Let’s dance. L’arte filosofica dell’improvvisare

di Romano Gasparotti

Romano Gasparotti e Roberto Castello a Tempi di reazione 2018 – ph Andrea Simi

Ideare prima di fare

La nostra cultura dominante, in quanto cultura del dire e non del fare, tende a considerare quest’ultimo come un mero eseguire, ossia, letteralmente ed etimologicamente, come «ciò che segue a» (dal latino ex-sequi). Aprendo un qualsiasi dizionario linguistico, questi sono i primi significati del verbo “eseguire”: 1) mettere in pratica quanto è stato ideato o pensato, 2) mettere in atto quanto è stato predisposto. Se, dunque, il fare in quanto esecuzione consegue, segue a che cosa? Ad un ideare, ad un aver concepito, ossia ad un’elaborazione puramente ideale, che il fare esecutivo si limiterebbe a mettere semplicemente in pratica. Primo infondato presupposto di tale modo di intendere il fare: la radicale dimenticanza del fatto che il pensare stesso, fino a prova contraria, è un fare, il quale si esercita nelle sue pratiche pensanti. Secondo infondato presupposto: se prima si pensa ciò che si deve fare e dopo – in altro tempo e in altro luogo – si dà esecuzione a quanto (pre)pensato, allora ideazione ed esecuzione sono e restano momenti esteriori e trascendenti l’uno rispetto all’altro. Tra essi non c’è nemmeno una relazione, nell’accezione più piena del termine, secondo la quale, ovunque si dia un relazionarsi, i relazionantisi, nella loro reciproca interdipendenza, sono quello che sono solo a partire dal relazionarsi stesso dell’uno con l’altro e mai a prescindere da esso. Come potrebbe, pertanto, il fare esecutivo estrinsecare un pensare che lo trascende e che sussiste a priori nella sua indipendente realtà autonoma?
La tradizione di pensiero occidentale moderna è talmente legata alla superstizione idealistica del pensare, che lo stesso Karl Marx, il fondatore del materialismo storico-dialettico, in un famoso e assai citato passo del I libro del Capitale, scrisse: «Il ragno compie operazioni che assomigliano a quelle del tessitore, l’ape fa vergognare molti architetti con la costruzione delle sue cellette di cera. Ma ciò che fin da principio distingue il peggior architetto dall’ape migliore è il fatto che egli ha costruito la celletta nella sua testa prima di costruirla in cera» (1). L’uomo si differenzia da qualsiasi animale non umano per il fatto incontrovertibile che solo l’uomo, in quanto architetto per eccellenza, costruisce prima idealmente nella sua testa ciò che poi apparirà nel mondo in quanto estrinsecazione sensibile dell’idea stessa. Tutta la realtà essenziale sta sostanzialmente nell’idea anticipata, la cui esecuzione è un seguitare contingente, il quale, al limite, potrebbe anche non seguire affatto.
Questo modo alienato – se vogliamo usare ancora il linguaggio marxiano contro Marx stesso – di intendere il rapporto tra il pensare e il fare si accompagna, a livello squisitamente filosofico, alla separazione tra l’essenza e l’esistenza, nell’anteposizione (in tutti sensi) della prima alla seconda, come se qualcosa potesse essere quello che è, senza esistere. In questa prospettiva, il momento essenziale e decisivo sta, ovviamente, nell’ideazione anticipante, mentre il fare esecutivo è quello che semplicemente trasferisce l’idea sul piano della sua esistenza nel mondo.

Logocentrismo

L’astratta separazione di essenza ed esistenza, nel conseguente anteporre la prima alla seconda e la connessa astratta separazione di ideazione ed esecuzione, nel conseguente privilegiare la prima rispetto alla seconda, possono essere comprese e giustificate quali esiti degeneranti della civiltà della scrittura e della lettura silenziosa. Queste ultime sono, infatti, superpratiche – relativamente recenti rispetto al cammino millenario dell’umanità – che si esplicano a partire dalla irriducibile separazione del significato (nella sua natura puramente ideale e sovrasensibile) dal significante (quale corpo fisico-sensibile della parola stessa) e che si realizzano nella sistematica estrazione ed astrazione del significato dal significante, nel quale esso deve necessariamente incorporarsi (attraverso la cosiddetta codificazione) per poter percorrere i canali della trasmissione comunicativa. Nella comunicazione ordinaria secondo le teorie standard che la definiscono nella sua funzionalità strumentale, ciò che conta, in ogni messaggio, è il suo significato. Il significante vale solo come supporto materiale della trasmissione e, una volta che ha assolto tale funzione, non serve e non interessa più in quanto tale ed è destinato ad essere sistematicamente scartato e gettato via, come avviene in qualsiasi abitudinario atto di lettura silenziosa. Ciò che deve restare è il significato, ovvero una pura astrazione ideale e sovrasensibile.
Piegandosi e conformandosi totalmente ai meccanismi di una comunicazione unilateralmente fondata su una certa interpretazione e pratica logico-verbale imperniata sulle valenze semiotico-semantiche del segno, gli sviluppi logocentrici della nostra civiltà della scrittura e della lettura hanno finito per depotenziare la centralità del fare, a favore del primato dell’astratta dimensione idealconcettuale, sino al punto da considerare il fare un eseguire estrinseco ed accidentale rispetto al pensare propriamente detto. Nel misconoscimento del fatto che Platone, il primo maestro del pensiero occidentale classico, aveva sostenuto che la filosofia, quale esercizio musicale del pensare, è pragma, il quale non è riducibile ad alcun mathéma, ossia ad alcun astratto contenuto teorico-concettuale. (2)

Il danzatore non pensa in modo verbale

Si può ben comprendere, allora, perché due tra le principali protagoniste della danza moderna e contemporanea quali Doris Humphrey e Pina Bausch abbiano dichiarato rispettivamente che: «il danzatore notoriamente non pensa in modo organico né verbale» (3) e che «ci sono momenti in cui si rimane senza parole […]. È proprio allora che inizia la danza…» (4).
Se la comunicazione verbale, per i motivi menzionati, separa e antepone l’elemento astrattamente ideal/essenziale rispetto all’esistere stesso dell’esistente e assegna al fare un ruolo puramente esecutivo ed accessorio rispetto all’autentico pensare, l’arte della danza – nell’atto del suo pensare facendosi corpo e mondo all’opera – non può che nascere da una momentanea sospensione del potere locutorio, ovvero segnico-semantico, della parola.
Sono, in generale, le pratiche artistiche del ‘900, a cominciare da quanto testimoniato da due indiscutibili maestri quali Duchamp e Magritte, la dimostrazione del fatto che tutta l’arte, a partire dalla stessa pittura, sono manifestazioni all’opera di un fare pensante, ovvero del fare mostrante e performativo del pensare in quanto tale. E, in questa prospettiva, la musica e ancor di più la danza risultano esemplari, nella misura in cui, in esse, il movimento del pensare si realizza, senza riflettersi e senza sdoppiarsi, nell’atto del disegnare i ritmici flussi di un mondo cangiante tutto da esperire, il quale esiste nei suoi processi in corso d’opera e non si limita ad in-sistere su oggetti autonomi ed indipendenti dai processi stessi.

Il darsi da sé della forma

Che le arti in toto in origine non fossero legate all’idolatria degli oggetti, né ricalcassero le funzioni semiotico-semantiche proprie del linguaggio verbale, lo ammette anche Aristotele nella Poetica, quando, nel riferirsi alla tragedia – nella quale notoriamente si metteva artisticamente all’opera l’ergon sinergico di parola, figura, musica e danza – ricorre al termine poiesis autoschedistiké. L’espressione indica un fare, il quale letteralmente si dà da sé i propri schemi, nell’atto del suo mettersi all’opera stesso.
Nell’aggettivo usato da Aristotele si ritrova il tema della parola schéma, che, nella lingua originaria della filosofia, è uno dei termini che designano la forma. In particolare, per i Greci, schéma indicava la forma che si realizza quale figurazione in movimento e veniva usato in particolare a proposito della musica e della danza, per cui schémata erano tanto le figure musicali quanto le figurazioni secondo le quali si sviluppa una danza danzata. Nella produzione autoschediastica menzionata da Aristotele, tali forme non sono già date a priori, né sono, per così dire, calate dall’alto, ma si producono all’opera e in corso d’opera spontaneamente, ossia senza essere state determinatamente progettate, definite e anticipate prima, a livello di puro pensiero separato, allo scopo di essere eseguite poi nel corso dell’evento artistico propriamente detto. In questa condizione, non vi è mai un momento meramente esecutivo, il quale segue al decisivo momento ideativo, nel quale il dar forma si sarebbe già definitivamente compiuto.
L’improvvisazione – che, nel contemporaneo, caratterizza soprattutto la danza e la musica jazz – non è altro che la massima radicalizzazione di tale modalità autoschediastica. Una tale pratica innanzitutto smentisce, nel modo più evidente, il fatto che, come ha sostenuto la linea culturalmente dominante della filosofia occidentale sia antica che moderna, il pensare non sia altro che un parlare discorsivo senza voce, nel quale, quindi, dominano le componenti semiotica e semantica proprie della dimensione locutoria del dire. Le pratiche artistiche dell’improvvisazione testimoniano, invece, che il pensare originariamente è un fare, il quale, nella sua intrinseca ed illocutoria pragmatica performativa, fa mondo senza bisogno di dire indicando, ovvero senza bisogno di affidarsi a dei segni, i quali da un lato sono tali solo nel rinviare a degli oggetti e dall’altro, nel loro rinviare-a, allontanano indefinitamente, in un infinito differimento, la cosa indicata stessa, la quale diventa l’oscuro oggetto di un vano desiderare mai appagabile.
Le pratiche dell’improvvisazione, deflettendo il fare del pensare, è come se lo restituissero ai ritmi della sua circolazione quale respiro del mondo. Che cosa succede in ogni atto di respirazione? Ciò che tutto contiene, l’aria, viene contenuto e, nel contempo, ciò che è contenuto ritorna a contenere. Il fuori è dentro, nel mentre il dentro è fuori, in un continuum dinamicamente circolare, che non tollera cesure, né linearizzazioni.
È opportuno precisare il fatto che la pratica improvvisativa non rinuncia affatto alla forma, bensì libera la forma dalla sua astratta definizione di schema anticipante rigido ed inflessibile. Nell’improvvisazione non avviene la mera esecuzione di forme pre-stabilite, perché ciò che si mette all’opera comporta l’attivarsi in corso d’opera di un campo formale che si rigenera da sé imprevedibilmente in tempo reale. Tale campo formale non è più soggetto ai principi logici dell’identità e della differenza, ma agisce restando immerso – ad libitum, fintantoché perdura l’esuberanza creativa del corpo pensante – nei processi di una continua autometamorfosi. Lo sforzo massimo di chi si impegna nell’improvvisazione consiste proprio nel non ostacolare e nell’assecondare le libere metamorfosi del campo formante, avendo cura di svuotare e non solo di riempire sino a saturare, al fine di non spezzare e non soffocare il respiro del pragma di un pensare, che si mette in atto qui e ora senza differimenti, né dilazionamenti.
Un’improvvisazione può essere più o meno riuscita e felice quanto più riesce ad evitare quei momenti di apnea, i quali interrompono la continuità ritmica del respiro, finendo per ripristinare così i dispositivi propri della dimensione puramente logico-riflessiva del pensare stesso. Per essere all’altezza di ciò, non è affatto necessario abbandonarsi al più puro, casuale ed estemporaneo spontaneismo. Per il semplice fatto che, nell’arte dell’improvvisazione, la dimensione progettuale del pensare non viene ad essere negata, né eliminata. Essa si attua e agisce coralmente e in corso d’opera, fuoriuscendo dalla separatezza della pura intenzionalità pensante del soggetto-artista identitariamente concepito. Scrisse il poeta Mallarmé: «la danzatrice non è una donna che danza, […] non è una donna, ma una metafora» (5).
Ciò che si richiede, pertanto – come sanno bene tutti coloro che si dedicano alle pratiche dell’improvvisazione artistica – è, comunque, un prolungato ed assiduo esercizio, che richiede un corrispondente training e che si realizza in primo luogo quale esercizio di pensiero all’opera per nulla lontano né alieno rispetto a quello del fare filosofia, ovvero, come diceva Socrate, del fare musica, nient’altro che musica (6). Musica e danza.
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Bibliografia

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Plotino, Enneade IV, in Plotino, Enneadi, tr. it. a cura di G.Faggin, Bompiani, Milano 2000
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Henry Bergson, Pensiero e movimento (1938), tr. it. Bompiani, Milano 2000
Giovanni Gentile, L’attualismo, a cura di E.Severino, Bompiani, Milano 2014/2015
Julius Evola, Lo Yoga della potenza (1949), Edizioni Mediterranee, Roma 1994
Gilles Deleuze, L’immagine-movimento. Cinema 1 (1983), tr. it. Einaudi, Torino 2016
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Jacques Derrida – Carlo Sini, Pensare l’arte. Verità, figura, visione, a cura di Studio Azzurro, Federico Motta, Milano 1998
Vaslav Nijinsky, Diari. Versione integrale, tr. it. di M.Calusio, Adelphi, Milano 2006
D. Humphrey, L’arte della coreografia. The Art of Making Dances, tr. it. a cura di B. Pollack, Gremese, Roma 2001
Dominique Dupuy, Danzare oltre. Scritti per la danza, tr. it. Ephemeria, Macerata 2011
Romano Gasparotti, Filosofia dell’eros. L’uomo, l’animale erotico, Bollati Boringhieri, Torino 2007
Romano Gasparotti, Il quadro invisibile, Cronopio, Napoli 2015
Romano Gasparotti, L’opera oltre l’oggetto. Sull’esperienza simbolica dell’evento artistico, Moretti&Vitali, Bergamo 2015
Ermini-Gasparotti-Nancy-Sala Grau-Zanardi, Sulla danza, Cronopio, Napoli 2017
Davide Sparti, Il corpo sonoro. Oralità e scrittura nel jazz, il Mulino, Bologna 2007
Davide Sparti, L’identità incompiuta. Paradossi dell’improvvisazione musicale, il Mulino, Bologna 2010
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Massimo Donà, La filosofia di Miles Davis, Mimesis, Milano 2015
AA.VV. Improvvisazione, a cura di I.Pelgreffi, annuario Kaiak n.3, Mimesis, Milano 2018
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  1. Marx, Il Capitale, tr.it. a cura di D.Cantimori, Editori Riuniti, Roma 1977, libro primo, terza sezione, capitolo quinto, p. 212.
  2. Cfr. Platone, Lettera VII
  3. D. Humphrey, L’arte della coreografia. The Art of Making Dances, tr. it. a cura di B. Pollack, Gremese, Roma 2001, p. 21.
  4. P.Bausch, “Dance, dance, otherwise we are lost”, in Art’O#4, gennaio 2000. Conferma pienamente ciò un altro danzatore e coreografo contemporaneo D.Dupuy, il quale ha scritto: “Danzare è la scelta ambiziosa e temeraria di colui che decide di essere senza parola.(…) Non si arriva forse alla danza per mancanza di parola? (D.Dupuy, Saggezza del danzatore, tr. it. Mimesis, Milano 2014, pp.14-15)
  5. S. Mallarmé, “Balletti”, in Fechner-Mallarmé-Valery-Otto, Filosofia della danza, tr. it. a cura di B. Elia, il melangolo, Genova 1992, p.53
  6. Come riporta Platone, Socrate aveva un sogno ricorrente, nel quale un demone gli diceva: “‘Socrate fa e coltiva musica’. E io, allora,(…) questo precisamente credevo(…), che il sogno mi incitasse a fare ciò che già facevo: a coltivar musica, convinto com’ero, che la filosofia fosse la più alta musica ed io non coltivassi altro che musica” (Platone, Fedone, 60e- 61a)

 

Romano Gasparotti

Filosofo, saggista e docente di discipline estetico-filosofiche si è formato teoreticamente con Emanuele Severino, di cui è stato assistente all’Università di Venezia, per poi concentrare la propria ricerca sulle forme del fare artistico e non. E’ stato co-fondatore e redattore della rivista di filosofia Paradosso, è redattore del Giornale Critico di Storia delle Idee e della rivista di architettura Anfione e Zeto, della quale è redattore della sezione “Le idee”. Ha presentato a catalogo e in mostra artisti internazionali e nazionali, tra i quali Hermann Nitsch, Shozo Shimamoto, Remo Salvadori, Vito Bucciarelli e ha collaborato con musicisti, artisti e danzatrici in lavori teatrali ed eventi spettacolari, di cui è co-autore e interprete. Dal 1989 ha co-curato(con Massimo Donà) le principali pubblicazioni a stampa, in lingua italiana e tedesca, dell’opera postuma e inedita del filosofo novecentesco Andrea Emo, per gli editori Marsilio, Cortina, Gallucci, Bompiani, Spur Verlag. Ha curato il volume In contrattempo. La pittura malgrado tutto, Mimesis, Milano 2007 (con il contributo di 9 artisti visivi e 6 filosofi). Tra le sue principali pubblicazioni filosofiche: Movimento e sostanza, Guerini, Milano 1995; Socrates y Platon, Akal, Madrid 1996; I miti della globalizzazione, Dedalo, Bari 2003; Figurazioni del possibile. Sul contemporaneo tra arte e filosofia, Cronopio, Napoli 2007; Filosofia dell’eros. L’uomo, l’animale erotico, Bollati Boringhieri, Torino 2007; L’inganno di Proteo. La filosofia come arte delle Muse, Moretti&Vitali, Bergamo 2010; Il quadro invisibile, Cronopio, Napoli 2015; L’opera oltre l’oggetto. Sull’esperienza simbolica dell’evento artistico, Moretti&Vitali, Bergamo 2015; Shozo Shimamoto e l’esperienza artistica quale esperienza poetica del pensare, edizione italo-anglo-giapponese,Edizioni Morra, Napoli 2017; Sulla danza (con J.L.Nancy, F.Ermini, N.Sala Grau, M.Zanardi), Cronopio, Napoli 2017.

https://www.accademiadibrera.milano.it/corsi-docente/277/2006
https://www.bollatiboringhieri.it/autori/romano-gasparotti/
https://data.bnf.fr/fr/12109938/romano_gasparotti/
http://www.circulobellasartes.com/biografia/romano-gasparotti/
http://novantatrepercento.it/005_02-la-toccante-esperienza-del-comunicare/