Le parole erano scomparse per sempre

di Adrián N. Bravi

Adelaida Gigli
Adelaida Gigli

In passato ho avuto a che fare con due persone colpite dal morbo dell’Alzheimer, entrambe hanno iniziato a dare segni di smarrimento nello stesso periodo e tutte e due sono morte lo stesso anno, il 2010. Una era una cara amica, nata nel 1927, a Recanati, sulla quale ho scritto il mio ultimo libro, Adelaida. L’altra, invece, nata dieci anni prima a Riccia, un paesino in provincia di Campobasso, era mia nonna. La mia amica, Adelaida, potevo andare a trovarla al ricovero di Recanati tutte le volte che volevo; mia nonna, invece, riuscivo a vederla solo quando tornavo a Buenos Aires, dove era andata a vivere subito dopo la guerra, insieme al marito e i figli. Sia l’una che l’altra, prima di avere la certezza di quanto stava accadendo, sono state per un breve periodo in una sorta di interregno in cui non si capiva bene cosa stesse succedendo. Per esempio, mia zia Nina, una delle figlie di mia nonna, raccontava che sua madre aveva cominciato a sospettare di una nipote che andava a trovarla tutti i giorni e l’aiutava nelle varie faccende. Diceva che prima che arrivasse Ivana, sua nipote, c’erano dei soldi sul tavolo della sala (secondo mia nonna li teneva lì per ogni evenienza) e che, quando era entrata in casa la nipote, erano subito spariti. Le era presa all’improvviso l’ossessione dei soldi e oltre a cercarli dappertutto, anche dove non c’erano mai stati, sospettava di chiunque. All’inizio Ivana si mortificava, non capiva come sua nonna avesse potuto sospettare di lei. Oltre ai soldi, sparivano anche le pentole e le posate. Mi ricordo che qualcosa del genere era successo anche con Adelaida, quando, sempre durante quell’interregno, sosteneva che una donna che l’aiutava nelle varie faccende di casa le sottraesse i soldi da una scatola. All’inizio i suoi amici, me compreso, ci credevano, o quanto meno restava un margine di dubbio; poi però, valicato il periodo di transizione, quando aveva iniziato a pettinarsi con l’accendino o era capitato che cercasse una matita dentro un posacenere, ecco, in quel momento, difficile da stabilire perché c’erano sempre alti e bassi, abbiamo capito che stava entrando in uno smarrimento irreversibile. Dunque, sia mia nonna che Adelaida avevano oltrepassato quell’interregno al di là del quale iniziava lo smarrimento e l’incertezza più assoluta. Era un continuo sballottamento tra uno stato di consuetudine e normalità e un altro di profonda confusione.
Mentre scrivo questo passaggio mi viene in mente di quando mia zia Nina era venuta a trovare mia madre, ossia la sorella, da Buenos Aires all’Italia, insieme al marito, mio zio Armando, qualche anno dopo la morte di mia nonna. Una sera, verso l’ora di cena, aveva chiamato per telefono mio cugino, il figlio di mio zio. Avevamo parlato del più e del meno e quando avevo passato il telefono a mio zio aveva iniziato a chiedere al figlio perché lo avesse abbandonato lì, dopo tutto quello che lui aveva fatto per dargli una formazione e una buona posizione economica. “Come hai potuto lasciarmi qua tutti questi anni senza farti più vedere?” aveva chiesto indignato, quasi piangendo. Noi ascoltavamo interdetti quella conversazione, perché nessuno avrebbe immaginato che la sua testa potesse concepire un pensiero così straniante. Quando mio zio aveva messo giù il telefono aveva chiesto di andare dalla sorella (morta quindici anni prima, in Argentina). Quella era stata la prima volta che avevo sentito mio zio Armando attraversare una soglia, molto sfumata, che divideva due mondi contrapposti: quello che condivideva abitualmente con i parenti e gli amici, il mondo cosiddetto normale, in cui più o meno ci capivamo tutti, e il mondo dell’immaginazione, tutto suo, sempre in conflitto con il primo.

Finito l’interregno questi due mondi si compattano, per così dire, e cominciano a camminare nella stessa direzione, nel senso che il primo, il cosiddetto normale, si adegua all’andamento dell’altro. Spesso, o per lo più, questo adeguamento consiste in trovare una sistemazione adeguata al malato e rinchiuderlo in un istituto o in una clinica attrezzata per la gestione dell’Alzheimer. Non ho niente in contrario, è solo una constatazione (anche a me, se capitasse, non vorrei dare nessun peso e, se non è possibile l’eutanasia, va bene un ricovero, una grotta o quello che sia).

Ricordo quando ero andato in Argentina a trovare mia nonna nella clinica privata dove risiedeva, un posto bello, distensivo, con un bel giardino. E i malati erano lì, a volte senza accorgersi di dove si trovassero. Qualche volta portavo mia nonna a fare due passi per il quartiere, allora lei ogni tanto si fermava davanti a una casa qualunque e mi diceva: “Questa casa era nostra, l’avevamo comprata tanti anni fa”. Facevamo altri trenta metri, si fermava davanti a un’altra e ricominciava: “Questa casa era nostra, l’avevamo comprata tanti anni fa”. E fino a quando non rientravamo nella clinica, ogni tre o quattro case che vedevamo, una era stata la sua. Mi ero sforzato a capire cosa avessero in comune quelle case, ma non ero mai riuscito a capirlo. E quando c’era il momento della merenda – lo faceva sempre – prendeva due o tre biscotti e me li passava sottobanco, per non farsi vedere da nessuno. Questo gesto non era difficile da comprendere perché, avevo capito, lei viveva in un mondo senza prospettiva storica e in quel momento mi suggeriva di fare rifornimento, perché quei biscotti mi avrebbero potuto essere utile in momenti come quello, dove fuori c’era la guerra e i tedeschi e così via. Era successo qualcosa di simile ad Adelaida, quando un giorno ero andato a trovarla al ricovero con mio figlio Santiago, che allora era appena un bambino. Lei lo guardava ammirata, mentre lui provava a farle vedere il pupazzetto che portava sempre con sé. Adelaida gli accarezzava i capelli, gli sorrideva. A un certo punto mi aveva preso per mano, mi aveva avvicinato a sé per chiedermi a modo suo, ma era questo il senso, di stare attento, perché qualcuno avrebbe potuto strapparmi il bambino dalle mani. Per un momento mi ero visto davanti tutto il suo passato concentrato in quella raccomandazione: sua figlia Mini, rapita durante la dittatura argentina, costretta a sua volta a lasciare sua figlia di pochi mesi, ossia la nipote di Adelaida, in mano a due sconosciuti, per salvarla dai torturatori. L’avevo stretta a me ed ero rimasto un po’ così, con quel corpo esile e accasciato tra le braccia. A volte prendevo la carrozzina e la portavo fuori. Rare volte riuscivo a interloquire con lei o a capire che mi stava ascoltando. Era successo un giorno, lo trascrivo così come lo avevo riferito alla sua amica Beba Eguía Piglia, la moglie dello scrittore Ricardo Piglia, e come lo riporto nel libro, Adelaida, a pagina 130-131: «Ciao Beba, ieri sono andato a trovare Adelaida. Come sempre, aveva uno sguardo vuoto, non si capisce cosa stia osservando di preciso. A un certo punto le ho detto che mi avevi chiamato e che avevo parlato con te e che avevi chiesto di lei per sapere come sta. Ed è stato un momento particolare, perché quando ho detto il tuo nome mi ha guardato dritto negli occhi come se avesse scoperto qualcosa o come se il tuo nome riaffiorasse dopo tanto tempo da un posto remoto. In quel momento mi sono accorto che mi stava guardando, che la parola Beba aveva toccato un centro nevralgico dei suoi ricordi. Non guarda quasi mai con tale intensità. Non ho più insistito perché poi si è messa a gridare, lo fa spesso; non è un pianto, è un lamento o qualcosa del genere. Chissà quante cose avrebbe voluto dire o sapere. Le ragazze che si prendono cura di lei sono dolcissime, la accarezzano sempre e lei si abbandona come un gatto che fa le fusa. È incredibile. In alto le è rimasto solo un dente e in basso quattro o cinque. Quello in alto è tutto rovinato, ma resiste ancora».

Quando ero andato via avevo pensato che in un punto della sua memoria c’era ancora un briciolo di consapevolezza che la potesse collegare con la realtà che la circondava. Nei giorni seguenti avevo provato con altri espedienti, ricordandole il nome di altri amici suoi o il nome dei luoghi in cui aveva vissuta da giovane. Niente, quel giorno era stato l’ultimo in cui ero riuscito, senza volerlo, a creare un ponte linguistico tra di noi. Le parole erano scomparse per sempre, restavano solo le carezze e i piccoli gesti.

 

Adrián N. Bravi

Adrián N. Bravi è nato a Buenos Aires, ha vissuto in Argentina fino all’età di 25 anni, poi si è trasferito in Italia per proseguire i suoi studi di filosofia. Vive a Recanati e fa il bibliotecario. Nel 1999 ha pubblicato il suo primo romanzo in lingua spagnola e dal 2000 ha iniziato a scrivere in italiano. Fra i suoi ultimi libri: L’idioma di Casilda Moreira (2019, Exorma), Il levitatore (2020, Quodlibet), Verde Eldorado (2022, Nutrimenti), Adelaida (2024, Nutrimenti).