Il grande vuoto. La perdita della memoria come strumento per trattenere qualcosa

di Fabiana Iacozzilli

"Il grande vuoto" di Fabiana Iacozzilli. Foto di Laila Pozzo
“Il grande vuoto” di Fabiana Iacozzilli. Foto di Laila Pozzo

Mia madre si è ammalata in un giorno qualunque di non ricordo più quanti anni fa.
Tutto è iniziato come iniziano sempre queste esperienze che hanno a che fare con le malattie neurodegenerative: piccole dimenticanze, pentole che bruciano, domande ricorrenti, chiavi di casa perse.
Il più delle volte all’inizio si ride.
Quando siamo andate a fare i primi test per la valutazione neuropsicologica e funzionale ero seduta accanto a lei. Le prime domande che la dottoressa le fece erano in relazione al tempo:
“Signora che giorno è oggi?”
“Signora quando è nata?”
“Signora è sposata? Allora mi può dire la data del suo matrimonio?”
Io ero lì ferma e con la testa bassa.
E poi “Signora quando è nata sua figlia?”
Silenzio.
Allora ho alzato la testa e ho fatto l’occhiolino a quella donna che forse da quel momento stava smettendo di essere mia madre. Ricordo di essermi chiesta: se in qualche modo io sono la somma dei ricordi che mia madre ha di me, da adesso in poi chi divento io?
Mi colpiva pure questo continuo tornare sulle nascite e sugli inizi: la data del giorno in cui eravamo andate a fare la prima visita, la data del matrimonio, la data del suo e del mio compleanno. Una sfilza di date la cui materializzazione concreta riempiva fotografie oggetti e ninnoli posti sulle mensole di casa nostra, ora sua. In macchina mentre tornavamo a casa la sentivo aprire e chiudere la borsa. Era quello che i medici chiamano “l’affaccendarsi dei pazienti affetti da malattie neurodegenerative”. Le ho dato una caramella per farla smettere. Mi sono venuti in mente i dentini e i topolini che venivano a prenderseli di cui mi parlava mia madre quando ero piccola. Allora ho pensato: dove sta andando a finire tutta la nostra vita? Dove vanno a finire i nostri ricordi? Cosa c’è, se c’è qualcosa di nuovo, di rinato, in tutto questo vuoto?

Per la prima volta, da quando Il grande vuoto – spettacolo in cui racconto la malattia neurodegenerativa di una donna – ha debuttato, compio un esercizio di memoria sulla memoria, per mettere in fila pensieri e riflessioni che mi hanno accompagnata durante la creazione.
Nei miei spettacoli sono sempre presenti schegge di memorie: pezzi di vita che aspettano di essere messi in scena per poter ricevere l’attribuzione di un senso. Il punto di partenza è la mia realtà, perché ha a che fare con un paesaggio interiore e autobiografico. Se penso a La classe, per citarne uno, è stato un vero e proprio esercizio di immersione ed emersione con resti di carcasse di memorie tra le mani. Quello che mi affascina del teatro è la possibilità di far apparire qualcosa dal passato, di farlo rivivere, portarlo a nuova vita e, al tempo stesso, so che c’è qualcosa in quello che dice Roland Barthes sulla fotografia che ha molto a che fare con l’esigenza che ho nel momento in cui sento che il ricordo va espresso e immortalato: «la fotografia è una figurazione dell’immobile e maschera sotto la quale noi vediamo la morte. La fotografia è un’emanazione del passato, la realtà della morte».

Quando ho deciso di iniziare a lavorare a Il grande vuoto sentivo il bisogno di costruire uno spettacolo non per far riemergere qualcosa ma per trattenere qualcosa, per immortalare nella mia memoria l’ultimo tratto di vita di mia madre visto che dalla sua di memoria io stavo scomparendo; e, al tempo stesso, cercare di trasfigurarlo.

Volevo partire dal vuoto. Dal cercare di entrare nel vuoto. E in questo vuoto mi sono messa con Linda Dalisi, dramaturg del progetto. Con Linda, una domanda su cui tornavamo spesso era: chi siamo state, cosa ci ha determinato nel corso della nostra vita, continua a esistere dentro di noi, fino all’ultimo istante e nonostante la malattia?
Nelle stanze terapeutiche allestite in molti dei centri che si occupano di malattie neurodegenerative si mettono in contatto i malati con oggetti e situazioni che sono stati centrali nelle loro esistenze: a un pastore vengono affidate delle pecore di peluche da accudire, per esempio. L’uomo in questo modo riconquista se stesso, riconquista il pastore che è stato. Dunque ci sono in noi particelle di senso che ci sopravvivono?
Nel maggio 2021, durante la prima residenza artistica alla Corte Ospitale di Rubiera, insieme al gruppo di lavoro siamo andate a intervistare lo staff medico, le operatrici e le ospiti della Casa Residenza Anziani (CRA) di Rubiera. L’intervista è una pratica consolidata nel mio lavoro di regista e autrice, un mezzo attraverso il quale affondare le mani nella materia che sto cercando di scoprire.
Una donna, una ospite molto anziana, continuava a compiere un movimento con la mano, come se la sua mano volesse separare, dividere qualcosa, anche se il tavolo davanti a lei era vuoto. Lo faceva continuamente.
La direttrice della CRA ci ha spiegato che la donna nella vita era stata l’addetta alla scelta delle mattonelle in una fabbrica di ceramiche. Doveva dividere, separare, le mattonelle buone da quelle fallate e ora anche dentro la casa di riposo continuava a svolgere il suo lavoro.

Come sappiamo la fisica moderna ha dimostrato che il vuoto è uno zampillare di creazione e distruzione, che non è il nulla, è uno stato fisico concreto, che gorgoglia. Ma come entrare in contatto con questo vuoto che gorgoglia? Come trasformare in arte questo grumo di dolore?

Nel bel romanzo autobiografico di Marco Annicchiarico, I curacari, in cui l’autore racconta della malattia di sua madre e di come lui abbia dovuto reinventare la propria esistenza per assisterla, ci sono dei passaggi che mi hanno aiutata a trovare una strada di creazione per Il grande vuoto:

«Per interagire con un malato di Alzheimer devi essere disposto a varcare il confine di un mondo parallelo. A entrare nella realtà in cui lui vive e si muove. Nei mondi possibili […] Fra di noi si è creata una frattura e ora non si può tornare a essere figlio, non si può tornare a essere madre. Questi nostri ruoli sono persi per sempre»

Mentre leggevo mi è rivenuto in mente quel giorno in macchina in cui mi chiedevo “da adesso in poi chi divento io?” e ho trasformato la domanda in “da adesso in poi chi posso essere io?”. Il poter essere in fondo aveva molto a che fare con il teatro e con quello che stavamo costruendo.
Con Linda Dalisi allora abbiamo pensato di prendere una memoria di Giusi Merli – la protagonista dello spettacolo con la quale avevamo deciso di lavorare alla drammaturgia a partire dai suoi racconti autobiografici – e di farla diventare il cuore dello spettacolo. Il ricordo in questione era il racconto di un viaggio in Russia, a San Pietroburgo, dove lei all’apice della sua carriera aveva interpretato il personaggio di Re Lear. Nello spettacolo raccontiamo di come, mentre la memoria della protagonista svanisce nel vuoto, il monologo di “soffia vento” sia l’unica cosa che continui a sopravvivere in lei. Come le mattonelle per la donna di Rubiera. Abbiamo poi risposto alla domanda “da adesso in poi chi posso essere io?” ridefinendo le geografie interne alla famiglia, facendo entrare i personaggi della figlia, del figlio e della badante nell’unico mondo possibile per la madre: facendoli diventare gli altri personaggi della tragedia di Lear.
Varcare il confine di un mondo parallelo, entrare nel mondo del gioco per continuare ad avere una relazione con la donna malata, con la madre, è stato avere accesso a un luogo e a uno spazio che il teatro ci ha offerto dove poter reinventare la realtà e trasfigurare la malattia. Un luogo vivo in cui i personaggi della madre e della figlia, giocando a mettere in scena Re Lear, vengono immortalati mentre scivolano una dentro l’altra.

 

 

Fabiana Iacozzilli

Regista-autrice, porta avanti un lavoro di ricerca improntato sulla drammaturgia scenica e sulle potenzialità espressive della figura del performer. Collabora dal 2013 con il Teatro Vascello e dal 2017 con Cranpi e Carrozzerie | N.O.T. Dal 2011 è membro del LINCOLN CENTER DIRECTORS LAB (Metropolitan di New York). Tra i suoi ultimi lavori: La classe (2018), Una cosa enorme (2020), “Abitare il ritorno” progetto di teatro comunitario ideato da Asinitas (2021), En Abyme per la Biennale di Venezia (2022), Il Grande Vuoto (2023).