Mettersi scomodi. Riflessioni sull’improvvisazione

di John De Leo

John De Leo e Giselda Ranieri a Tempi di Reazione 2018 – ph Andrea Simi

Cos’è (per me) l’improvvisazione

Come spesso accade quando si parla di musica – o di arte più in generale – definire un aspetto come l’improvvisazione è un esercizio piuttosto difficile, quasi innaturale poiché impone essenzialmente di oggettivare qualcosa di sfuggente per sua natura. Qualcosa di contraddittorio che oltretutto dovrebbe trovarsi a tu per tu con la personalità più intima dell’interprete. 
Dico subito che si tratta di una delle possibilità dell’arte che amo quanto la scrittura, altra possibilità convenzionalmente intesa come suo opposto. È vero che all’interno di una partitura si possono immettere le proprie micro-sfumature improvvisative o che per esempio le improvvisazioni si possono scrivere, circoscrivere, dirigere; infatti le modalità possono essere potenzialmente infinite, tante quante sono le variabili.
Al di là delle nozioni dei grandi improvvisatori, storicizzate o nei miei ricordi, – che continuerò ad approfondire e studiare fino alla morte – cercherò di prendere in esame altri elementi, forse marginali e di carattere non didattico basandomi sull’esperienza personale. 
Io di mestiere faccio il (sono?) cantante, i suoni sono il mio vocabolario preferito.
Prima di ogni altra cosa, l’improvvisazione per me è la ricerca in estemporanea della costruzione di un racconto plausibile che, nel divenire della narrazione irripetibile, si avvale, reinventa e trascende più linguaggi, e che scaturisce e dipende indissolubilmente dal contesto esecutivo. Oltre che da eventuali altri narratori implicati se vi fossero, ovviamente.

L’incidenza del contesto esecutivo

– Le linee artistiche: tradizionali / di confine 

Premesso che quante più parole (note, fraseggi, stili) si conoscono tanto più si può articolare un discorso (composizione, rappresentazione), vale la pena soffermarsi su alcune variabili, forse anche ovvie, che hanno a che vedere con l’incidenza del “contesto esecutivo” sulle scelte del linguaggio espressivo da parte dell’improvvisatore.
Innanzitutto, sembrerà banale ma non è secondario ricordare del condizionamento di tradizionali linee artistiche perseguite da certi Teatri, Club o Festival in cui l’artista si trova a esprimere, delle abituali aspettative del pubblico di questi contesti specifici.
Se per esempio in un ambito jazzistico dove per jazz s’intende esclusivamente lo swing – che per inciso è uno degli stili che più mi piacciono –, in linea di massima qualsiasi deflusso altro da quel linguaggio e i suoi dettami potrebbe suonare fuori luogo. La tradizione va rispettata. 
Se l’improvvisatore sentisse l’urgenza di portare il pubblico fuori da questo genere definito probabilmente dovrà cercare di dirottare il discorso partendo comunque dal linguaggio condiviso.
Nei contesti contemporanei più di confine l’improvvisatore è chiamato a esprimersi con meno restrizioni linguistiche e ciò non significa meno responsabilità, solo diverse. 
Con l’avvento dell’Arte Contemporanea, si sono sviluppate una molteplicità di prospettive: in musica si implicavano inedite valenze concettuali, le strutture formali si aprivano a più duttili organizzazioni e fioriva una vastità di modi nuovi di intendere il suono e l’acustica.

Abbreviando molto, sdoganati anche gli orizzonti e le funzionalità del performer, ciò che non ci si dovrebbe aspettare oggi in una improvvisazione cosiddetta “radicale” (sottintendendo il termine per innovativo o di ricerca) è che la sana libertà di espressione conquistata finisse a nascondersi nei cliché delle dissonanze, nella teorizzazione dei gesti informi dell’istintivismo, quell’equivoco modo di travisare il concetto di libertà cui mi ha sempre messo in guardia l’amico e maestro Franco Ranieri. 
Tutti noi siamo il pubblico, l’intelligenza del pubblico andrebbe rispettata. 
In ogni caso, avere coscienza del contesto, così come anelare a instaurare una qualche connessione con il pubblico (l’odiens) credo rientri nelle responsabilità dell’artista. 
Le responsabilità del pubblico dovrebbero essere nelle istanze dell’ascolto senza preconcetti ma meglio non inerpicarsi in discorsi insanabili quanto domande esistenziali, destinati a perdersi nell’aria in circolo; le responsabilità rimbalzerebbero su quelle istituzioni che dovrebbero formare il pubblico, quindi verrebbero travolte dai venti delle politiche culturali per cadere infine nell’immensa cloaca iridescente dell’economia dell’Arte. Quindi non ne parlerò.

– Altre variabili del luogo / Congiunture del quotidiano / Il pubblico-musa

Sempre a proposito dei rapporti Improvvisazione-Contesto, ci sono poi una serie di variabili che possono incidere sullo svolgimento di una improvvisazione – o della performance più in generale – difficilmente codificabili perché soggettive o di carattere psicologico e che riguardano condizioni e congiunture più del quotidiano.
All’artista conviene coltivare una discreta mobilità di pensiero e armarsi di spirito di adattamento anche per disporsi e affrontare alcune evenienze meno artistiche, poco romantiche e più di carattere tecnico. 
Ci sono vari modi per predisporsi alla performance: c’è chi fa yoga, chi training in sé stesso, chi riscaldamento, chi altre cose. Io di solito mi faccio la barba, se avanza abbastanza tempo tra il soundcheck e l’esibizione. Quanto al riscaldamento convengo che andrebbe fatto.
A ogni modo, ancora diversa dalla sua intrinseca irripetibilità sarà una improvvisazione in un certo teatro per particolare conformazione, bellezza del luogo o per prestigio. Diversa e non necessariamente migliore. Fanno invece per me la differenza una buona acustica o amplificazione. 
Diversa e non necessariamente proporzionale sarà la qualità e la profondità della performance rispetto all’accoglienza degli organizzatori che accompagnano l’artista dal retroscena al palco; diversa e non necessariamente proporzionale sarà la qualità e la profondità della performance in relazione all’attenzione, alla partecipazione del pubblico.
Benché il pubblico, quel pubblico che assiste, continui a essere uno degli elementi principali del contesto sullo svolgimento di una improvvisazione. 
È vero che l’attore in scena è il sacerdote del rito improvvisativo – e che si rivolge contemporaneamente sia alle persone in sala sia al mondo intero – ma sono convinto che un vero improvvisatore, nel giuramento all’Arte, non possa che cogliere l’umore, gli elementi narrativi del contesto a partire dal quel pubblico presente. Non sto asserendo che si pieghi necessariamente al favore del pubblico ma che quel peculiare pubblico presente sia una delle componenti fondanti della realtà condivisa nel luogo di quell’istante. 

Il performer durante un’improvvisazione 

Sempre fermo restando che una parte decisiva del contesto sulle sorti di una improvvisazione siano ovviamente eventuali altri attori partecipanti – discorso che meriterebbe un approfondimento a sé (ma devo consegnare questo scritto ai collaboratori di Roberto Castello) – come si fa a improvvisare?  
Non lo so. Certo è che una volta sul palco è il momento di mettere a frutto i propri studi e il proprio linguaggio, ovvero la somma di ciò che hai appreso dagli autori che ti appassionano, insieme a ciò che hai appreso nella pratica e nel confronto con gli altri. 
Serve un po’ di inventiva – anche quando le condizioni non sono favorevoli dicevo – nonché, se non innata, cercare di mantenere allenata una discreta prontezza di riflessi. 
La necessità dev’essere quella di dare senso al contingente, di reinventarlo all’impronta inseguendolo in ogni attimo del presente. Sebbene non lo si possa chiudere nelle forme.
Per entrare nell’improvvisazione – ma potrebbe essere un pensiero molto soggettivo – lasciati gli ormeggi, si deve avere paura. Paura e responsabilità. Intraprendere l’oblio per abbracciare le sue sfide. Mettersi scomodi. A meno che non si intenda raggirare il pubblico, cioè tradire il giuramento all’Arte.
Non ci si può riparare solo dietro il proprio bagaglio tecnico, nelle citazioni di sfoggio intellettuale o per ammiccare. Né tantomeno possono esistere le agevolazioni di una discreta posizione nell’immaginario artistico, l’improvvisazione è un’altra cosa. La prossima, quella che non conosci. 
Il linguaggio reinventa sul palco (soprattutto nel dialogo-confronto-rimpallo con altri attori-narratori partecipanti) e può succedere che ciò che credevi di sapere sembra improvvisamente inappropriato per raccontare la realtà nel luogo di quell’istante. 
Nel divenire ora insegui ora tenti di domare ogni attimo che è stato. Ma è ancora sembiante.  
Concentrazione massima. Siamo rivolti alla bellezza. Poesia. Humor. Errore. Ripetizione. Pattern. No pattern no. Anzi sì, rivisitato all’Adesso. Silenzio ritmico. Poi si sbaglia. Ancora. E pesa. Ma l’errore si sa, si può cavalcare, argomentare, assumerlo nella vita di una attimo. Nodale e transitorio come nella vita. 

Si affaccia anche la bestia. E lo possiede. Dopo un altro silenzio di note.
È l’animale antropomorfo, quello che contiene l’anima. E la manifesta. 
In sacrificio all’atto creativo. 

E tutto contraddice, dimentica, parafrasando, senza voler commettere sacrilegio, Charlie Parker. Nella migliore delle ipotesi, tra istanti che culminano ed evaporano, durante il disegno di un soffio e uno scarabocchio di eternità e un’illusione che contiene tutto, il luogo, il pubblico, gli organizzatori, il mercato, lo swing, lo yoga, Franco Ranieri, gli dei e l’Oltre: l’ascesi.

L’improvvisazione avvince, sconfina le capacità del solista, il suo ruolo, il linguaggio trascende per i vocaboli del mentre, sconosciuti al suo creatore che diviene strumento, tramite, diventa l’improvvisazione. L’illusione. 

Poi finisce.
Talvolta ricomincia. 
Poi finisce.

Come si fa improvvisare? Non lo so.
Ma se non è stato misticismo forse era un’improvvisazione.

 

John De Leo

John De Leo (all’anagrafe Massimo De Leonardis) è un cantante e compositore italiano nato a Lugo di Romagna il 27 maggio 1970. Artista trasversale, dalla vocalità duttile e sperimentale, la sua voce-strumento s’innesta in un’articolata concezione compositiva che attinge ai folklori popolari, al jazz, al rock, alla classica contemporanea, fino al reading e alle arti performative. Il critico e musicologo Stefano Zenni lo ha definito «il cantante più importante oggi in Italia».
Collaboratore e promotore di innumerevoli progetti artistici non strettamente a carattere musicale ha collaborato con: Rita Marcotulli, Teresa De Sio e Metissage, Ambrogio Sparagna, Paolo Damiani, Stefano Benni, Banco del Mutuo Soccorso, Carlo Lucarelli, Stefano Bollani, Paolo Fresu, Danilo Rea, Furio Di Castri, Roberto Gatto, Franco Battiato, Enrico Rava, Carmen Consoli, Mederic Collignon, Ivano Fossati, Antonello Salis, Alterego e Louis Andriessen, Nguyen Le, Gianluca Petrella, GianLuigi Trovesi, Alessandro Bergonzoni, Maurizio Gianmarco, Fabrizio Bosso, Trilok Gurtu, Stewart Copeland, Uri Caine, Hamid Drake, Caparezza, Adrian Mears. Co-fondatore di Quintorigo, ha fatto parte dell’ensemble dal 1992 al 2004.
Attualmente si esibisce con la sua JDL Grande Abarasse Orchestra (nove elementi) e nel progetto speciale JDL Grande Abarasse Orchestra + Orchestra Senzaspine, un ensemble di trenta musicisti. In qualità di ospite fa inoltre parte del progetto Gianluca Petrella Trio 70’s.
In duo con il pianista Fabrizio Puglisi ha appena pubblicato l’album Sento Doppio – Musiche dell’Errore e altri Fonosimbolismi Antiregime (Carosello Records, 2017). Compare inoltre nell’ultimo album Prisoner 709 di Caparezza nei brani Prosopagnosia e Minimoog.
Presidente dell’Associazione Culturale Lugocontemporanea, dal 2005 organizza l’omonimo Festival di Musica e altre forme espressive a Lugo di Romagna, con il patrocinio di Arci Bologna, Regione Emilia Romagna e di Greenpeace Italia. Nel 2016 gli viene conferito il riconoscimento di Ambasciatore UNESCO per la cultura.
«Lo hanno avvicinato a Demetrio Stratos, Tim Buckley ma lui si sente vicino a Vil Coyote. Fa jazz ma non è jazzista, fa musica contemporanea ma sembra Rasputin, compone pezzi e testi sorprendenti ma sa fare delle cover fantastiche di Bowie e Stormyweather, ha suonato con Uri Caine ma non si ricorda perché è completamente pazzo.» Stefano Benni – Rolling Stone.

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