SMEMORANDA. Appunti sulla scrittura di Rimbambimenti

di Andrea Cosentino

Andrea Cosentino in "Rimbambimenti". Foto di Laila Pozzo
Andrea Cosentino in “Rimbambimenti”. Foto di Laila Pozzo

Rimbambimenti non nasce come spettacolo sulla memoria, e men che meno su alcune sue patologie senili. Il primo spunto del mio scombussolato TED talk anarchico è stato la fascinazione per la concezione del tempo nella fisica quantistica (complici le letture di Rovelli e altri approfondimenti). È una delle mie ossessioni il tempo, indagato fin da L’asino albino, un mio classico di ormai vent’anni fa, il cui sottotitolo era «uno spettacolo sul tempo che passa e che non torna più, neanche più le stagioni». Si trattava di mettere a confronto e contrasto il tempo biografico e storico dell’uomo con quello ciclico della natura, con risvolti ecologisti ante litteram sulla distruzione antropica dell’ambiente e sui cambiamenti climatici. Rimbambimenti invece lo definirei come un lavoro sulle contorsioni e confusioni temporali, e sull’eterno ritorno. Ma quando affronto una drammaturgia, il mio modus operandi sta nel non prendere di petto un tema, piuttosto attraversarlo o farmene attraversare, per evitare ogni possibile forma di didascalismo e/o di retorica, che spesso vanno a braccetto. Un po’ alla maniera dei surrealisti e dadaisti, o più umilmente alla Rodari della Grammatica della fantasia: accostare due o più oggetti apparentemente incongruenti e stare a vedere come dialogano. È allora che ho pensato, come secondo ingrediente, all’Alzheimer. Se non posso raccontare storie secondo il tempo quantistico e fatico persino a capire ciò che la fisica più avanzata cerca di indicarci, posso però affidare la spiegazione di questo tempo quasi indicibile a uno scienziato con demenza senile.

La memoria è la porta attraverso la quale diamo forma al tempo umano, così come alle nostre storie e rappresentazioni. Oggi la narrazione cinematografica e televisiva ci ha abituati a un procedere discontinuo, a vicende che non ci vengono rivelate mai dritte, ma con dovizia di flashback e flashforward e di salti di spazio e ambientazioni, altro che unità aristoteliche. Ma per quanto venga spezzettato, non si mette mai in dubbio l’ordine cronologico del tempo, anzi la possibilità di questo spezzettamento si regge proprio sulla ineluttabilità della sua ricomposizione finale: quando abbiamo tutti i pezzi, la trama si riordina nella mente dello spettatore, e fine della storia. Invece nelle mie intenzioni il disturbo della memoria doveva essere uno strumento per provare a uscire, per quanto in maniera sghemba, dall’illusione della sequenzialità. L’ipotesi po(i)etica del mio lavoro è che il tempo del malato di Alzheimer, nella cui mente passato presente e futuro si accavallano confusamente, o come dico nello spettacolo si “appallocchiano”, sia più vicino alla realtà di quel che va scoprendo la fisica, di quanto lo sia la cronologizzazione ordinata che diamo alle nostre vite e alle nostre storie. In questo senso il mio alter ego scienziato con demenza senile doveva diventare un po’ l’equivalente teatrale del fool shakespeariano, il matto che in maniera anche inconsapevole è più vicino alla verità profonda delle cose di quanto lo sia l’uomo savio.

Non ho particolare familiarità con queste patologie (non ho avuto genitori o nonni che ne soffrissero). Avevo pensato inizialmente di approfondire la questione attraverso delle residenze in ospizi per malati, ma un attimo dopo scoppiò il Covid, e gli anziani erano giustamente inavvicinabili. È così che la smemoratezza, in questo lavoro, è rimasto essenzialmente un grimaldello per affrontare il tema del tempo, e a livello teatrale uno stratagemma per esplorare nuovi universi di scrittura, e approfondire quelli che già mi appartengono. Primo tra tutti la digressione, sempre presente nei miei lavori, ma che qui è portata al parossismo, fino alla possibilità del salto di palo in frasca. Un esempio a caso di sproloquio dallo spettacolo: «secondo la relatività più ti avvicini a una massa più il tempo rallenta, ma anche più ti muovi velocemente maggiore è l’importanza dell’idratazione, in quanto un essere umano è composto al sessanta per cento di acqua, anche se oggigiorno non si trova un idraulico neanche a pagarlo a peso d’oro, l’idraulico magro sicuramente non ti interviene».

Il vecchietto rimbambito in questo lavoro è prima di tutto la maschera attorale che mi consente cortocircuiti linguistici e scivolamenti semantici, così come scarti ritmici e lunghe pause immotivate. Il che rientra in una mia ricerca di sempre, che è quella di abitare il palcoscenico in maniera o-scena, ovvero imprevedibile e non conforme alle regole. Divenire un animale da palcoscenico, ovvero una presenza che attrae l’attenzione non per una sua abilità e competenza, ma al contrario per la sua inaffidabilità. Se un animale attraversa la scena, può accadere di tutto, o per dirla meglio: un animale che attraversa la scena è sempre un accadimento, perché disconosce i codici della rappresentazione.

Inoltre, parlando di potenzialità teatrali, la smemoratezza è un ingrediente interessante, se la agisci piuttosto che rappresentarla. Il primo studio conteneva una piccola cosa, tanto banale quanto efficace. Per ben tre volte nel corso dello spettacolo citavo un brevissimo racconto di Kafka: «Mio nonno soleva dire: “La vita è straordinariamente corta. Ora, nel ricordo, mi si contrae a tal punto che, per esempio, non riesco quasi a comprendere come un giovane possa decidersi ad andare a cavallo sino al prossimo villaggio senza temere che perfino lo spazio di tempo, in cui si svolge felicemente e comunemente una vita, possa bastare anche lontanamente a una simile cavalcata”». La dicevo ogni volta con convinzione, persino con commosso compiacimento, come fosse la prima, cercando assenso e stupore negli sguardi degli spettatori. E funzionava molto, non tanto come rappresentazione emotiva, quanto come piccolo cortocircuito che faceva provare agli spettatori l’esperienza ambivalente della vicinanza con un malato di Alzheimer, in questo caso coniugata con la disarmante poesia kafkiana sulla senescenza: comicità, esasperazione e pietà.
Questa cosa non c’è più nella versione attuale dello spettacolo, un po’ me ne dispiaccio, ma in qualche modo non c’era posto. Però il suo paradosso permea tutto il lavoro. Lo dichiaro apertamente verso l’inizio del Talk: «dice, ma che sei andato a vedere? Guarda, doveva essere una conferenza di uno scienziato con l’Alzheimer che parlava del tempo quantico, ma poi in effetti ha parlato soprattutto di farfalle e cozze pelose… apparentemente spiazzante, ma a un secondo livello di lettura assolutamente coerente col dispositivo drammaturgico». Aldilà del tono autoironico e canzonatorio sui vezzi di noialtri meta-teatranti postdrammatici, non resisto mai alla tentazione di denunciare gli strumenti che uso, secondo la mia vecchia regola del lanciare il sasso senza nascondere la mano, che è poi il mio modo sintetico di differenziarmi dal mainstream (lanciare il sasso nascondendo la mano), non meno che dallo sperimentalismo concettuale (lanciare direttamente la mano).

La perdita della memoria è soprattutto tante cose che mi appassionano, come artista e come essere umano: è perdita delle parole, è fine della referenzialità ma anche dell’autoralità e dell’autoreferenzialità, è un arrendersi consapevole all’impermanenza delle (e una somiglianza alle) cose e un invito a non ostinarsi a trattenerle, è un inno gioioso al presente e al divenire. È anche, sia detto sommessamente, il modo in cui mi piacerebbe fosse letto tutto il mio teatro, e innanzitutto il mio aver scelto il teatro come mezzo espressivo: leggerezza, profondità e caducità. Che sia tanta roba e non ne resti niente.

Nel periodo preparatorio avevo trovato, non ricordo più in quale sito medico, una descrizione dello sviluppo dell’Alzheimer paragonato alla figura di un attore che entra in scena e dimentica il copione, all’inizio fa buon viso, improvvisa e si arrabatta, fino a perdere ogni cognizione e rimanere inerte sul palcoscenico, incapace di riconoscere e riconoscersi: “ma voi chi siete? che ci fate qui? e io?…”. All’inizio mi era parsa una buona progressione per la struttura del mio TED Talk, e naturalmente la dichiaro quasi subito entrando in scena. Poi in realtà non è proprio così, sarebbe stato troppo semplice e prevedibile, e una cosa che puoi dire in maniera comprensibile non è mai davvero interessante farla fino in fondo, finiresti col trovare solo quel che cerchi, dunque niente che valga lo sforzo. Però è rimasta come spina dorsale, continuamente sviata e tradita, come contenitore in grado di accogliere i più svariati ingredienti, ispirazioni e citazioni da mettere nel frullatore della mente rimbambita del mio doppio. Lo spegnimento di HAL 2001 e Sant’Agostino, un omaggio al mio scrittore di culto Vonnegut e la mia passione per il teatro di figura, per le cose morte che prendono vita, e le ultime parole di papà e alcuni miei ricordi belli, e mille altre cose tra le quali una vecchia canzone di Leo Ferrè, per riallacciarmi segretamente con il già citato Asino albino del quale era la stringata colonna sonora. Qui il tema di “Avec le temps” ritorna storpiato dalla mia tromba e distorto dai sintetizzatori del mio compagno di scena Lorenzo Lemme, compositore e strumentista ruvido e brillante. Perché di una cosa ero certo fin dall’inizio: che le mille parole pronunciate nel corso del mio TED Talk senescente in salsa punk dovessero dissolversi in musica. Nel buco nero del finale niente più parole, se non alcune frasi dello spettacolo, ritornelli senza più pretesa di referenza, cantati da Lorenzo senza una logica precisa, puri significanti scollati dall’illusione dell’esistenza degli oggetti, e note e rumori che si distendono e graffiano dolcemente e poi urlano e inondano e saturano il teatro.
Dichiaro anche questo, ovviamente, prima del concerto che chiude Rimbambimenti, e credo sia la domanda centrale di questo lavoro, ammesso e non concesso che se ne debba trovare una: «la fisica più avanzata, la teoria delle stringhe, ipotizza addirittura che la materia non esista proprio, nemmeno atomi e molecole e quanti, che tutto non sia che onde e vibrazioni, tutto non sia che musica, musica senza neanche gli strumenti… ma come ve lo spiego a voi, che ci tenete tanto a esserci?».

 

 

Andrea Cosentino

Attore, autore, comico e studioso di teatro. Premio speciale UBU 2018.
Inventore, proprietario, conduttore e conduttrice unico/a di Telemomò, la televisione autarchica a filiera corta.
www.andreacosentino.net