tradizionali / di confine
Premesso che quante più parole (note, fraseggi, stili) si conoscono tanto più si può articolare un discorso (composizione, rappresentazione), vale la pena soffermarsi su alcune variabili, forse anche ovvie, che hanno a che vedere con l’incidenza del “contesto esecutivo” sulle scelte del linguaggio espressivo da parte dell’improvvisatore. Innanzitutto, sembrerà banale ma non è secondario ricordare del condizionamento di tradizionali linee artistiche perseguite da certi Teatri, Club o Festival in cui l’artista si trova a esprimere, delle abituali aspettative del pubblico di questi contesti specifici. Se per esempio in un ambito jazzistico dove per jazz s’intende esclusivamente lo swing – che per inciso è uno degli stili che più mi piacciono –, in linea di massima qualsiasi deflusso altro da quel linguaggio e i suoi dettami potrebbe suonare fuori luogo. La tradizione va rispettata. Se l’improvvisatore sentisse l’urgenza di portare il pubblico fuori da questo genere definito probabilmente dovrà cercare di dirottare il discorso partendo comunque dal linguaggio condiviso. Nei contesti contemporanei più di confine l’improvvisatore è chiamato a esprimersi con meno restrizioni linguistiche e ciò non significa meno responsabilità, solo diverse. Con l’avvento dell’Arte Contemporanea, si sono sviluppate una molteplicità di prospettive: in musica si implicavano inedite valenze concettuali, le strutture formali si aprivano a più duttili organizzazioni e fioriva una vastità di modi nuovi di intendere il suono e l’acustica.
Abbreviando molto, sdoganati anche gli orizzonti e le funzionalità del performer, ciò che non ci si dovrebbe aspettare oggi in una improvvisazione cosiddetta “radicale” (sottintendendo il termine per innovativo o di ricerca) è che la sana libertà di espressione conquistata finisse a nascondersi nei cliché delle dissonanze, nella teorizzazione dei gesti informi dell’istintivismo, quell’equivoco modo di travisare il concetto di libertà cui mi ha sempre messo in guardia l’amico e maestro Franco Ranieri. Tutti noi siamo il pubblico, l’intelligenza del pubblico andrebbe rispettata. In ogni caso, avere coscienza del contesto, così come anelare a instaurare una qualche connessione con il pubblico (l’odiens) credo rientri nelle responsabilità dell’artista. Le responsabilità del pubblico dovrebbero essere nelle istanze dell’ascolto senza preconcetti ma meglio non inerpicarsi in discorsi insanabili quanto domande esistenziali, destinati a perdersi nell’aria in circolo; le responsabilità rimbalzerebbero su quelle istituzioni che dovrebbero formare il pubblico, quindi verrebbero travolte dai venti delle politiche culturali per cadere infine nell’immensa cloaca iridescente dell’economia dell’Arte. Quindi non ne parlerò.
– Altre variabili del luogo / Congiunture del quotidiano / Il pubblico-musa
Sempre a proposito dei rapporti Improvvisazione-Contesto, ci sono poi una serie di variabili che possono incidere sullo svolgimento di una improvvisazione – o della performance più in generale – difficilmente codificabili perché soggettive o di carattere psicologico e che riguardano condizioni e congiunture più del quotidiano. All’artista conviene coltivare una discreta mobilità di pensiero e armarsi di spirito di adattamento anche per disporsi e affrontare alcune evenienze meno artistiche, poco romantiche e più di carattere tecnico. Ci sono vari modi per predisporsi alla performance: c’è chi fa yoga, chi training in sé stesso, chi riscaldamento, chi altre cose. Io di solito mi faccio la barba, se avanza abbastanza tempo tra il soundcheck e l’esibizione. Quanto al riscaldamento convengo che andrebbe fatto. A ogni modo, ancora diversa dalla sua intrinseca irripetibilità sarà una improvvisazione in un certo teatro per particolare conformazione, bellezza del luogo o per prestigio. Diversa e non necessariamente migliore. Fanno invece per me la differenza una buona acustica o amplificazione. Diversa e non necessariamente proporzionale sarà la qualità e la profondità della performance rispetto all’accoglienza degli organizzatori che accompagnano l’artista dal retroscena al palco; diversa e non necessariamente proporzionale sarà la qualità e la profondità della performance in relazione all’attenzione, alla partecipazione del pubblico. Benché il pubblico, quel pubblico che assiste, continui a essere uno degli elementi principali del contesto sullo svolgimento di una improvvisazione. È vero che l’attore in scena è il sacerdote del rito improvvisativo – e che si rivolge contemporaneamente sia alle persone in sala sia al mondo intero – ma sono convinto che un vero improvvisatore, nel giuramento all’Arte, non possa che cogliere l’umore, gli elementi narrativi del contesto a partire dal quel pubblico presente. Non sto asserendo che si pieghi necessariamente al favore del pubblico ma che quel peculiare pubblico presente sia una delle componenti fondanti della realtà condivisa nel luogo di quell’istante.
Il performer durante un’improvvisazione
Sempre fermo restando che una parte decisiva del contesto sulle sorti di una improvvisazione siano ovviamente eventuali altri attori partecipanti – discorso che meriterebbe un approfondimento a sé (ma devo consegnare questo scritto ai collaboratori di Roberto Castello) – come si fa a improvvisare? Non lo so. Certo è che una volta sul palco è il momento di mettere a frutto i propri studi e il proprio linguaggio, ovvero la somma di ciò che hai appreso dagli autori che ti appassionano, insieme a ciò che hai appreso nella pratica e nel confronto con gli altri. Serve un po’ di inventiva – anche quando le condizioni non sono favorevoli dicevo – nonché, se non innata, cercare di mantenere allenata una discreta prontezza di riflessi. La necessità dev’essere quella di dare senso al contingente, di reinventarlo all’impronta inseguendolo in ogni attimo del presente. Sebbene non lo si possa chiudere nelle forme. Per entrare nell’improvvisazione – ma potrebbe essere un pensiero molto soggettivo – lasciati gli ormeggi, si deve avere paura. Paura e responsabilità. Intraprendere l’oblio per abbracciare le sue sfide. Mettersi scomodi. A meno che non si intenda raggirare il pubblico, cioè tradire il giuramento all’Arte. Non ci si può riparare solo dietro il proprio bagaglio tecnico, nelle citazioni di sfoggio intellettuale o per ammiccare. Né tantomeno possono esistere le agevolazioni di una discreta posizione nell’immaginario artistico, l’improvvisazione è un’altra cosa. La prossima, quella che non conosci. Il linguaggio reinventa sul palco (soprattutto nel dialogo-confronto-rimpallo con altri attori-narratori partecipanti) e può succedere che ciò che credevi di sapere sembra improvvisamente inappropriato per raccontare la realtà nel luogo di quell’istante. Nel divenire ora insegui ora tenti di domare ogni attimo che è stato. Ma è ancora sembiante. Concentrazione massima. Siamo rivolti alla bellezza. Poesia. Humor. Errore. Ripetizione. Pattern. No pattern no. Anzi sì, rivisitato all’Adesso. Silenzio ritmico. Poi si sbaglia. Ancora. E pesa. Ma l’errore si sa, si può cavalcare, argomentare, assumerlo nella vita di una attimo. Nodale e transitorio come nella vita.
Si affaccia anche la bestia. E lo possiede. Dopo un altro silenzio di note. È l’animale antropomorfo, quello che contiene l’anima. E la manifesta. In sacrificio all’atto creativo.
E tutto contraddice, dimentica, parafrasando, senza voler commettere sacrilegio, Charlie Parker. Nella migliore delle ipotesi, tra istanti che culminano ed evaporano, durante il disegno di un soffio e uno scarabocchio di eternità e un’illusione che contiene tutto, il luogo, il pubblico, gli organizzatori, il mercato, lo swing, lo yoga, Franco Ranieri, gli dei e l’Oltre: l’ascesi.
L’improvvisazione avvince, sconfina le capacità del solista, il suo ruolo, il linguaggio trascende per i vocaboli del mentre, sconosciuti al suo creatore che diviene strumento, tramite, diventa l’improvvisazione. L’illusione.
Poi finisce. Talvolta ricomincia. Poi finisce.
Come si fa improvvisare? Non lo so. Ma se non è stato misticismo forse era un’improvvisazione.
John De Leo
John De Leo (all’anagrafe Massimo De Leonardis) è un cantante e compositore italiano nato a Lugo di Romagna il 27 maggio 1970. Artista trasversale, dalla vocalità duttile e sperimentale, la sua voce-strumento s’innesta in un’articolata concezione compositiva che attinge ai folklori popolari, al jazz, al rock, alla classica contemporanea, fino al reading e alle arti performative. Il critico e musicologo Stefano Zenni lo ha definito «il cantante più importante oggi in Italia». Collaboratore e promotore di innumerevoli progetti artistici non strettamente a carattere musicale ha collaborato con: Rita Marcotulli, Teresa De Sio e Metissage, Ambrogio Sparagna, Paolo Damiani, Stefano Benni, Banco del Mutuo Soccorso, Carlo Lucarelli, Stefano Bollani, Paolo Fresu, Danilo Rea, Furio Di Castri, Roberto Gatto, Franco Battiato, Enrico Rava, Carmen Consoli, Mederic Collignon, Ivano Fossati, Antonello Salis, Alterego e Louis Andriessen, Nguyen Le, Gianluca Petrella, GianLuigi Trovesi, Alessandro Bergonzoni, Maurizio Gianmarco, Fabrizio Bosso, Trilok Gurtu, Stewart Copeland, Uri Caine, Hamid Drake, Caparezza, Adrian Mears. Co-fondatore di Quintorigo, ha fatto parte dell’ensemble dal 1992 al 2004. Attualmente si esibisce con la sua JDL Grande Abarasse Orchestra (nove elementi) e nel progetto speciale JDL Grande Abarasse Orchestra + Orchestra Senzaspine, un ensemble di trenta musicisti. In qualità di ospite fa inoltre parte del progetto Gianluca Petrella Trio 70’s. In duo con il pianista Fabrizio Puglisi ha appena pubblicato l’album Sento Doppio – Musiche dell’Errore e altri Fonosimbolismi Antiregime (Carosello Records, 2017). Compare inoltre nell’ultimo album Prisoner 709 di Caparezza nei brani Prosopagnosia e Minimoog. Presidente dell’Associazione Culturale Lugocontemporanea, dal 2005 organizza l’omonimo Festival di Musica e altre forme espressive a Lugo di Romagna, con il patrocinio di Arci Bologna, Regione Emilia Romagna e di Greenpeace Italia. Nel 2016 gli viene conferito il riconoscimento di Ambasciatore UNESCO per la cultura. «Lo hanno avvicinato a Demetrio Stratos, Tim Buckley ma lui si sente vicino a Vil Coyote. Fa jazz ma non è jazzista, fa musica contemporanea ma sembra Rasputin, compone pezzi e testi sorprendenti ma sa fare delle cover fantastiche di Bowie e Stormyweather, ha suonato con Uri Caine ma non si ricorda perché è completamente pazzo.» Stefano Benni – Rolling Stone.
La nostra cultura dominante, in quanto cultura del dire e non del fare, tende a considerare quest’ultimo come un mero eseguire, ossia, letteralmente ed etimologicamente, come «ciò che segue a» (dal latino ex-sequi). Aprendo un qualsiasi dizionario linguistico, questi sono i primi significati del verbo “eseguire”: 1) mettere in pratica quanto è stato ideato o pensato, 2) mettere in atto quanto è stato predisposto. Se, dunque, il fare in quanto esecuzione consegue, segue a che cosa? Ad un ideare, ad un aver concepito, ossia ad un’elaborazione puramente ideale, che il fare esecutivo si limiterebbe a mettere semplicemente in pratica. Primo infondato presupposto di tale modo di intendere il fare: la radicale dimenticanza del fatto che il pensare stesso, fino a prova contraria, è un fare, il quale si esercita nelle sue pratiche pensanti. Secondo infondato presupposto: se prima si pensa ciò che si deve fare e dopo – in altro tempo e in altro luogo – si dà esecuzione a quanto (pre)pensato, allora ideazione ed esecuzione sono e restano momenti esteriori e trascendenti l’uno rispetto all’altro. Tra essi non c’è nemmeno una relazione, nell’accezione più piena del termine, secondo la quale, ovunque si dia un relazionarsi, i relazionantisi, nella loro reciproca interdipendenza, sono quello che sono solo a partire dal relazionarsi stesso dell’uno con l’altro e mai a prescindere da esso. Come potrebbe, pertanto, il fare esecutivo estrinsecare un pensare che lo trascende e che sussiste a priori nella sua indipendente realtà autonoma? La tradizione di pensiero occidentale moderna è talmente legata alla superstizione idealistica del pensare, che lo stesso Karl Marx, il fondatore del materialismo storico-dialettico, in un famoso e assai citato passo del I libro del Capitale, scrisse: «Il ragno compie operazioni che assomigliano a quelle del tessitore, l’ape fa vergognare molti architetti con la costruzione delle sue cellette di cera. Ma ciò che fin da principio distingue il peggior architetto dall’ape migliore è il fatto che egli ha costruito la celletta nella sua testa prima di costruirla in cera» (1). L’uomo si differenzia da qualsiasi animale non umano per il fatto incontrovertibile che solo l’uomo, in quanto architetto per eccellenza, costruisce prima idealmente nella sua testa ciò che poi apparirà nel mondo in quanto estrinsecazione sensibile dell’idea stessa. Tutta la realtà essenziale sta sostanzialmente nell’idea anticipata, la cui esecuzione è un seguitare contingente, il quale, al limite, potrebbe anche non seguire affatto. Questo modo alienato – se vogliamo usare ancora il linguaggio marxiano contro Marx stesso – di intendere il rapporto tra il pensare e il fare si accompagna, a livello squisitamente filosofico, alla separazione tra l’essenza e l’esistenza, nell’anteposizione (in tutti sensi) della prima alla seconda, come se qualcosa potesse essere quello che è, senza esistere. In questa prospettiva, il momento essenziale e decisivo sta, ovviamente, nell’ideazione anticipante, mentre il fare esecutivo è quello che semplicemente trasferisce l’idea sul piano della sua esistenza nel mondo.
Logocentrismo
L’astratta separazione di essenza ed esistenza, nel conseguente anteporre la prima alla seconda e la connessa astratta separazione di ideazione ed esecuzione, nel conseguente privilegiare la prima rispetto alla seconda, possono essere comprese e giustificate quali esiti degeneranti della civiltà della scrittura e della lettura silenziosa. Queste ultime sono, infatti, superpratiche – relativamente recenti rispetto al cammino millenario dell’umanità – che si esplicano a partire dalla irriducibile separazione del significato (nella sua natura puramente ideale e sovrasensibile) dal significante (quale corpo fisico-sensibile della parola stessa) e che si realizzano nella sistematica estrazione ed astrazione del significato dal significante, nel quale esso deve necessariamente incorporarsi (attraverso la cosiddetta codificazione) per poter percorrere i canali della trasmissione comunicativa. Nella comunicazione ordinaria secondo le teorie standard che la definiscono nella sua funzionalità strumentale, ciò che conta, in ogni messaggio, è il suo significato. Il significante vale solo come supporto materiale della trasmissione e, una volta che ha assolto tale funzione, non serve e non interessa più in quanto tale ed è destinato ad essere sistematicamente scartato e gettato via, come avviene in qualsiasi abitudinario atto di lettura silenziosa. Ciò che deve restare è il significato, ovvero una pura astrazione ideale e sovrasensibile. Piegandosi e conformandosi totalmente ai meccanismi di una comunicazione unilateralmente fondata su una certa interpretazione e pratica logico-verbale imperniata sulle valenze semiotico-semantiche del segno, gli sviluppi logocentrici della nostra civiltà della scrittura e della lettura hanno finito per depotenziare la centralità del fare, a favore del primato dell’astratta dimensione idealconcettuale, sino al punto da considerare il fare un eseguire estrinseco ed accidentale rispetto al pensare propriamente detto. Nel misconoscimento del fatto che Platone, il primo maestro del pensiero occidentale classico, aveva sostenuto che la filosofia, quale esercizio musicale del pensare, è pragma, il quale non è riducibile ad alcun mathéma, ossia ad alcun astratto contenuto teorico-concettuale. (2)
Il danzatore non pensa in modo verbale
Si può ben comprendere, allora, perché due tra le principali protagoniste della danza moderna e contemporanea quali Doris Humphrey e Pina Bausch abbiano dichiarato rispettivamente che: «il danzatore notoriamente non pensa in modo organico né verbale» (3) e che «ci sono momenti in cui si rimane senza parole […]. È proprio allora che inizia la danza…» (4). Se la comunicazione verbale, per i motivi menzionati, separa e antepone l’elemento astrattamente ideal/essenziale rispetto all’esistere stesso dell’esistente e assegna al fare un ruolo puramente esecutivo ed accessorio rispetto all’autentico pensare, l’arte della danza – nell’atto del suo pensare facendosi corpo e mondo all’opera – non può che nascere da una momentanea sospensione del potere locutorio, ovvero segnico-semantico, della parola. Sono, in generale, le pratiche artistiche del ‘900, a cominciare da quanto testimoniato da due indiscutibili maestri quali Duchamp e Magritte, la dimostrazione del fatto che tutta l’arte, a partire dalla stessa pittura, sono manifestazioni all’opera di un fare pensante, ovvero del fare mostrante e performativo del pensare in quanto tale. E, in questa prospettiva, la musica e ancor di più la danza risultano esemplari, nella misura in cui, in esse, il movimento del pensare si realizza, senza riflettersi e senza sdoppiarsi, nell’atto del disegnare i ritmici flussi di un mondo cangiante tutto da esperire, il quale esiste nei suoi processi in corso d’opera e non si limita ad in-sistere su oggetti autonomi ed indipendenti dai processi stessi.
Il darsi da sé della forma
Che le arti in toto in origine non fossero legate all’idolatria degli oggetti, né ricalcassero le funzioni semiotico-semantiche proprie del linguaggio verbale, lo ammette anche Aristotele nella Poetica, quando, nel riferirsi alla tragedia – nella quale notoriamente si metteva artisticamente all’opera l’ergon sinergico di parola, figura, musica e danza – ricorre al termine poiesis autoschedistiké. L’espressione indica un fare, il quale letteralmente si dà da sé i propri schemi, nell’atto del suo mettersi all’opera stesso. Nell’aggettivo usato da Aristotele si ritrova il tema della parola schéma, che, nella lingua originaria della filosofia, è uno dei termini che designano la forma. In particolare, per i Greci, schéma indicava la forma che si realizza quale figurazione in movimento e veniva usato in particolare a proposito della musica e della danza, per cui schémata erano tanto le figure musicali quanto le figurazioni secondo le quali si sviluppa una danza danzata. Nella produzione autoschediastica menzionata da Aristotele, tali forme non sono già date a priori, né sono, per così dire, calate dall’alto, ma si producono all’opera e in corso d’opera spontaneamente, ossia senza essere state determinatamente progettate, definite e anticipate prima, a livello di puro pensiero separato, allo scopo di essere eseguite poi nel corso dell’evento artistico propriamente detto. In questa condizione, non vi è mai un momento meramente esecutivo, il quale segue al decisivo momento ideativo, nel quale il dar forma si sarebbe già definitivamente compiuto. L’improvvisazione – che, nel contemporaneo, caratterizza soprattutto la danza e la musica jazz – non è altro che la massima radicalizzazione di tale modalità autoschediastica. Una tale pratica innanzitutto smentisce, nel modo più evidente, il fatto che, come ha sostenuto la linea culturalmente dominante della filosofia occidentale sia antica che moderna, il pensare non sia altro che un parlare discorsivo senza voce, nel quale, quindi, dominano le componenti semiotica e semantica proprie della dimensione locutoria del dire. Le pratiche artistiche dell’improvvisazione testimoniano, invece, che il pensare originariamente è un fare, il quale, nella sua intrinseca ed illocutoria pragmatica performativa, fa mondo senza bisogno di dire indicando, ovvero senza bisogno di affidarsi a dei segni, i quali da un lato sono tali solo nel rinviare a degli oggetti e dall’altro, nel loro rinviare-a, allontanano indefinitamente, in un infinito differimento, la cosa indicata stessa, la quale diventa l’oscuro oggetto di un vano desiderare mai appagabile. Le pratiche dell’improvvisazione, deflettendo il fare del pensare, è come se lo restituissero ai ritmi della sua circolazione quale respiro del mondo. Che cosa succede in ogni atto di respirazione? Ciò che tutto contiene, l’aria, viene contenuto e, nel contempo, ciò che è contenuto ritorna a contenere. Il fuori è dentro, nel mentre il dentro è fuori, in un continuum dinamicamente circolare, che non tollera cesure, né linearizzazioni. È opportuno precisare il fatto che la pratica improvvisativa non rinuncia affatto alla forma, bensì libera la forma dalla sua astratta definizione di schema anticipante rigido ed inflessibile. Nell’improvvisazione non avviene la mera esecuzione di forme pre-stabilite, perché ciò che si mette all’opera comporta l’attivarsi in corso d’opera di un campo formale che si rigenera da sé imprevedibilmente in tempo reale. Tale campo formale non è più soggetto ai principi logici dell’identità e della differenza, ma agisce restando immerso – ad libitum, fintantoché perdura l’esuberanza creativa del corpo pensante – nei processi di una continua autometamorfosi. Lo sforzo massimo di chi si impegna nell’improvvisazione consiste proprio nel non ostacolare e nell’assecondare le libere metamorfosi del campo formante, avendo cura di svuotare e non solo di riempire sino a saturare, al fine di non spezzare e non soffocare il respiro del pragma di un pensare, che si mette in atto qui e ora senza differimenti, né dilazionamenti. Un’improvvisazione può essere più o meno riuscita e felice quanto più riesce ad evitare quei momenti di apnea, i quali interrompono la continuità ritmica del respiro, finendo per ripristinare così i dispositivi propri della dimensione puramente logico-riflessiva del pensare stesso. Per essere all’altezza di ciò, non è affatto necessario abbandonarsi al più puro, casuale ed estemporaneo spontaneismo. Per il semplice fatto che, nell’arte dell’improvvisazione, la dimensione progettuale del pensare non viene ad essere negata, né eliminata. Essa si attua e agisce coralmente e in corso d’opera, fuoriuscendo dalla separatezza della pura intenzionalità pensante del soggetto-artista identitariamente concepito. Scrisse il poeta Mallarmé: «la danzatrice non è una donna che danza, […] non è una donna, ma una metafora» (5). Ciò che si richiede, pertanto – come sanno bene tutti coloro che si dedicano alle pratiche dell’improvvisazione artistica – è, comunque, un prolungato ed assiduo esercizio, che richiede un corrispondente training e che si realizza in primo luogo quale esercizio di pensiero all’opera per nulla lontano né alieno rispetto a quello del fare filosofia, ovvero, come diceva Socrate, del fare musica, nient’altro che musica (6). Musica e danza. ————————
Bibliografia
Platone, Lettera VII, In Platone, Tutti gli scritti, a cura di G.Reale, Rusconi, Milano 1991 Stoici antichi.Tutti i frammenti, secondo la raccolta di H. von Arnim, tr. it. a cura di R.Radice, Bompiani, Milano 2002 Plotino, Enneade IV, in Plotino, Enneadi, tr. it. a cura di G.Faggin, Bompiani, Milano 2000 Karl Marx, Il Capitale, tr.it. a cura di D.Cantimori, Editori Riuniti, Roma 1977 Alfred North Whitehead, Process and Reality (1929), Prentice Hall, Upper Saddle River New Jersey, 1979 Henry Bergson, Pensiero e movimento (1938), tr. it. Bompiani, Milano 2000 Giovanni Gentile, L’attualismo, a cura di E.Severino, Bompiani, Milano 2014/2015 Julius Evola, Lo Yoga della potenza (1949), Edizioni Mediterranee, Roma 1994 Gilles Deleuze, L’immagine-movimento. Cinema 1 (1983), tr. it. Einaudi, Torino 2016 Gilles Deleuze, L’immagine-tempo. Cinema 2 (1985), tr. it. Einaudi, Torino 2017 Jacques Derrida – Carlo Sini, Pensare l’arte. Verità, figura, visione, a cura di Studio Azzurro, Federico Motta, Milano 1998 Vaslav Nijinsky, Diari. Versione integrale, tr. it. di M.Calusio, Adelphi, Milano 2006 D. Humphrey, L’arte della coreografia. The Art of Making Dances, tr. it. a cura di B. Pollack, Gremese, Roma 2001 Dominique Dupuy, Danzare oltre. Scritti per la danza, tr. it. Ephemeria, Macerata 2011 Romano Gasparotti, Filosofia dell’eros. L’uomo, l’animale erotico, Bollati Boringhieri, Torino 2007 Romano Gasparotti, Il quadro invisibile, Cronopio, Napoli 2015 Romano Gasparotti, L’opera oltre l’oggetto. Sull’esperienza simbolica dell’evento artistico, Moretti&Vitali, Bergamo 2015 Ermini-Gasparotti-Nancy-Sala Grau-Zanardi, Sulla danza, Cronopio, Napoli 2017 Davide Sparti, Il corpo sonoro. Oralità e scrittura nel jazz, il Mulino, Bologna 2007 Davide Sparti, L’identità incompiuta. Paradossi dell’improvvisazione musicale, il Mulino, Bologna 2010 Giangiorgio Pasqualotto, Alfabeto filosofico, Marsilio, Venezia 2018 Massimo Donà, La filosofia di Miles Davis, Mimesis, Milano 2015 AA.VV. Improvvisazione, a cura di I.Pelgreffi, annuario Kaiak n.3, Mimesis, Milano 2018 ————————
Marx, Il Capitale, tr.it. a cura di D.Cantimori, Editori Riuniti, Roma 1977, libro primo, terza sezione, capitolo quinto, p. 212.
Cfr. Platone, Lettera VII
D. Humphrey, L’arte della coreografia. The Art of Making Dances, tr. it. a cura di B. Pollack, Gremese, Roma 2001, p. 21.
P.Bausch, “Dance, dance, otherwise we are lost”, in Art’O#4, gennaio 2000. Conferma pienamente ciò un altro danzatore e coreografo contemporaneo D.Dupuy, il quale ha scritto: “Danzare è la scelta ambiziosa e temeraria di colui che decide di essere senza parola.(…) Non si arriva forse alla danza per mancanza di parola? (D.Dupuy, Saggezza del danzatore, tr. it. Mimesis, Milano 2014, pp.14-15)
S. Mallarmé, “Balletti”, in Fechner-Mallarmé-Valery-Otto, Filosofia della danza, tr. it. a cura di B. Elia, il melangolo, Genova 1992, p.53
Come riporta Platone, Socrate aveva un sogno ricorrente, nel quale un demone gli diceva: “‘Socrate fa e coltiva musica’. E io, allora,(…) questo precisamente credevo(…), che il sogno mi incitasse a fare ciò che già facevo: a coltivar musica, convinto com’ero, che la filosofia fosse la più alta musica ed io non coltivassi altro che musica” (Platone, Fedone, 60e- 61a)
Romano Gasparotti
Filosofo, saggista e docente di discipline estetico-filosofiche si è formato teoreticamente con Emanuele Severino, di cui è stato assistente all’Università di Venezia, per poi concentrare la propria ricerca sulle forme del fare artistico e non. E’ stato co-fondatore e redattore della rivista di filosofia Paradosso, è redattore del Giornale Critico di Storia delle Idee e della rivista di architettura Anfione e Zeto, della quale è redattore della sezione “Le idee”. Ha presentato a catalogo e in mostra artisti internazionali e nazionali, tra i quali Hermann Nitsch, Shozo Shimamoto, Remo Salvadori, Vito Bucciarelli e ha collaborato con musicisti, artisti e danzatrici in lavori teatrali ed eventi spettacolari, di cui è co-autore e interprete. Dal 1989 ha co-curato(con Massimo Donà) le principali pubblicazioni a stampa, in lingua italiana e tedesca, dell’opera postuma e inedita del filosofo novecentesco Andrea Emo, per gli editori Marsilio, Cortina, Gallucci, Bompiani, Spur Verlag. Ha curato il volume In contrattempo. La pittura malgrado tutto, Mimesis, Milano 2007 (con il contributo di 9 artisti visivi e 6 filosofi). Tra le sue principali pubblicazioni filosofiche: Movimento e sostanza, Guerini, Milano 1995; Socrates y Platon, Akal, Madrid 1996; I miti della globalizzazione, Dedalo, Bari 2003; Figurazioni del possibile. Sul contemporaneo tra arte e filosofia, Cronopio, Napoli 2007; Filosofia dell’eros. L’uomo, l’animale erotico, Bollati Boringhieri, Torino 2007; L’inganno di Proteo. La filosofia come arte delle Muse, Moretti&Vitali, Bergamo 2010; Il quadro invisibile, Cronopio, Napoli 2015; L’opera oltre l’oggetto. Sull’esperienza simbolica dell’evento artistico, Moretti&Vitali, Bergamo 2015; Shozo Shimamoto e l’esperienza artistica quale esperienza poetica del pensare, edizione italo-anglo-giapponese,Edizioni Morra, Napoli 2017; Sulla danza (con J.L.Nancy, F.Ermini, N.Sala Grau, M.Zanardi), Cronopio, Napoli 2017.
Tra le tante angolazioni dalle quali l’antropologo Carlo Severi (1) ha studiato il rituale, ve ne è una, a mio avviso la più interessante, secondo la quale indagare il rituale significa indagare un modo d’azione specifico, talvolta definito anche come “contesto tecnico” specifico, a cui corrispondono delle forme di esercizio del pensiero altrettanto specifiche. Le sue ricerche comparative mostrano, ad esempio, che i rituali sono delle sedi privilegiate di una particolare forma di esercizio della memoria, risultato dell’interazione complessa di ingredienti molteplici quali le immagini, la parola rituale e l’immaginazione. Questo approccio allo studio del rituale sarebbe da ascrivere a un più vasto progetto di antropologia della conoscenza, alla quale l’allievo di Claude Lévi-Strauss e Georges Dévereau lavora da più di un decennio. Tale progetto affonda in una condanna dei modelli psicologici riduzionistici, come ad esempio quello piagetiano, limitato a una contrapposizione tra razionale e irrazionale, e si ispira invece a modelli più complessi, come quello proposto da Lev Semënovič Vygotskij, secondo cui varie e molteplici sarebbero le forme di esercizio del pensiero umano. Nel desiderio di inserirmi in questo vasto progetto teorico di antropologia della conoscenza, mi chiedo se sia possibile concepire uno sviluppo degli studi “severiani” sul rituale, occupandomi di studiare una cosiddetta situazione “quasi-rituale”. Senza mai azzardarne una definizione, negli ultimi anni Severi ha infatti fatto accenno, perlopiù durante le ore del suo corso settimanale di antropologia della memoria, a delle situazioni, di cui il gioco è stato preso talvolta come caso esemplificativo, che potrebbero essere estrapolate da quel flusso indefinito del quotidiano che solitamente gli antropologi contrappongono al rituale (nel classico binomio: quotidiano VS rituale), al fine di essere dettagliatamente studiate. Se si estendesse a queste ancora indefinite situazioni “quasi-rituali” la logica secondo cui a una forma d’azione specifica corrispondono forme di esercizio del pensiero altrettanto specifiche, la mia proposta, che diventa in questa sede la mia ipotesi, sarebbe che l’improvvisazione, e più nello specifico la composizione istantanea, costituisca un esempio interessante di azione specifica e, di conseguenza, di esercizio specifico del pensiero. Avendo questa ipotesi ancora molto generica come guida di ricerca, ho preso parte, nella veste di antropologa, agli ultimi tre incontri di Tempi di reazione, sperando di avere l’occasione di dialogare con alcuni dei danzatori, attori e musicisti invitati a questa rassegna dedicata all’improvvisazione.
Un progetto di ricerca ancora acerbo
Premetto che non mi sono mai occupata di studi sulle arti performative e lo spettacolo dal vivo, e che dunque tale ipotesi non è sorta da un esercizio intellettuale praticato in una biblioteca universitaria. La mia ipotesi prende forma in una scuola di danza torinese, dove ho sperimentato in prima persona, senza ancora sapere che cosa fosse, ciò che avrei in seguito scoperto essere la composizione istantanea di gruppo (dalle quattro alle otto persone). A partire da un tema surreale e da qualche regola condivisa riguardante a volte lo spazio, a volte il tipo di movimento, ecc., si praticava una forma di composizione istantanea che accanto al movimento non escludesse la possibilità di avvalersi né dell’uso della voce, senza restrizioni di forme, né di quello di oggetti. Metà del gruppo restava a guardare, così che vi fosse sempre la presenza di un pubblico. Un avviso importante fungeva da guida: la scena può essere piena di persone, parzialmente riempita, e essere anche lasciata vuota. Ideale sarebbe che sulla scena vi fossero solo coloro che in quel dato momento sono “nel sentire e non nel fare”. Ho così avuto modo di sperimentare questo entrare in un mondo altro, così vero, magnetico e potente e al contempo così fragile, soggetto a sgretolamenti imprevisti e improvvisi: tre minuti sei dentro, e poi improvvisamente succede qualcosa e ritorni nel mondo abituale, mentre sei ancora sulla scena, e allora senti che vuoi uscirne, perché la scopa che tieni tra le gambe e che fino a poco prima era un cavallo e tu un cavaliere, è ora solo una scopa, il gioco non sai perché si è rotto e ti fa male fingere con te stesso e con chi ti guarda che quello che hai in mano sia ancora un cavallo. Per fortuna la regola principale del gioco è proprio questa: uscire dalla scena quando si sente che non si gioca più, senza giudicarsi o sentirsi in colpa con se stessi e con gli altri. Ma fintanto che sei dentro, non ci sono mediazioni, il sentire coincide con il movimento, è attivato dalla presenza delle altre persone, dai loro movimenti, dai loro visi, dalle geometrie che si creano nello spazio, e al contempo emerge da un dentro multiforme di cui ci si scopre profani, come l’acqua dal dentro di una fontana dalle cavità misteriose scaturisce in un fluire di cui si è spettatori stupiti. Spettatrice stupita di me stessa e di quanto accadeva intorno a me, mi sono spesso sentita. Uno stupore che si estendeva anche alla sensazione che fintanto che noi che eravamo sulla scena eravamo in questo flusso, quest’ultimo sembrava coincidere con qualcosa che, per il pubblico, funzionava. Mi sono chiesta allora se questa sorta di stato altro di coscienza, vissuto talvolta anche solo per un tempo brevissimo da parte di coloro che erano sulla scena, e in qualche modo “diffuso” nello spazio, fosse in qualche modo visibile per il pubblico, e se fosse determinante nell’accogliere positivamente ciò di cui questo era spettatore. Da lì, mi è venuta in mente l’ipotesi di studiare la composizione istantanea: se vi sono degli “esercizi del pensiero” specifici, propri alla composizione istantanea, e se questi non restano solo a livello di un sentire individuale, ma si possono in un qualche assurdo e ineffabile modo vedere, allora forse si possono studiare!
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1. Carlo Severi è Direttore di ricerca a l’École des Hautes Études en Sciences Sociales di Parigi, membro del Laboratoire d’anthropologie sociale (Parigi) e del CNRS. Ha lavorato inizialmente sulla tradizione sciamanica degli Indiani Cuna di Panama, indagando le teorie indigene della malattia mentale e le modalità di trasmissione del sapere sciamanico. In seguito, ha sviluppato un’analisi comparativa delle arti della memoria proprie al contesto rituale, proponendo al contempo una teoria relazionale di quest’ultimo, concepita assieme a Michael Houseman. Attualmente si occupa delle forme di soggettività attribuite agli artefatti, specialmente nel contesto rituale (carloseveri.net).
Eleonora Musella
Nata a Roma, studia filosofia della scienza all`Università La Sapienza, laureandosi in filosofia della biologia con una tesi che indaga la teoria della selezione dei gruppi neuronali (teoria neurobiologica della percezione e della coscienza). Si trasferisce in seguito a Parigi per studiare antropologia sociale à l’École des Hautes Études en sciences sociales, specializzandosi in antropologia linguistica con una tesi su Keith Basso e la cultura degli Apache occidentali d`Arizona. Grazie a un progetto di ricerca antecedente, e sempre nel quadro della Laurea magistrale in antropologia, si trasferisce a Torino per il lavoro sul campo etnografico. Tema dell`indagine sono le valutazioni delle capacità genitoriali effettuate da psicologi ed educatori italiani nei confronti di genitori migranti residenti in Italia, nel quadro delle procedure d’adozione riguardanti i figli di questi ultimi. Nel corso del suo soggiorno torinese, scopre la pratica della composizione istantanea e da quel momento in poi, nasce in lei il desiderio di unire la passione per la ricerca teorica e l`indagine creativa in danza.
Noi cittadini italiani (ed europei) non siamo il centro del mondo. Dovrebbe essere una consapevolezza logica e diffusa. Ma non è così perché ci illudiamo che tutto ruoti intorno a noi e non ci accorgiamo, invece, che sappiamo poco di quello che accade nel mondo, specie nel Sud del mondo. Una delle ragioni di questo deficit di percezione sta nella qualità dell’informazione alla quale attinge il grosso della popolazione.
La maggior parte dei nostri concittadini acquisisce informazioni attraverso una moltitudine di media, ma il mezzo ancora preponderante attraverso cui passa l’informazione – la narrazione del mondo – è sicuramente la televisione. Qualche mese fa l’Osservatorio di Pavia, la Federazione nazionale della stampa italiana, l’Usigrai (sindacato giornalisti Rai) e l’ong Cospe hanno fatto una ricerca che si intitola Illuminare le periferie, anche se il titolo completo dovrebbe essere: Bisognerebbe illuminare le periferie. Si tratta di un’indagine, durata cinque anni a mezzo (dal 2012 al 2016 con un aggiornamento al primo semestre 2017), che ha analizzato le notizie delle sezioni esteri di sette telegiornali: i tre telegiornali Rai, i tre Mediaset e la Sette. Le edizioni di telegiornali analizzate sono 14.000 edizioni e viene fuori in maniera chiara che ai cittadini si propongono notizie, cioè immagini e testi, senza che venga spiegato il contesto in cui sono inserite e maturate queste notizie. Significa – ed è questo l’aspetto sottolineato dalla ricerca – che gran parte dell’opinione pubblica viene a sapere di fatti e di temi che riguardano altri paesi in maniera molto sbrigativa. Esempio: si affronta il tema dei migranti in Libia e della rotta mediterranea delle migrazioni senza spiegare la complicata situazioni politica libica, senza porre domande sull’affidabilità degli accordi che l’Italia ha fatto con il debole governo di Tripoli… e così il telespettatore non ha elementi per capire che cosa sta accadendo. Ma entriamo nel merito della modalità della ricerca, che comunque tocca aspetti diacronici, mostra le linee di tendenza sviluppate su cinque anni e mezzo, parla degli aspetti quantitativi – cioè di quali Paesi sono stati toccati più degli altri – e tocca anche questioni qualitative; ad esempio, se un telegiornale approfondisca di più i fatti di cronaca piuttosto che la politica o l’economia. Oltre all’assenza di un contesto in cui collocare le informazioni, l’altro aspetto che emerge è che il protagonista della sezione esteri dei nostri telegiornali è il mondo occidentale. Qualche dato: il 63% delle notizie riguarda Europa e Nord America (rispettivamente 43% e 20%); il 12% l’Asia; l’11% il Medio Oriente, il 9% l’Africa (con un aumento negli ultimi anni poiché si tratta di zone legate ai temi del terrorismo e delle migrazioni); infine, il 5% è rivolto al Centro America e al Sud America. La ricerca Illuminare le periferie riporta anche i dati di un’indagine, svolta nel 2016, che ha messo a confronto i principali telegiornali pubblici europei: France 2, Ard1 (Germania), Rtve (Spagna), Bbc (Gran Bretagna) e Tg1 in Italia. Anche qui emerge un forte eurocentrismo: il 45% delle notizie va a trattare dei Paesi europei, il 20% l’Asia, il 18% l’America del Nord, il 5% l’Africa, e il 4% l’America meridionale.
Si tratta, a questo punto, di capire se è davvero soltanto questo quel che passa il convento (dell’informazione), oppure no. La risposta secca è: no. C’è molto altro. Molto spesso si sentono le organizzazioni non governative denunciare che in Italia non si parla abbastanza di Africa, che significa “abbastanza”? Chi segue quotidianamente le vicende dei 54 paesi africani sa bene che molti quotidiani – da Avvenire al Sole 24ore, dal Manifesto a Repubblica e al Corriere, per non dire dei settimanali e delle riviste specializzate – forniscono analisi e racconti approfonditi di ciò che avviene in questa o quell’area del continente, consentono cioè di entrare nel merito dei problemi. Pensiamo solo al caso della Libia: dalla caduta di Gheddafi nel 2011 all’implosione dello stato, al peso dell’Eni in quella regione, dal ruolo dei due governi a quello delle milizia, dagli accordi del 2017 del governo italiano (ministro degli interni Marco Minniti) con il governo di Tripoli per bloccare il flusso dei migranti africani nel Mediterraneo alle rotte delle migrazioni dall’Africa occidentale attraverso Mali e Niger. Sono state scritte centinaia di pagine, forniti dati, dispiegate letture geopolitiche. Il tutto per dire che la Libia (lo stesso vale per il Mali e per in Niger) non è un Paese politicamente affidabile, che i migranti sono trattati come merci, che non ha senso affidare le frontiere esterne dell’Europa a un paese del genere. Il grosso dell’opinione pubblica se n’è accorto? Non sembra proprio. A molti nostri concittadini è sufficiente che qualcuno dica loro che il flusso dei migranti sta diminuendo, e il resto (chi li ferma? Come li ferma? Ma perché partono?) non interessa minimamente. Come se l’Africa non esistesse… Perciò non è sufficiente fornire articoli che entrano nel merito dei problemi, è necessario ci siano lettori che hanno intenzione di entrare nel merito dei problemi e quindi di dedicare del tempo alla cura della propria informazione.
Raffaello Zordan
Raffaello Zordan, giornalista, dal 1990 lavora nella redazione di Nigrizia (rivista mensile dei missionari comboniani fondata nel 1883). Del continente africano segue soprattutto le dinamiche politiche e sociali, con particolare riferimento alle aree francofone. Per affinare le proprie competenze ha avuto modo di recarsi nella Repubblica democratica del Congo, Ciad, Madagascar, Uganda, Kenya e Sudafrica. Tra i temi di cui sta occupando da diversi anni, c’è anche quello delle migrazioni africane verso l’Europa, che tanto ingiustificato e strumentale scompiglio suscitano qui in Italia.
Donne e diritti, donne e nuovi linguaggi, donne e potere. Al femminismo di ieri e di oggi è dedicato questo quarto numero di 93%. Federica Castelli (ricercatrice in Filosofia politica), partendo dalla dicotomia mente/corpo su cui si fonda il pensiero occidentale, ci racconta come sia stato proprio il femminismo a mettere in discussione questa dualità, aprendo degli spazi libertà impensati che parlano di “soggettività incarnata”, cioè di corpi politici con storie e percorsi diversi capaci di trasformare lo spazio pubblico in spazio pubblico appassionato. Raffaella Perna (storica dell’Arte contemporanea) si sofferma, in particolare, sulle battaglie degli anni Settanta, portate avanti dalle donne attraverso il loro corpo contro i linguaggi maschili. Artiste come Tomaso Binga, Paola Mattioli, Libera Mazzoleni, Marcella Campagnano sentono l’urgenza di esplorare nuove modalità espressive, che mettano in crisi canoni della tradizione artistica in cui il corpo della donna è rappresentato come oggetto passivo dello sguardo maschile. Meno sofisticato dell’avanguardia femminista è il movimento Femen, di cui ci parla Maria Grazia Turri (docente a contratto di Linguaggi della Comunicazione presso l’Università degli Studi di Torino). Le Femen – da alcuni viste con stupore, da altri con scetticismo – utilizzano il loro corpo per sbeffeggiare il potere, prendendo così posizione, da un lato, sul diritto a fare la escort e, dall’altro, opponendosi al perbenismo moralista e ipocrita che vorrebbe le donne tutte “perbene”. Barbara Leda Kenny, del Collettivo di donne ideatrici del Festival Inquiete, ci parla dell’oggi, di tutte quelle ragazze che dicono no alla violenza degli uomini attraverso marce, manifestazioni, proteste. Sono “le ragazze elettriche”, la cui avanzata viene seguita anche attraverso i romanzi e saggi usciti più di recente. Infine una scrittrice, Valeria Viganò, che si sofferma sui rapporti tra uomo e donna, sottolineando come – purtroppo e nonostante tutto – siano ancora oggi fondati sul patriarcato e sulla misoginia. Cioè il potere degli uomini sulle donne ancora perdura. Il femminismo ha dato alle donne consapevolezza del proprio corpo, ci spiega Valeria Viganò. Ora tocca agli uomini.
Da sempre, fin dai nostri primi giorni di scuola, abbiamo imparato a pensare e a nominare una dicotomia: quella tra la mente e il corpo. Crescendo, questa coppia oppositiva ci è stata raccontata in molti modi: dalla religione (che ci ha parlato dell’anima), dalla letteratura, dalla filosofia, a volte dalla medicina, persino dalla politica. In vari modi e sfumature il nostro corpo è sempre stato posto in opposizione a qualcosa. Ci troviamo davanti a un tratto caratteristico del sapere (e del potere) occidentale: sin dalla Grecia e dalla polis ateniese (da cui facciamo discendere la maggior parte del nostro immaginario sul mondo), il corpo ha rappresentato un nodo controverso, il polo dell’irrazionale, delle passioni, della natura e del femminile, che la cultura, la politica e la ragione hanno il compito di arginare e controllare. Questo schema oppositivo è fondante rispetto al pensiero occidentale, che si struttura secondo opposizioni nette e senza resti: mente/corpo, ragione/passione, natura/cultura, pubblico/privato, libertà/necessità, uomo/donna. A livello simbolico, poi, tutti i poli “negativi” di queste dicotomie finiscono per sovrapporsi e intrecciarsi tra loro, ricadendo sul femminile. Il femminismo ci ha aperto spazi di libertà prima impensati, ha inaugurato nuovi modi di stare in relazione, ha avviato percorsi di liberazione che continuano a propagarsi in diversi angoli del mondo, secondo diverse accezioni, radicandosi in contesti e pratiche differenti. Ma non solo. Nella sua lotta di liberazione, il femminismo ha liberato anche il sapere dalle sue gabbie, dalla sua struttura dicotomica, rovesciando il rapporto tra sapere e potere che sulla coppia identità/alterità è venuta a costituirsi nella storia occidentale. Il femminismo ha elaborato un sapere nuovo, radicato, corporeo. Mai astratto, mai universale, mai dogmatico, questo sapere si diffonde in modo imprevisto, in luoghi non accademici ma politici, in pratiche di scambio continuo. Il sapere elaborato dalle donne non coincide con l’elaborazione di una nicchia teorica che si occupa delle donne (come nell’accezione più ampia dei Gender Studies, che guardano alle donne come oggetti di studio e ricerca: storia delle donne, filosofia delle donne, letteratura delle donne…). O meglio, non si riduce a questo. Porsi come soggetto (e non oggetto) di sapere ha portato le donne alla messa in questione delle dicotomie fondanti della modernità, mostrando il loro essere costruzioni sociali e non dati immutabili (ossia “naturali”) della condizione umana; ha mostrato come queste dicotomie fossero funzionali alla struttura di un potere (nei fatti fallologocentrico e patriarcale, tendente all’unità e all’omogeneizzazione delle differenze), e delle sue tassonomie sociali, gerarchie ed esclusioni. Ha inoltre mostrato come nell’esperienza di ognuna molti di questi piani siano intrecciati, e di come il personale sia politico; ha innescato nuove pratiche di soggettivazione radicate nei corpi, nell’essere in presenza, nella relazione con le altre donne. L’elaborazione di questo sapere è nata direttamente dalle pratiche politiche delle donne, dal loro agire insieme una politica nuova, diversa da quella che il potere patriarcale ha tramandato: una politica che guarda al piano simbolico prima che ai diritti (un diritto di per sé è vuoto, se la società non cambia) che non guarda alla presa del potere istituzionale, ma mira a cambiare le relazioni quotidiane tra uomini e donne; e che mette al centro i corpi, pensati come sessuati, situati (in situazione), in relazione. Il femminismo ha pensato i soggetti non nella dualità del mente/corpo, ma come soggettività incarnate, costitutivamente in relazione agli altri e al contesto materiale. Ogni soggetto è soggetto incarnato, ha una storia, un percorso non astraibile dalle sue condizioni materiali, dal suo contesto, dal suo corpo. Ogni corpo è sessuato, e questa sessuazione dà avvio a una storia personale diversa, che si intreccia con le stratificazioni sociali attribuite al genere che in base a quel dato sessuato ci è stato assegnato. Siamo costituite da linee di potere che attraversano i nostri corpi, che tentano di normarli e gestirli. Inoltre, i corpi sono sempre in relazione: agli altri, all’ambiente, al potere. Sono esposti, mai autosufficienti. Non esiste dunque quel soggetto sovrano che il pensiero occidentale ha voluto raccontarci: pensabile a prescindere dalla propria relazione con gli altri, senza contesto, senza corpo, assoluto. Il corpo pone le sue domande alla politica, ha delle sue urgenze, e pone la relazione, lo scambio con gli altri e le pratiche come dimensioni fondanti dell’agire politico. Per questo il corpo è già dimensione politica. Inoltre il corpo è ciò che crea la politica, che permette lo spazio politico. Non è solo ciò a cui il potere si applica, ciò che viene regolato e gestito dal potere. I corpi hanno storie diverse, percorsi diversi, e insieme possono creare alleanze. Possono ad esempio performare la politica, portandola nelle piazze, come abbiamo visto negli scorsi anni (basti pensare alle proteste globali che dal 2011 in poi hanno contestato – in modo sempre specifico e legato al proprio contesto – l’ordinamento neoliberista, come ad esempio le varie espressioni del movimento Occupy), mostrando le esclusioni e le gerarchie dello spazio pubblico contemporaneo. Allo stesso tempo, queste pratiche corporee risignificano lo spazio pubblico e lo attraversano portandovi la passione, l’esposizione, la cura al centro. Rendendolo così uno spazio pubblico appassionato.
Qualche lettura che cambia la vita:
H. Arendt, Vita Activa. La condizione umana, Bompiani, Milano 1994 (ed. or. The Human Condition, University of Chicago Press, Chicago 1958).
S. de Beauvoir, Il Secondo Sesso, Il Saggiatore, Milano 2008 (ed. or. Le deuxiéme sexe, Gallimard, Paris 1949)
J. Butler, Questioni di genere. Il femminismo e la sovversione dell’identità, Laterza, Roma-Bari 2013 (ed. or., Gender Trouble: Feminism and the Subversion of Identity, 1990)
J. Butler, Corpi che contano, Feltrinelli, Milano 1996 (ed. or., Bodies That Matter: On the Discursive Limits of Sex, 1993)
J. Butler, L’alleanza dei corpi, Nottetempo, Milano 2017 (ed. or., Notes Toward a Performative Theory of Assembly, 2015)
A. Cavarero, Corpo in figure, Feltrinelli, Milano 2003
A. Cavarero, Inclinazioni. Critica della rettitudine, Raffaello Cortina, 2014.
L. Cigarini, La politica del desiderio, Pratiche, Parma 1995.
Diotima, Potere e politica non sono la stessa cosa, Liguori, Napoli 2009.
Libreria delle donne di Milano, Non credere di avere dei diritti, Rosenberg & Sellier, Torino 1987.
C. Lonzi, Sputiamo su Hegel, in Lonzi C., Sputiamo su Hegel e altri scritti, Rivolta Femminile, Milano 1974.
N. Loraux, Il femminile e l’uomo greco, Laterza, Roma-Bari 1991 (ed. or., Les expériences de Tirésias. Le féminin et l’homme grec, Gallimard, Paris 1989).
Rivolta Femminile, Manifesto di Rivolta Femminile, in Lonzi C., Sputiamo su Hegel e altri scritti, Rivolta Femminile, Milano 1974.
Federica Castelli
Federica Castelli ha conseguito un Dottorato di ricerca presso l’Università di Modena e Reggio Emilia ed è attualmente assegnista di ricerca in Filosofia Politica presso l’Università Roma Tre. È stata visiting researcher presso l’Università Paris VIII e l’ècole des hautes ètudes en sciences sociales (EHESS). È redattrice di DWF – Donnawomanfemme, rivista del femminismo romano, con cui ha iniziato a collaborare dal 2009. Dallo stesso anno fa parte della redazione di IAPh Italia, sito della sezione italiana dell’Associazione internazionale delle filosofe. Per IAPh ha curato, assieme a Chiara Belingardi, il volume Città. Politiche dello spazio urbano (2016) e il ciclo di seminari “Lineamenti teorico-politici di femminismi, genere, differenze”, presso l’Università Roma Tre. Collabora con il Master in studi e politiche di genere dell’Università di Roma Tre, per il quale era già stata coordinatrice delle attività curriculari e delle attività seminariali (ed. 2015, 2017, 2018). Ha fatto parte delle Diversamente Occupate, del collettivo Femministe Nove e del gruppo Verlan (che ha curato il volume Dire, fare, pensare il presente, Quodlibet, Macerata 2011). È autrice di Corpi in Rivolta. Spazi urbani, conflitti e nuove forme della politica (Mimesis, Milano 2015) e di Il pensiero politico di Nicole Loraux (IAPh Italia, Roma 2016).
Il corpo delle donne è un terreno sul quale negli anni Settanta si combattono molte battaglie. In questo decennio, in Italia, le donne lottano per il cambiamento dei tradizionali assetti borghesi nell’ambito della famiglia, del lavoro, della cultura, della politica, della sessualità. Il movimento femminista si mobilita in occasione del referendum abrogativo sul divorzio, si batte per la riforma del diritto di famiglia, che sino al 1975 era basato sui precetti del Codice del ’42, lotta per la depenalizzazione dell’aborto e l’approvazione delle leggi sull’interruzione volontaria della gravidanza e contro la violenza sulle donne, all’epoca ritenuta un reato ai danni della morale e non della persona. Il femminismo, nelle sue varie fasi e declinazioni, ha costituito la sfida più profonda e radicale al pensiero occidentale e alla cultura patriarcale della società tardocapitalista. Numerose sono in Italia le artiste che ne abbracciano la causa, malgrado le resistenze e l’impermeabilità del sistema dell’arte italiano, allo scopo non soltanto di denunciare le ingiustizie subite (la difficoltà di accedere alle grandi rassegne espositive, alle collezioni pubbliche e private, al mercato…), ma anche e soprattutto per porre in discussione le pratiche e i linguaggi maschili. Per le artiste italiane vicine al pensiero e alla pratica del femminismo – come Tomaso Binga, Paola Mattioli, Libera Mazzoleni, Marcella Campagnano – l’urgenza è quella di esplorare nuove modalità espressive, che mettano in crisi i canoni della tradizione artistica in cui il corpo della donna è rappresentato come oggetto passivo dello sguardo maschile.
Alcune di loro militano nei gruppi femministi e praticano l’autocoscienza. Mattioli, ad esempio, partecipa a Milano all’esperienza del “gruppo del mercoledì”, formato da donne che sperimentano l’autocoscienza preferendo l’immagine alla parola. Altre, come Binga e Mazzoleni, pur non militando, abbracciano le idee del femminismo e leggono i manifesti e i testi teorici, soprattutto gli scritti Sputiamo su Hegel e La donna clitoridea e la donna vaginale di Carla Lonzi e Speculum. De l’autre femme di Luce Irigaray, fonti essenziali per la diffusione del pensiero della differenza nel nostro Paese. L’incontro con il femminismo per queste artiste costituisce l’occasione per ripensare la propria condizione di donna nella vita quotidiana, nei rapporti personali e istituzionali, nel lavoro domestico e soprattutto in quello artistico. La cesura tra la sfera personale e quella pubblica viene messa in discussione e le tematiche legate alla sessualità, al corpo, all’affettività e al desiderio entrano con forza nelle loro opere. Nel 1971 Bianca Pucciarelli, artista attiva nel campo della poesia visiva e fonetica, abbandona il proprio nome di battesimo per assumere lo pseudonimo maschile “Tomaso Binga”: con questo gesto dichiara come l’ingresso nel mondo dell’arte comporti l’adeguamento al canone e al linguaggio maschili. Da sempre oggetto silenzioso del discorso altrui, la donna riparte dal proprio corpo per trovare una pratica espressiva alternativa: nella serie Scrittura vivente, esposta nel 1976, Binga si fa ritrarre mentre assume con il proprio corpo nudo la forma delle lettere alfabetiche. Questo nuovo alfabeto corporeo è concepito per riscattare l’occultamento della fisicità e l’apparente neutralità del linguaggio, in cui la donna non si riconosce, attraverso una rivalutazione dell’imperfetto, dell’errore, del fuori posto.
“Non vogliamo più sentirci entità astratte”, scrive Binga, “ma persone fisicamente, socialmente, politicamente umane”. Il senso di estraneità al linguaggio espresso in questa serie è alla base anche della Scrittura desemantizzata, realizzata da Binga a partire dal 1974, tracciando segni grafici in cui la scrittura canonica è deformata al punto da essere illeggibile: “La mia”, sostiene l’artista, “è una scrittura subliminale, nel senso che essa agisce (vorrei che agisse) dentro di noi senza essere distratti dal significato corrente delle parole e senza essere frastornati dal suono delle parole stesse: allora si può anche definire una scrittura silenziosa”. Snervate sino a perdere di significato, le parole di Binga sembrano conservare la memoria dei silenzi imposti alla donna. Con questa grafia l’artista progetta una tra le sue opere più significative: nel 1976 realizza in un’abitazione privata romana l’azione Carta da parato, riproposta l’anno successivo a Riolo Terme e alla Galleria d’Arte Moderna di Bologna.
In occasione della performance l’artista tappezza le pareti delle stanze con carte su cui sono tracciati a mano segni grafici che riempiono lo spazio per intero. Indossando un abito realizzato con la stessa carta, l’artista si mimetizza nell’ambiente e declama a più riprese la poesia Io sono una carta. L’azione dà corpo all’espressione gergale “fare carta da parati”, riferita a quelle donne, considerate poco avvenenti, che alle feste non venivano invitate a ballare e restavano in attesa, incollate alle pareti. Confondendosi con lo spazio domestico, luogo tradizionalmente femminile, l’artista rappresenta la secolare difficoltà della donna di esprimersi liberamente: Binga mette in scena una storia, quella della donna, fatta di silenzi forzati, non detti, parole trattenute e ideali di bellezza a cui non può e non vuole conformarsi. Il corpo femminile è al centro anche dell’opera Juissance, in cui Paola Mattioli, artista milanese formatasi sotto la guida del filosofo Enzo Paci, tuttora attiva nei gruppi femministi, propone una sequenza di fotografie in bianco e nero tratte da riviste pornografiche. Mattioli ritaglia il particolare di sette volti di donne, colte nel momento dell’orgasmo. In queste immagini il piacere femminile è ridotto a una pantomima, a una ripetizione di smorfie e gesti meccanici, quasi identici, agiti per lo sguardo e il piacere altrui: l’orgasmo femminile è rappresentato soltanto in funzione di quello maschile. Successivamente Mattioli, attingendo al suo archivio fotografico, ha accostato alle immagini trouveés, il ritratto di un uomo che entra furtivo in un cinema porno; è lui, che siederà davanti allo schermo, lo spettatore ideale delle foto di donne raccolte da Mattioli, la quale, inserendone il ritratto nell’opera, rende ancor più esplicito il rapporto di subalternità della donna nella dinamica della visione. Da questi due esempi, sintomatici di una realtà più ricca e complessa, rimasta a lungo ai margini della storia dell’arte, emerge l’importanza del pensiero e della pratica del femminismo nella ricerca delle artiste attive in Italia negli anni Settanta. Pur tra molte difficoltà, le artiste italiane hanno infatti trovato spazi e modi per condurre sperimentazioni volte a porre in discussione i modelli borghesi di rappresentazione della sessualità, del corpo, dell’identità.
Raffaella Perna
Raffaella Perna consegue nel 2014 il titolo di Dottore di ricerca in Storia dell’arte presso l’Università di Roma La Sapienza. Nel 2015 è assegnista di ricerca presso lo stesso ateneo. Dal 2016 è professore a contratto di Storia dell’arte contemporanea all’Università di Macerata. I suoi studi si sono concentrati sui legami tra la neoavanguardia italiana degli anni Sessanta e Settanta e la fotografia e sui rapporti tra arte e femminismo in Italia, argomenti a cui ha dedicato diversi saggi, conferenze e i libri: Arte, fotografia e femminismo in Italia negli anni Settanta (2013), In forma di fotografia. Ricerche artistiche in Italia tra il 1960 e il 1970 (2009). Tra i saggi: Il potere del secondo sesso: il corpo della donnae il culto della Dea nell’arte femminista degli anni Settanta (catalogo della mostra La Grande Madre, a cura di M. Gioni, Palazzo Reale, Milano 2015); Mostre al femminile: Romana Loda e l’arte delle donne nell’Italia degli anni Settanta (in Ricerche di S/confine, 2015). È inoltre curatrice dei volumi: Ketty La Rocca. Nuovi studi (con F. Gallo, 2015); Etica e fotografia. Potere, ideologia e violenza dell’immagine fotografica (con I. Schiaffini, 2015); Il gesto femminista. La rivolta delle donne: nel corpo, nel lavoro, nell’arte (con I. Bussoni, 2014) e Le polaroid di Moro (con S. Bianchi, 2012). Tra le mostre: L’altro sguardo. Fotografe italiane 1965-2015 (Triennale di Milano, cat. Silvana Editoriale, 2016), Grandi fotografi a 33 giri e Synchronicity. Record Covers by Artists (Auditorium Parco della Musica di Roma), dedicate alle cover realizzate da fotografi e artisti internazionali dagli anni Cinquanta a oggi. Ha recentemente pubblicato la monografia Piero Manzoni e Roma, nella collana Pesci Rossi, Electa 2017.
Storicamente, il Festival di Bayreuth è stato il primo a conferire alla progettazione di eventi che si svolgano in un determinato luogo, in un determinato periodo dell’anno e al di fuori della normale programmazione dei teatri, quei connotati culturali che le pratiche novecentesche avrebbero poi reso ricorrenti. Wagner, infatti, spezzò l’unitarietà del teatro ottocentesco opponendo alla sua articolazione di generi capillarmente diffusi (il grand opéra, l’opera italiana, la pièce bien faite, la tragedia, il dramma storico…) forme monumentali del nuovo necessario. Attraverso di lui, il festival cambia natura, trasformandosi da progettualità iscritta nella filiera delle pratiche sociali in un veicolo di esperienze estetiche decisamente contrapposte alle concomitanti normalità del teatro e del vivere borghese. Le premesse, l’istituzione e le successive gestioni del Festival di Bayreuth mostrano come l’organizzazione di una teatralità di eccezione possa, in determinate circostanze, riguardare tutto e il contrario di tutto: utopismo anarchico, comunismo, Reich prussiano, nazionalsocialismo, radicali riforme del linguaggio, rigidi modelli demiurgici, reti internazionali, enclave nazionaliste, massa, individualità irriducibili, conventicole, festa popolare e festa rivoluzionaria. Per questa ragione, parlare oggi della storia di Bayreuth, non significa soltanto richiamare alla memoria un caso di straordinario interesse, ma anche considerare, sulla base d’una campionatura di eventi particolarmente estesa e significativa, le dinamiche sociali, economiche ed estetiche, che animano dall’interno le potenzialità dei festival, facendo di questa pratica organizzativa uno strumento di relazione con le tematiche del mondo sociale.
Dal rogo dell’opera al teatro di famiglia
Prima di completare l’Anello del Nibelungo e di fare del Festival di Bayreuth l’ideale contesto della sua celebrazione, Richard Wagner, isolato, sprovvisto di mezzi economici ed esiliato da tutti i paesi della Confederazione germanica a seguito della partecipazione ai moti di Dresda (1849), aveva pensato di concludere il processo compositivo della Morte di Sigfrido – primo germe della monumentale saga – con una incendiaria performance di carattere rivoluzionario e festivo. Nel settembre del 1851, scrive a Theodor Uhlig, un giovane adepto della prima ora: «Se potessi mai disporre di 10.000 talleri, farei la cosa seguente: – qui [a Zurigo] dove mi trovo appunto, e molte cose non sono poi così male, erigerei secondo i miei piani su un bel prato presso la città un rozzo teatro di legno, corredandolo soltanto delle decorazioni e del macchinario necessario alla rappresentazione del Sigfrido. Poi mi sceglierei i cantanti più adatti che esistano, invitandoli per sei settimane a Zurigo… con lo stesso sistema convocherei la mia orchestra. Sin dalla primavera gli annunci e gli inviti verrebbero diffusi a tutti gli amici del dramma musicale attraverso tutti i giornali della Germania, con l’invito a presenziare la progettata festa musicale drammatica; chi si prenota, e a questo scopo intraprende il viaggio a Zurigo, gode del diritto d’invito – naturalmente, come ogni invito, gratis! Inoltre inviterei la gioventù del luogo, l’università, le società corali ecc. Una volta fatto tutto questo, organizzerei a queste condizioni tre rappresentazioni del Sigfrido in una settimana; dopo la terza il teatro verrebbe distrutto, e la mia partitura bruciata». Il progetto non venne realizzato, tuttavia l’idea che la Tetralogia – poi scaturita dalla Morte di Sigfrido – non fosse compatibile alle prassi e agli orizzonti culturali del repertorio operistico e tendesse piuttosto a sfociare in una perfomance unica, si radicò nel pensiero del Maestro, che, nel dicembre 1851, scrive nella Comunicazione ai miei amici: «Io penso di rappresentare quei tre drammi con il prologo in una festa della durata di tre giorni con una vigilia: e penso di considerare raggiunto pienamente lo scopo, se riesce a me e ai miei compagni d’arte, cioè i veri esecutori, di comunicare in queste quattro sere agli spettatori, riunitisi per conoscere le mie intenzioni, quest’intento di vera comprensione sentimentale (non critica). Un’ulteriore ripetizione della serie mi è indifferente e mi sembra inutile». (Il corsivo è mio) Questi primi abbozzi di festival presentano, già nettamente delineate, alcune caratteristiche che verranno riprese dal Festival di Bayreuth. Osserviamo la volontà di disgiungere le imprese d’arte da ogni proposito d’industria; la separazione delle opere d’eccezione e delle loro modalità rappresentative dal sistema dell’intrattenimento teatrale; il programma di scegliere gli artisti sulla base della loro partecipazione ai valori culturali del progetto; l’idea che il pubblico debba venire convocato in vista di una «comprensione sentimentale» che s’incunea nell’identità degli spettatori, formando collettività idealmente coese. Tuttavia, fra gli irrealizzati festival di Zurigo e quello Bayreuth passa una linea di demarcazione che salda i primi alla fase rivoluzionaria e socialista di Richard Wagner, mentre fa del secondo un’istituzione culturale compatibile alla svolta imperiale di Bismark e di Guglielmo I, che, non a caso, presenziò allo spettacolo inaugurale del Festival, dove venne entusiasticamente acclamato. Questa linea divisoria è costituita dal diverso atteggiamento del Maestro nei riguardi della dimensione temporale. Il Wagner reduce dalle barricate di Dresda tendeva a privilegiare l’immediatezza della performance rispetto ai rituali del repertorio, la densità dell’esperienza rispetto alla durata delle forme, le proprietà rigenerative della distruzione rispetto ai soffocanti accumuli prodotti dall’opposta vocazione a conservare. Nel suo pensiero politico, nella sua fantasia di artista e nelle sue riflessioni teoriche ritroviamo, in quegli anni, immagini d’incendio. Il fuoco – come narra la poesia Die Noth (La necessità, marzo 1849) –, arde il vecchio ordine mondiale e le sue città, ma anche la pira di Sigfrido, il Walhalla, la partitura wagneriana… Questa concezione, che faceva dipendere la salvezza futura dal rogo del presente, si alimentava a due fonti: la visione di Bakunin, frequentato all’epoca degli scontri, e le fondamenta performative dell’estetica wagneriana. Circa la prima, vale la pena citare la testimonianza dello stesso Wagner, che, riportata ne La mia vita, non lascia però trasparire i trasporti emozionali suscitati dall’ascolto del grande anarchico: «Si riferiva [Bakunin], […], alla gioia tra infantile e demoniaca del popolo russo per il fuoco, sulla quale già Rostopchin [il generale governatore di Mosca durante l’invasione napoleonica] aveva fondato il suo stratagemma antinapoleonico dell’incendio di Mosca. Secondo lui occorreva soltanto persuadere il contadino russo […] che l’incendio dei castelli dei suoi padroni, con tutto ciò che v’era dentro e intorno, era una cosa giusta e accetta a Dio, per scatenare sul mondo un movimento dal quale almeno si sarebbe prodotta la distruzione di tutto ciò che, al lume delle più profonde ragioni […], doveva necessariamente apparire come la vera fonte della miseria di tutto il mondo moderno. Mettere in moto questa forza di distruzione, gli pareva il solo scopo degno dell’attività d’un uomo ragionevole». Le fondamenta performative del pensiero wagneriano vengono affermate, nel 1850, in una lettera a Liszt: «Tutto il nostro poetare e comporre proviene dal volere non dal potere; solo la rappresentazione, cioè l’arte, è potere. – Credimi, io sarei dieci volte più felice se fossi un attore invece d’un poeta drammaturgo e compositore. – Ora con queste convinzioni non può più importarmi di creare Opere alle quali sia tolto in precedenza di vivere nel presente, nella lusinga d’una futura immortalità immaginaria». Sull’argomento Wagner sarebbe ritornato negli scritti dedicati agli attori/cantanti. Qui, però, la vicinanza dell’esperienza rivoluzionaria suggerisce una formula sintetica e onnicomprensiva, che attribuisce il potere esercitato dall’arte del teatro alla sola performance, mentre considera la composizione un esercizio della volontà destinato, in assenza di interpreti, a non esercitare alcuna influenza sullo spettatore e sul mondo sociale. Il voler essere soprattutto un attore, da un lato, conferma le critiche di Nietzsche che, ne Il caso Wagner, sostiene che il compositore «divenne musicista, divenne poeta, poiché il tiranno dentro di lui, il suo genio istrionico ve lo costringeva», dall’altro, svela, nel Maestro, l’insopprimibile bisogno di esistere in quanto forza attiva nel presente e sul presente. Durante la fase rivoluzionaria, Wagner riteneva che fossero le azioni concrete a mutare le realtà del mondo, mentre, più tardi, apprenderà a trasferire la propria pervasiva volontà dagli scritti e dalle opere che ne venivano originati, alla mente delle persone che questi stessi scritti ed opere, leggevano, vedevano, ascoltavano. Nella prima prospettiva, il tempo storico si configura in quanto successione di presenti abitati da azioni che agiscono nell’immediato: di qui il pensiero, all’epoca rivoluzionario e di per sé postmoderno, di bruciare la partitura della Morte di Sigfrido facendo coincidere l’esistenza dell’opera con la sua rivelazione performativa. Nella seconda prospettiva, invece, il tempo è una successione di durate che coinvolgono i destini delle persone, indirizzandone percezioni, intenti, progetti, capacità. A differenza del Wagner rivoluzionario, il Wagner di Bayreuth è ossessionato dall’idea di far durare il proprio festival. E ciò fino a renderne possibile il passaggio, per via ereditaria, al figlio Sigfried. Scrive a re Luigi II il 18 novembre 1882: «suppongo di avere circa dieci anni di salute; intanto mio figlio sarà divenuto completamente adulto, e soltanto a lui affiderò la conservazione spirituale e morale della mia opera; perché non conosco nessun altro a cui potrei trasmettere il mio ufficio». È dunque anche per ragioni economiche che Wagner riserva a Bayreuth il diritto di rappresentare il Parsifal in esclusiva fino al trentesimo anniversario della propria morte (1º gennaio 1913).
Un obbligo dell’arte: mutare l’esistente
Il passaggio dalla sulfurea dispersione della Morte di Sigfrido nella collettività dei partecipanti, al pluridecennale inquadramento del Parsifal fra le prerogative del Festival, implica, in Wagner, un mutamento di passo certamente importante, ma che riguarda più il livello degli strumenti che quello degli obiettivi, più la posizione sociale ed economica del drammaturgo che non le sue interazioni con l’esistente. Esule da tutti i paesi della Confederazione germanica, Wagner era un drammaturgo senza teatro, senza interpreti, senza scene. Il Tannhäuser e il Lohengrin, anche grazie all’impegno di Liszt, Kapellmeister presso la corte di Weimar, diventavano sempre più popolari, ma Wagner non poté assistere alle loro rappresentazioni valutandone di persona punti di forza e mancanze. L’esilio, riguardando i paesi di lingua tedesca che, più degli altri, erano potenzialmente interessati alle sue opere, aveva separato, in lui, l’arte di comporre dal vitale intreccio con gli aspetti tecnici e interpretativi della materialità scenica. Questa difficilissima situazione di involontario isolamento, lo portò, da un lato, a cercare nel ragionamento teorico criteri e valori ai quali riferire i processi creativi, dall’altro, a sondare forme di realizzazione e verifica assai diverse da quelle garantite dal sistema teatrale che l’aveva escluso. Mi riferisco alla festa rivoluzionaria pensata per La morte di Sigfrido, agli allestimenti unici delle Tetralogia, ai rapporti con i cantanti dilettanti, all’attivazione di enclave di sostenitori e adepti, ai concerti di brani drammatico-musicali e alla pratica delle letture, che gli consentiva di affinare doti attoriali e di raccogliere, da strette cerchie di ascoltatori, suggestioni e suggerimenti talvolta fondamentali. In questo humus composito ed unico, la lontananza dal teatro si convertì da disperante menomazione, in condizione organica al compimento di creazioni avulse dalle istituzioni teatrali esistenti e, quindi, naturalmente indirizzate a generarne di nuove. Scrive Wagner a Uhlig in una lettera del 12 novembre 1851: «Con questa mia nuova concezione [dell’Anello del Nibelungo] mi allontano completamente da ogni riguardo per il nostro attuale teatro e il nostro pubblico: rompo decisamente e per sempre con le formalità del presente». L’Anello del Nibelungo, Tristano e Isotta, I Maestri cantori di Norimberga, manifestano la capacità di adattamento e le strategie di rilancio di Richard Wagner che, nel corso della sua accidentata esistenza, seppe trasformare i momenti di crisi in vitali condizioni di ripartenza. Il Festival di Bayreuth, luogo consacrato al dramma wagneriano, sembrerebbe essere il logico coronamento di questa successione di arretramenti e contraccolpi ascensionali, la sua realizzazione, però, fu resa possibile solo dal generoso sostegno offerto da Luigi II di Baviera. L’imprevedibile seduzione esercitata dalla musica di Wagner sul giovane monarca è, insomma, la conditio sine qua non del Festival. Sulla base dei romanzeschi rapporti fra il compositore e il re, si venne comunque a riprodurre la tipica strategia wagneriana, sempre pronta a capovolgere in senso positivo rotture e crisi. Il progetto di costruire un teatro consacrato al dramma wagneriano, si delinea infatti a partire dal 1865, allorché l’ostilità del mondo politico bavarese costrinse Wagner a lasciare Monaco, dove Luigi II l’aveva posto alla guida del teatro d’opera. Anche in questo caso, come nel periodo dell’esilio, l’arretramento non fa che tendere le energie che produrranno il successivo balzo in avanti. La scelta cadde su Bayreuth, cittadina che non aveva una vita culturale che potesse competere con l’incipiente “dominio” wagneriano e che, inoltre, si trovava al di fuori delle regioni in cui Wagner non godeva più dei diritti d’autore. Diritti che aveva venduto nel 1864 per far fronte ai pressanti problemi finanziari. Fallito il tentativo di coinvolgere l’onnipotente cancelliere prussiano, Bismarck, l’impresa poté partire solo grazie all’intervento di Luigi II, che concesse il prestito di 100.000 gulden da restituire entro 18 mesi dall’inaugurazione del Festival. Fin dall’origine, Bayreuth si contrappone, forte della propria superiorità culturale, al sistema teatrale vigente e, al contempo, manifesta posizioni organiche al potere regio e all’ideologia del Reich prussiano. Commentando l’inaugurazione del Festival nel 1876 (vivente Wagner, sarebbe seguita solo l’edizione del 1882), Karl Marx parla con indignazione, in una lettera a Engels, di «Wagner musicante dello stato». Le fiamme di Bakunin sembrerebbero essersi spente del tutto. Eppure, a Bayreuth come a Dresda, l’azione culturale e artistica di Wagner continuò a perseguire uno stesso obiettivo: agire sull’esistente modificandolo. Negli anni dei moti, si era trattato di assimilare il modello dell’azione rivoluzionaria; in quelli di Bayreuth, si vengono invece a sperimentare nuovi protocolli spettacolari (il buio in sala), nuove strutture architettoniche (la soppressione dei palchetti, l’orchestra invisibile, la platea digradante secondo il modello dell’anfiteatro) e nuove forme aggregative, comunicative e di interazione sociale. Soluzioni, queste, che anticipano diverse caratteristiche dei contemporanei festival dediti all’innovazione teatrale. Bayreuth, infatti, dissemina associazioni di supporter; integra le rappresentazioni con iniziative culturali; si dota d’un proprio periodico (i «Bayreuther Blätter»); richiama un pubblico internazionale e i principali critici; forma spettatori intellettuali; influenza la vita della città moltiplicando collegamenti e corse dei treni; contrappone ai teatri d’intrattenimento la propria (discutibile) supremazia tecnologica; alimenta atteggiamenti settari, ma anche confronti di svolta intorno alla nascente estetica dello spettacolo. Per un soffio, il Festival Bayreuth non è stato uno dei luoghi di nascita della regia teatrale modernamente intesa. Adolphe Appia, infatti, sottopose il suo piano di allestimento per l’Anello del Nibelungo a Cosima Wagner, che lo rifiutò sdegnata. Le motivazioni della vedova del Maestro, divenuta direttrice e domina del Festival, risultano da una lettera, scritta a Houston Stewart Chamberlain il 13 maggio 1896, a seguito dello sfortunato incontro: «Ho dato un’occhiata in questi giorni alle Notes sur l’Anneau du Nibelungen di Appia, nella speranza di trovarvi qualcosa di utilizzabile. Purtroppo vanamente. Pare che Appia non sappia che nel ’76 l’Anello è già stato rappresentato qui da noi, e che di conseguenza non vi è più nulla da inventare in fatto di scenografia e regia». Le azioni di svolta possono generare alternative immutabili. È un insegnamento che, forse, conviene trattenere.
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I documenti sui progetti di festival di Richard Wagner sono raccolti in Houston Stewart Chamberlain, Riccardo Wagner, trad. di Giulio Cogni, Milano, Fratelli Bocca – Editori, 1947, pp. 525-553. Sul Festival di Bayreuth v. Hans Mayer, Richard Wagner a Bayreuth1876-1976, trad. di Mauro Tosti-Croce, Torino, Einaudi, 1981, e Frederic Spots, Bayreuth: A History of the Wagner Festival, New Haven and London, Yale University Press,1994. Sui rapporti fra Wagner e Bakunin e la partecipazione ai moti di Dresda v. Richard Wagner, La mia vita, trad. di Massimo Mila, Torino, Edt, 1982. Le lettere di Wagner a Liszt e quelle di Cosima Wagner sono tradotte in italiano: Epistolario Wagner-Liszt, prefazione di Massimo Bogianckino, trad. di 2 voll., Firenze, Passigli, 1983; Cosima Wagner, La mia vita a Bayreuth. Lettere e appunti 1883-1930, a cura di Dietrich Mack, trad. di Umberto Gandini, Milano, Rusconi, 1982. Sulle fondamenta attoriali del pensiero wagneriano e sulla «teatrocrazia» di Bayreuth v. Friedrich Nietzsche, Scritti su Wagner. Richard Wagner a Bayreuth – Il caso Wagner – Nietzsche contra Wagner, con un saggio di Mario Bortolotto, trad. di Sossio Giametta e Ferruccio Masini, Adelphi Book, 2017.
Gerardo Guccini
Insegna Drammaturgia e Tecniche della composizione drammatica all‘Università di Bologna. Nel 1995 fonda con Claudio Meldolesi il semestrale “Prove di Drammaturgia. Rivista di inchieste teatrali“. Dal 2002 al 2015 è Responsabile Scientifico del CIMES (Centro di Musica e Spettacolo – Università di Bologna). Nel 2012, fonda con Matteo Casari la collana in rete “Arti della performance: orizzonti e culture” (AMS Acta). Dal 2018 è Responsabile Scientifico del Centro teatrale La Soffitta. I suoi studi riguardano il teatro del Settecento, gli aspetti spettacolari dell‘opera lirica, il teatro di narrazione e la drammaturgia contemporanea con particolare riferimento all‘elemento testuale. Guccini ha collaborato come dramaturg con Marco Paolini, Marco Martinelli, Elena Bucci e Marco Sgrosso.
La nascita ufficiale del movimento Femen è datata 10 aprile 2008 e la prima comparsa pubblica è nell’estate dello stesso anno a Kiev. Tre ragazze cresciute in una sconosciuta cittadina ucraina di 300.000 abitanti, Khmelnitskij, si sono presentate vestite da prostitute, indossando calze a rete strappate su delle belle lunghe gambe, scarpe con tacco e seni nudi. In sei mesi sono diventate 30 e poi fra il 2012 e il 2013 più di 300, aggregando in modo inaspettato anche donne che vivono nel mondo arabo, grazie al fatto che i media iniziarono a occuparsi delle varie azioni di protesta. Il 18 settembre 2012 fu aperto un centro Femen nel 18° arrondissement di Parigi e il giorno seguente il governo francese riconobbe ufficialmente l’associazione. La figura di spicco al momento della nascita del movimento è quella di Anna Hutsol, che ha visto poi affermarsi come leader Inna Shevchenko, una giovane donna ucraina che con altre attiviste, era stata vittima di violenze molto pesanti quando il 19 dicembre 2011, a seguito di una protesta contro Aleksandr Lukašenko per una notte intera fu picchiata e cosparsa di benzina e gli agenti girovagarono intorno al suo corpo e a quello delle sue compagne con un accendino acceso, minacciando di bruciarla vive. Il movimento si schiererà in numerose occasioni contro le persone di Vladimir Putin, Presidente della Federazione Russa, Aleksandr Lukašenko, presidente della Bielorussia e Viktor Janukovič, presidente dell’Ucraina. Shevchenko diventa nota al mondo quando l’11 febbraio 2013 organizza una manifestazione all’interno della cattedrale di Notre Dame per celebrare l’approvazione delle nozze gay e la rinuncia di Benedetto XVI al papato. L’esito violento che ne scaturisce genera per la prima volta un moto di fastidio per il movimento, che precedentemente, specialmente in Francia, aveva goduto di un occhio più che benevolo. Comunque in questo paese la considerazione positiva non viene mai meno tanto che nel novembre del 2017 Shevchenko riceve il France’s Secularism Award. Proprio all’apice della sua popolarità mediatica le Femen subiscono un’incrinatura nell’immagine: nel settembre 2013, in occasione della presentazione del documentario sulle Femen, dal titolo Ucraine is not a Brothel, realizzato da Kitty Green e presentato alla 70° Mostra del Cinema di Venezia, la natura contraddittoria della figura di Viktor Sviatski balza sotto i riflettori mediatici. La regista, che ha vissuto alcuni mesi insieme alle attiviste, lo descrive come l’ideatore del movimento e, secondo numerose testate giornalistiche, l’uomo avrebbe dichiarato di aver creato il gruppo per “avere delle donne”. Dopo poco Inna Shevchenko afferma che Sviatski non ha mai fatto parte del movimento e le polemiche si placano. Attualmente le Femen si appoggiano ad alcuni strumenti di comunicazione (il sito www.femen.org, Facebook, Istagram, Twitter, Youtube, Pintarest) per informare il mondo delle ragioni della propria causa, per farsi pubblicità, per cercare proventi che finanzino le loro azioni e gli spostamenti necessari per metterle in atto. Le prime manifestazioni del movimento, indossando biancheria intima, si sono incentrate sulla lotta alla prostituzione. La pratica del topless è subentrata solo in seconda battuta a seguito dell’atto di Oksana Sachko, in cui l’attivista mostrava il proprio seno durante una azione a Kiev. Data l’attenzione mediatica ricevuta in quell’occasione, da allora le attiviste hanno manifestato sempre a seno nudo, facendo così diventare questa pratica il marchio distintivo della protesta. Il logo Femen corrisponde alla stilizzazione della lettera cirillica Ф, in minuscolo ф, che corrisponde alla nostra F, quindi all’iniziale del nome del movimento, il che fa sì che si tratti anche del disegno molto stilizzato dei seni di una donna: due cerchi separati da una linea. Il colore è declinato sulla base delle tinte assunte di volta in volta dalla bandiera del paese delle aderenti al movimento, inizialmente la sola Ucraina. Il movimento si definisce come il femminismo del terzo millennio e dichiara come obiettivo quello di “minare le fondamenta della società patriarcale”, rappresentata da dittatura, religione e sfruttamento/industria del sesso tramite. Da qui uno degli slogan: “Seni caldi, mente fredda e mani pulite”: il seno, generalmente visto come materno quindi caldo, perde qui la sua accezione più frequente assumendone una politica; la mente fredda è ciò che le attiviste devono riuscire a mantenere durante le loro manifestazioni, quando gettano stupore misto a panico fra i presenti; le mani pulite indicano la volontà di mostrarsi disarmate, completamente nude, vestite solo delle proprie ragioni, tanto che segno di questo elemento è la corona di fiori in testa, la cui foggia evoca il significato da questa acquisito negli anni ’60, grazie ai “figli dei fiori”, quale indice di pace e di equilibrio con la natura. Gli altri slogan “Dio è donna, la protesta è la nostra missione, i seni nudi le nostre armi!” e “Il mio corpo è il mio manifesto” ribaltano l’ossessione per il corpo e l’umiliazione per la mente, esibendo se stesse come teatro di idee. Sono guardate alternativamente con stupore, interesse, scetticismo, disprezzo in tutto il pianeta, tanto che anche molte femministe occidentali, oltre che le femministe islamiche, si sono schierate contro la loro esibizione delle “tette”. Le Femen non considerano invece per nulla facile spogliarsi in pubblico, tanto che le aderenti si sottopongono a una preparazione sia fisica che psicologica con corsi di teoria e pratica, in modo da essere preparate a un uso ben definito del linguaggio del corpo, sia nella fase dimostrativa che in quella nella quale possono essere aggredite dalle forze di polizia o arrestate e sottoposte a vessazioni e violenze. La sfida è quella di far fronte alla repressione senza incertezze. Per le Femen il corpo, messaggero di libertà, è una tela sulla quale scrivere le proprie idee e la pelle il foglio bianco sul quale esprimersi, ma la modalità di scrittura non è libera, deve essere uguale su ogni corpo: lo stile personale non deve trasparire e deve essere coerente con il tema della protesta, conciso e diretto: “aborto sagrado”, “in gay we trust”, “no racism”, “justice fuck me”. Prendendo atto che il corpo delle donne è utilizzato per vendere qualsia qualsiasi cosa, l’obiettivo delle Femen è quello di far sì che questo “venda” idee, quelle proprie del genere, mostrando così che non c’è nulla di più politico del corpo, in un’epoca storica nella quale la politica è intrecciata a filo doppio con l’economia, la quale mercifica oggetti, emozioni, sentimenti e ovviamente corpi, soprattutto femminili. Per loro si tratta di originare la transizione da un corpo spettacolarizzato a un corpo veicolo, utilizzando il medesimo linguaggio dei media per generare un cortocircuito, facendo sì che si affermi una presa di coscienza diversa della propria nudità. Non sono più i media a servirsi del corpo delle donne, ma loro stesse a mostrarlo come produttore d’idee e come scelta personale. La nudità è scelta, non imposta. Il corpo, nell’ottica delle Femen, non è più un prodotto individuale, bensì uno strumento di affermazione politico e sociale e le idee che promanano dal corpo e sul corpo, individuale e sociale, sono in grado di produrre i loro effetti. Un corpo che non evoca alcun desiderio e alcun piacere, né intende farlo. Il corpo delle Femen non ha nulla a che fare con il nudo degli artisti, piuttosto evoca il romanzo Il rombo di Ghunter Grass, un’allegoria della storia dominata dal potere virile che mette in letteratura una mater matuta con tre tette. Le Femen non sono artiste sofisticate come lo è stata l’avanguardia femminista, ma ne hanno ereditato il discorso comunicativo: un corpo messo in scena per sbeffeggiare il potere, prendendo così posizione, da un lato, sul diritto a fare la escort e, dall’altro, opponendosi al perbenismo moralista e ipocrita che vorrebbe le donne “per bene” e competenti tutte austere, accollate, possibilmente anziane, comunque de-sessualizzate. Una pratica particolarmente interessante perché inserita in un’epoca storica caratterizzata dalla mediazione delle nuove tecnologie, dal disembedding, dalla proliferazione di modi di comunicare sganciati dai “limiti del mondo fisico”. Il corpo diventa così mezzo, messaggio e contenuto. Grazie a questo sincretismo le Femen sono diventate le modelle della protesta mondiale, le vetrine, le cover girl della quarta generazione del femminismo, intendendo attirare l’attenzione sulla società patriarcale, l’industria del sesso, le dittature, la violenza domestica, i nemici dei diritti omosessuali, bisessuali, transgender e intersessuate. Spazio e corpo si rivelano profondamente legati Fra loro nella loro natura dinamica e nella loro stretta dipendenza comune dalla sfera dell’azione. Si può infatti dire che il movimento abbia trovato un format, atemporale, di protesta spendibile in qualsiasi epoca e in ogni parte del mondo. L’utilizzo del corpo da parte delle Femen non ha nulla di narcisistico, semmai è un eco narrativo del mondo e non del singolo. Un messaggio potente in quanto la narrazione è quanto più ci caratterizza come esseri umani, è il filo conduttore delle nostre esperienze e la nostra identità prende forma e consistenza all’interno di una struttura narrativa e di cui il nostro corpo è la plastica evidenza. Il supporto della narrazione sono i corpi e questi narrano – anche senza emettere parole – stili di vita, livelli culturali, personalità, comportamento. Le Femen utilizzando il corpo come narrazione politica rompono così sia lo stereotipo del femminile – cura, dolcezza, bontà, spirito protettivo – sia del femminino – spregiudicate femme fatale, sadiche, mangiatrici di uomini – e incarnano, viceversa, a pieno titolo quello del femminismo – esigenti, rompiscatole –.
Maria Grazia Turri
Maria Grazia Turri è Docente a contratto di Linguaggi della Comunicazione per il Corso di Laurea in Management dell’informazione e della comunicazione aziendale presso l’Università degli Studi di Torino. Le sue aree di interesse sono la filosofia dell’economia e la natura concettuale delle categorie e dei modelli economici; l’ontologia e la metafisica degli oggetti sociali; la filosofia della mente con particolare attenzione alle ricerche neuroscientifiche sulla emozioni, sulle percezioni e sulle intenzionalità, le questioni di genere. È direttrice della collana di Mimesis Filosofie dell’economia e Relazioni Pericolose, è membro del Comitato Scientifico della rivista Scenari. Ha scritto numerosi articoli e libri fra cui Gli dei del capitalismo. Teologia economica nell’età dell’incertezza (2014 Mimesis, Milano), Biologicamente sociali culturalmente individualisti (Mimesis, Milano, 2012), Gli oggetti che popolano il mondo (2011 Carocci, Roma), La distinzione fra moneta e denaro (Carocci, Roma, 2009). Ha curato diversi volumi come Il potere delle donne arabe (con Ilaria Guidantoni, Mimesis, Milano, 2015), Femen. La nuova rivoluzione femminista (Mimesis, Milano, 2013), Manifesto per un nuovo femminismo (Mimesis, Milano, 2013).
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