Il comunicare comunica (innanzitutto) il suo medium
Comincio dall’assunzione di una famosa tesi di McLuhan, ma generalizzandola. Nella comunicazione, “in generale” – quindi non solo nell’ambito delle comunicazioni “umane”, ma, come dirò fra poco, nell’ambito delle comunicazioni tra “ogni cosa che esiste” – ciò che è innanzitutto comunicato è il medium stesso della comunicazione. E, dal momento che i media, come sosteneva McLuhan, funzionano sempre almeno in coppia, ciò che il comunicare comunica è innanzitutto la coppia di media “utilizzati” per veicolare dei messaggi. Ad esempio, io, per rispondere alla domanda “Che cosa comunica il comunicare?”, sto “utilizzando” due media: la scrittura alfabetica e un programma informatico di video-scrittura. Ma che cosa significa “utilizzare” un medium? Significa forse che un Soggetto, per comunicare un determinato messaggio, possa indifferentemente utilizzare un qualsiasi medium? No. Significa che, per comunicare attraverso un medium, qualsiasi soggetto deve “adattarsi” alle modalità di comunicazione iscritte nel medium. Io non potrei mai guidare un’automobile se non fossi in grado di adattarmi alla sua tecno-logica, divenendo, in qualche modo, io stesso un servomeccanismo dell’auto. Questa tesi (mcluhaniana) sembra un’iperbole. Ma basta ricordare quante volte (troppe) la nostra auto abbia condizionato pesantemente le “nostre” scelte di vita, per cominciare seriamente a dubitare della nostra libertà d’azione. McLuhan sosteneva che l’introduzione di ogni nuovo medium inducesse sempre un «mutamento di proporzioni, di ritmo o di schemi […] nei rapporti umani» (McLuhan 1977, p. 12). A questa tesi bisognerebbe aggiungere che i media, comunicando innanzitutto se stessi, comunicano sempre anche una certa “temperatura” di comunicazione, vale a dire una certa modulazione dell’energia: essi sono tendenzialmente “freddi” o “caldi”; sono freddi quando l’energia che passa attraverso di essi viene “ritardata”; caldi, invece, quando i flussi energetici vengono favoriti. Per tale ragione essi possono essere “distanzianti” (raffreddanti), come è il caso paradigmatico della scrittura alfabetica, oppure possono essere “eccitanti” (Cuomo 2014 e 2017), come è il caso di ciò che McLuhan chiamava “media elettrici”.
Media-protesi e i media-interfaccia.
Non tutti i media sono “protesi” del corpo umano oppure dei suoi organi di senso, come erroneamente riteneva McLuhan. Ci sono, infatti, gli “strumenti”, che sono effettivamente protesi del corpo umano (Leroi-Gourhan 1977); ci sono poi i media “della comunicazione e dell’espressione” – che sono quelli che qui forse ci interessano di più – che devono essere intesi come protesi estroflesse (ma niente affatto “indipendenti”) sia del sensorio umano che della facoltà dell’immaginazione; infine ci sono i media-interfaccia – si pensi alle periferiche interattive di un computer – che sono strumenti attraverso i quali è possibile interagire innanzitutto con le macchine informatiche e, tramite esse, con le macchine in generale. Le interfacce uomo-macchina non sono né protesi umane né protesi macchiniche in senso proprio. Sono entrambe le cose contemporaneamente dovremmo dire. Il loro essere sfugge, infatti, alla distinzione umanistica e antropocentrica tra uomo e strumenti. Sottolineo il termine “distinzione” e non “partizione” perché, in effetti, dal punto di vista ontologico, non c’è alcun dissidio tra uomo e tecnica protesica (o strumentale in senso stretto), ma perfetta corrispondenza e integrazione. L’umanizzazione non sarebbe stata possibile senza la co-evoluzione tra l’uomo e gli strumenti. Diversamente è accaduto e accade relativamente alla relazione tra l’umano e la tecnica macchinica. In questo caso il dissidio è reale e manifesto. Si tratta di una ri-proposta dell’antichissimo dissidio tra i gruppi umani primitivi e le potenze “automatiche” della natura. Tuttavia, attraverso le interfacce (i media-interfaccia), noi, in quanto umani, siamo in grado di interagire con la sempre più “automatica” potenza delle macchine. Ma in questo caso dovremmo forse parlare di “ibridazione” e di “evoluzione a-parallela” (Deleuze – Guattari 2017), non priva di rischi e per niente pacificante. Riprendo a questo punto la domanda “che cosa comunica la comunicazione?” e la trasformo nella seguente: “che cosa comunica il nostro comunicare attraverso le interfacce?”. La risposta “secca” potrebbe essere di nuovo: comunica il medium. Tuttavia, in questo caso non ci troviamo più di fronte ad “un” medium, ma a degli iper-media (pensiamo a tutti i dispositivi “smart” che utilizziamo quotidianamente), a loro volta connessi o connettibili tra loro. Quindi, per farla breve, ciò che le interfacce comunicano è innanzitutto il loro essere parti di un intero che non è in grado mai di totalizzarsi. Parti la cui somma è più dell’intero (la “rete”) di cui sono parti (cfr. Morton 2016).
L’incomunicabile e la danza delle cose.
Nella tele-comunicazione planetaria in cui siamo immersi, ciò che si manifesta, e che in qualche modo viene comunicato, è immensamente meno di quel che si nasconde e che non appare, né viene comunicato. Il problema non riguarda solo il cosiddetto deep web, che, come la parte non visibile di un iceberg, è letteralmente fuori della visibilità della rete (web), pur essendo dentro Internet. Ciò che si nasconde all’apparire nel web e al web, ha la medesima struttura di ciò che si nasconde nelle comunicazioni umane più “im-mediate”, che ha la medesima struttura di ciò che, di noi stessi, si nasconde a noi stessi e di ciò che degli altri (di qualsiasi altro, non solo umano) si nasconde a noi e agli altri. Ciò che si nasconde, differendo dall’apparire, è l’essere dell’apparire; ogni “cosa che è” non appare mai del tutto; in ogni cosa che è – come teorizzato recentemente da Timothy Morton (Morton 2016) – si dà un irriducibile loop tra essere e apparire. Tutte le cose che esistono, sostiene Morton, sono avviluppate in un loop costitutivo tra l’essere e l’apparire che, tuttavia, non ha origine nell’essere ma nell’apparire che, nella sua contingenza, si sdoppia continuamente tra apparire e essere, laddove, tuttavia, l’essere è ciò che non-appare nell’apparire, ma solo perché l’apparire è segnato dalla parzialità: l’essere è ciò che non-appare, nella cosa e alla cosa, perché tutto ciò che è, qualsiasi cosa, esiste in un’apertura determinata e parziale all’ambiente in cui (e grazie a cui) esiste. Non è mai possibile un disvelamento completo delle condizioni/cause dell’esistere di qualcosa. Le cose, tutte, sono incomplete e inconsistenti, afferma Morton, il che significa che sono co-esistenti, proprio in ragione della loro incompletezza. La forma a loop, in ragione della quale ogni cosa “esiste” – dalle particelle sub-atomiche agli iper-oggetti (quali la “specie umana” oppure “il riscaldamento globale”), dalle ali iridiscenti delle farfalle alle idee che ci sfrullano in testa –, è la causa dell’irriducibile oscillazione e confusione “nelle” cose e “tra” le cose; oscillazione che rende i confini di ciascuna di esse fluttuanti e, per così dire (e in aperta trasgressione del principio di non-contraddizione), nello stesso tempo appartenenti e non-appartenenti ad esse. Secondo tale teoria eco-ontologica il loop tra essere e apparire di ogni cosa, che caratterizza anche gli stessi media e iper-media della comunicazione, è “irriducibile” e “senza scopo”, insensato. È una danza fine a se stessa, in base alla quale ciascuna cosa fa i conti con la propria finitezza e contingenza. Ecco, ciò che, in generale, ogni cosa comunica, nel comunicare, è la propria finita e mortale danzosità.
Bibliografia minima di riferimento
1. Cuomo 2014: V. Cuomo, Eccitazioni mediali. Forme di vita e poetiche non simboliche, Kaiak Edizioni, Tricase 2014. 2. Cuomo 2017: V. Cuomo, Una cartografia della tecno-arte. Il campo del non simbolico, Cronopio, Napoli 2017. 3. Deleuze: Guattari 2017: G. Deleuze – F. Guattari, Millepiani. Capitalismo e schizofreniaII, a cura di P. Vignola, Orthotes, Nocera Inferiore 2017. 4. Leroi-Gourhan 1977: A. Leroi-Gourhan, Il gesto e la parola, trad. it., Einaudi, Torino 1977. 5. McLuhan 1977: M. McLuhan, Gli strumenti del comunicare, trad. it., Garzanti, Milano 1977. 6. Morton 2016: T. Morton, Dark Ecology. For a logic of Future Coexistence, Columbia University Press, New York 2016.
Vincenzo Cuomo
Vincenzo Cuomo (Torre Annunziata 1955) si occupa da molti anni di estetica e di filosofia della tecnica, anche in collaborazione con alcune Università italiane (Salerno, Napoli) e Accademie (NABA di Milano, Accademia di Belle Arti di Napoli). È direttore della rivista Kaiak. A Philosophical Journey (www.kaiak-pj.it), docente a contratto di Estetica dei nuovi media presso l’Accademia di belle arti di Napoli e membro della “Società Italiana di Estetica”. Tra le sue pubblicazioni: Le parole della voce. Lineamenti di una filosofia della phoné (Edisud, Salerno 1998); Del corpo impersonale. Saggi di estetica dei media e di filosofia della tecnica (Liguori, Napoli 2004); Al di là della casa dell’essere. Una cartografia della vita estetica a venire (Aracne, Roma 2007); Figure della singolarità. Adorno, Kracauer, Lacan, Artaud, Bene (Mimesis, Milano 2009); C’è dell’io in questo mondo? Per un’estetica non simbolica (Aracne, Roma 2012); Eccitazioni mediali. Forme di vita e poetiche non simboliche (Kaiak edizioni, Tricase 2014); Una cartografia della tecno-arte. Il campo del non simbolico (Cronopio, Napoli 2017).
– Per questi salti nel vuoto ti serve un coraggio eroico o una inconsapevolezza totale, ma saperlo non ti cambia nulla.
– Se vuoi danzare non pensare alla danza.
– Qui e ora, o in un altro luogo e in un altro tempo?
– Pensiero in movimento, oppure movimento senza pensiero.
– Inventa nuove lingue per dire cose nuove nel medesimo istante, cioè ora.
– Componi mostrando che componi.
– Non stordirti di movimento e prova a non fare niente, per un tempo lunghissimo.
– Esercitati a guardare il cielo vuoto.
– Immagina di entrare in una stanza piena di cianfrusaglie e fai finta di fare ordine.
– Immagina un buco in movimento.
– Immagina.
– Cerca la ricetta che usi sempre, e buttala via.
– Fidati del niente.
– Sbagliare è un concetto postumo.
– Non ti preoccupare delle intermittenze.
– Non resistere, buttati nel fiume, ma senza annegare.
– Non cercare di essere intelligente, simpatico o profondo.
– Sii imbarazzante.
– Sii lucido come un chirurgo.
– Sii.
– Perditi in un territorio inutile.
– Non devi dimostrare niente.
– In un sistema teatrale in cui ti viene continuamente richiesto di confezionare un prodotto da immettere nel mercato e bla bla bla
– Tutto quello che ti occorre sapere lo sai già, e non ti servirà a niente.
– Non ti preoccupare, è solo uno spettacolo.
– Vai e improvvisa.
Stefano Questorio
Stefano Questorio (Thiene, VI, 1968). Si laurea in Storia della danza all’Univeristà di Bologna. Interprete e autore di danza e teatro, lavora come interprete con compagnie italiane e internazionali tra cui: Wim Vandekeybus, Studio Azzurro, Societas Raffaello Sanzio, Company Blu e altri. Dal 2001 collabora con ALDES / Roberto Castello e partecipa come interprete e coautore alla decalogia Il Migliore dei Mondi Possibili (premio Ubu 2003), e numerose altre creazioni tra cui il recente In Girum Imus Nocte et Consumimur Igni (2015). Come autore ha firmato alcuni lavori tra cui Specie di Spazi con Valentina Buldrini (2006) Le Cose (2008) ed il recente Album (2016). Con Spartaco Cortesi ha avviato nel 2013 il progetto su D. Jarman The Angelic Conversation e il progetto musicale Play it again S. Nel 2011 collabora alle coreografie per la trasmissione Rai Vieni Via con Me. Nel 2013 partecipa alle video installazioni The Towers e Dance of Death di Peter Greenaway. Nel 2014/ 2107 è in tour con lo spettacolo Go Down Moses di R. Castellucci, e lo spettacolo interattivo per l’infanzia Pop Up Garden della compagnia TPO.
Il nostro tempo sembra non solo rendere possibile qualsiasi comunicazione, ma ‘volere’ che nulla sfugga alla comunicazione. Un volere così prepotente da assumere il tono, per lo più suadente, di un imperativo impersonale, non riconducibile a nessuna particolare fonte di emissione, e perciò indirizzato a ognuno. Da questo punto di vista, chiunque o qualsivoglia apparecchio inviti a comunicare non è che portatore, porta-voce e seguace di una Voce illocalizzabile che lo ha già anticipato nel dare il comando. Ma vale anche l’inverso: chiunque o qualsivoglia apparecchio esegua l’ordine di comunicare è nello stesso tempo qualcuno/qualcosa che ingiunge di comunicare. Nel campo dell’attuale forma della comunicazione chi comanda esegue e chi esegue comanda. Non c’è un capo, né un centro del comunicare, ma un dovere che va da un capo all’altro, così che della comunicazione non se ne viene mai a capo, obbligati a ricominciare senza sosta da capo. Il dovere di comunicare ci vuole insonni. E non è amico dei sogni. La Voce illocalizzabile guida la realizzazione locale del dovere di comunicare. Di più, la Voce attribuisce la natura di luogo solo a ciò che è impegnato nella comunicazione; attraversa i luoghi che la fanno risuonare, ma non si arresta in nessuno di essi. Che la comunicazione assuma forma scritta, nulla toglie al fatto che in essa risuoni la Voce dell’imperativo. Si estende così all’infinito la rete dei seguaci del dovere. Eppure, i seguaci non si pensano come tali; si percepiscono liberi nel loro agire comunicativo. Liberi, in quanto agenti della comunicazione. La Voce è coperta dal frastuono delle voci, così da restare inavvertita nel loro reciproco rispondersi. In tale risonanza frastornante, le voci non avvertono ciò che hanno in comune, anche quando si impegnano nelle più brutali e odiose guerre comunicative: rispondere alla Voce e farsene porta-Voce. C’è voce, infatti, solo quando si ha voce nell’agire comunicativo dettato dalla Voce.
L’imperativo non comanda di comunicare qualche contenuto in particolare, ma di comunicare con qualsiasi contenuto. Per quanto, parafrasando McLuhan, la comunicazione è il messaggio, è necessario in ogni caso un contenuto da trasmettere. L’imperativo, mantenendosi nell’indifferenza nei confronti di ciò che viene comunicato, rende possibile la comunicazione di qualsiasi contenuto. Diversamente dall’imperativo categorico kantiano (devi! perché puoi), è il dovere di comunicare a rendere possibile la comunicazione di qualsivoglia contenuto (puoi comunicare, perché devi!). L’indifferenza nei confronti dei contenuti è il necessario portato dell’interesse dell’imperativo alla realizzazione, a qualsiasi costo, della comunicazione. L’indifferenza si radica però nell’attiva e distruttiva ostilità nei confronti dell’avvento delle Idee e delle forme di vita fedeli all’Idea. Sottraendosi a ogni determinazione, annullando le opposizioni, abolendo il messaggio “attraverso l’esposizione esorbitante di tutte le sue varianti”, la comunicazione mostra che l’indifferenza nei confronti dei contenuti è un modo per gettare nel caos ogni determinazione, per evitare prove e verifiche, a favore, invece, della “prova di forza” (Perniola).
Il dovere della comunicazione si presenta “democraticamente” come diritto-potere di ciascuno. Non c’è vita o macchina così povera da non avere un contenuto da comunicare. Al di là di tutte le differenze – individuali, di classe, di apparecchio – ognuno/ogni macchina ha il diritto-potere alla comunicazione. Il dovere rende possibile il diritto e se ne impadronisce a tal punto che questo non resti sulla carta, anzi ecceda ogni carta costituzionale, sia concesso e si realizzi tendenzialmente oltre ogni distinzione uomo-animale-macchina ecc., ogni differenza di genere e di specie. Il dovere non è conseguenza del diritto di comunicare; al contrario, lo rende possibile, lo concede e si sforza di realizzarlo. Più precisamente, lo concede e lo moltiplica, solo in quanto lo realizza. Di qui lo scatenamento dell’agire comunicativo (agire=comunicare) per conquistare la forza in grado di eliminare l’interdetto, il segreto, il mistero. La comunicazione possibile deve passare all’atto per accrescere le possibilità di passare all’atto di comunicare. La comunicazione produce possibilità comunicative perché siano realizzate e le realizza per produrne di nuove. Si potrebbe dire che la comunicazione è un modo per governare il possibile grazie alla sua moltiplicazione, incremento, estensione, realizzazione. Non si tratta più di selezionare, escludere, disciplinare o censurare i possibili. Il passaggio dalla “disciplina” al “controllo” ha nel primato della comunicazione uno snodo decisivo. Il possibile pare essere la posta in gioco di un tale passaggio. Si tratta di non lasciar essere i possibili, ma di anticiparli attraverso la loro incessante produzione, così da indirizzarli, misurarli, padroneggiarli.
Indifferente ai contenuti, ma non all’incremento delle possibilità comunicative e alla loro realizzazione, la forma attuale della comunicazione comanda all’atto comunicativo di “fare sensazione”, essere “stimolante”, “eccitante” “stupefacente”. “Esserci”, come ha mostrato Christoph Türcke, significa non solo coazione a “trasmettere”, a trasformarsi in una stazione emittente, ma soprattutto capacità di eccitare l’attenzione altrui, di farsi notare. La società della comunicazione è una società produttiva di possibilità di eccitazioni e di atti eccitanti. Atti eccitanti che inaugurino nuove possibilità di eccitazione. In questo quadro, la democrazia si identifica con la partecipazione, resa possibile e garantita dalla microelettronica, alla competizione generalizzata per “fare sensazione”. La società democratica si presenta come il regime della concorrenza universale nel “libero” mercato del “sensazionale”. La comunicazione è attualmente un modo della connessione essenziale tra democrazia e mercato.
Le competenze comunicative si modellano sulle operazioni pubblicitarie. La comunicazione mira alla brevità, intensità, efficacia dello spot. Le pratiche educative vengono ridisegnate in funzione dell’incremento e della preminenza delle competenze comunicative sulle conoscenze, in modo che la “trovata”, la capacità di attrarre l’attenzione, renda forte, o sia capace di nascondere, un sapere inconsistente o nullo. Si dà per scontato che il tempo di attenzione di ciascuno sia “naturalmente” limitato, e così si produce artificialmente la limitazione dell’attenzione e la necessità di comunicazioni-flash. Il primato, nell’attuale sistema scolastico, delle competenze sulle conoscenze si spiega in gran parte con la “pressione ontologica” dell’“estetica”, vale a dire con l’obbligo di “fare sensazione” per conquistare l’“esserci”, per evitare di essere nulla. Se ognuno ha il compito di divenire l’imprenditore di se stesso, deve essere educato a saperci fare con la auto-promozione. La lotta per “farsi sentire” è indissociabile dalla lotta per “sentire”. La ricerca generalizzata della comunicazione “sensazionale” comporta una tale “alluvione di stimoli” da indurre stordimento, anestesia (Türcke). Il dovere di attrarre l’attenzione produce, nello stesso tempo e nello stesso agente comunicativo, la dipendenza dalla sensazione stupefacente con la ricerca conseguente di nuove dosi di sensazionale. La comunicazione mira al mantenimento di uno stato di eccitazione-euforia attraverso un’escalation competitiva che produce un torpore crescente, un indebolimento della capacità di percepire.
Come ogni imperativo, il dovere di comunicare è tanto meno soddisfatto, quanto più è osservato. Proprio in virtù dell’efficacia dell’imperativo, cresce il sentimento di essere in debito di comunicazione, di non fare abbastanza, e di non avere forza sufficiente, per stimolare la dovuta attenzione. Si intensifica così anche il sentimento di essere in debito di esistenza e si estende la minaccia di cadere nell’inesistenza. Nonostante la disparità delle forze comunicative – la formazione di oligarchie nel campo delle emissioni provocata dal dovere di realizzare e incrementare le possibilità di comunicazione – nessuno è risparmiato dalla possibilità incombente della propria nullità. Certo, coloro che sono dotati di potenti mezzi di comunicazione, hanno maggiori opportunità di fronteggiare la minaccia, anche se è sempre possibile per chiunque esercitare la più insensata delle violenze e la più elementare delle cosiddette “azioni terroristiche” per uscire dall’inesistenza, spiccando nel mercato della comunicazione. Ma c’è una preghiera, un’implorazione che mormora segretamente anche nella più spudorata e trasgressiva delle comunicazioni, nella più esplicita esposizione-confessione del segreto: “sentimi!”, “percepiscimi!”. E una domanda: “ho eccitato davvero la tua attenzione?”.
Con uno stesso gesto, la comunicazione fa esistere e getta nell’inesistenza, potenzia e depotenzia, integra ed esclude. I corpi sono luoghi, hanno luogo, solo se diventano eterei, spettrali, comunicando via etere. Il corpo perde forza irradiante, potenza d’esistere. L’acquista soltanto in quanto stazione emittente. In assenza dell’atto comunicativo, il corpo è un peso, un relitto, un rifiuto, un cadavere: “Chi non è in onda, non trasmette, non esiste, ovvero, fisicamente può essere sanissimo, con valori circolatori e pressori del tutto normali, ma dal punto di vista mediatico è defunto” (Türcke). La comunicazione sembra ripetere il dubbio cartesiano sull’esistenza corporea, ma non ne viene a capo ogni volta con un atto di pensiero, bensì con un atto di comunicazione massmediatica. L’imperativo a realizzare e aumentare le possibilità comunicative comporta, inoltre, frustrazione e disorientamento: il sentimento della perdita di possibilità più soddisfacenti di quelle attualmente realizzate e il dubbio che ciò che è rilevante non accada lì dove ci si trova a trasmettere e non si identifichi con ciò che si comunica. Quand’anche il calcolo della risonanza di una comunicazione sia apprezzabile, lo è sempre relativamente, in modo istantaneo e fuggevole. Se è la comunicazione a produrre ciò che conta, nulla conta in modo durevole. L’orientamento in base alla risonanza degli atti comunicativi è strutturalmente destinato al disorientamento.
Si è detto che l’agire comunicativo è risposta al dovere di comunicare. Ora, questo stesso dovere, proprio per la sua forma, testimonia di essere a sua volta una risposta, una reazione. A che cosa reagisce aggressivamente e dispoticamente l’imperativo? Mario Perniola, la cui scomparsa voglio così ricordare, ha scritto che il dispotismo della comunicazione è una reazione della old economy alla valorizzazione del sapere, alla “rivoluzione dei rapporti tra sapere e potere” inaugurata dalla new economy: “Nei confronti di questa svolta epocale, la comunicazione rappresenta la reazione del vecchio mondo, della old economy, che cerca di confondere tutto con tutto per stroncare sul nascere la portata strutturale ed effettuale del nuovo sapere”. La società della comunicazione sarebbe una risposta distruttiva, da parte dei vecchi poteri ed economici, alle “nuove straordinarie possibilità di intervento e di affermazione nel mondo” offerte al sapere dalla new economy. Una tesi che richiederebbe una discussione lunga e articolata. Ma il suo merito è indubbio: interpretare il dovere di comunicare come una risposta, destituirlo di ogni naturalità, originarietà, ineluttabile preminenza. Prendendo sul serio il dovere di comunicare come coazione a produrre “eventi” – non è l’evento a imporsi alla comunicazione, ma la comunicazione a disporre dell’evento –, si può riconoscere nella comunicazione un dispositivo di protezione dall’incontro traumatico con l’imprevedibile. Una protezione che tenta di anticipare l’evento attraverso la sua incessante produzione. Ma l’evento, in quanto imprevedibile e incalcolabile, non rientra nel novero dei possibili, sfugge alle misure conosciute e al sapere. Impossibile da produrre, l’evento sospende, interrompe, il potere-sapere. Da questo punto di vista, la tesi di Perniola, secondo la quale la comunicazione sarebbe una risposta alle nuove possibilità del sapere aperte dalla new economy, appare altamente problematica. A meno che non si intenda la comunicazione come una risposta al fatto che non si sa che ne sarà della forma tramandata del sapere. Ma ciò significa che è il non sapere ad inquietare la comunicazione, al punto tale che l’agire comunicativo si impegna – è un impegno ormai osservabile quotidianamente – a distruggere il sapere, anche quello più tradizionale e, per così dire, legittimo, pur di tentare di padroneggiare l’imprevista, traumatica trasformazione della relazione tra sapere e potere.
Come contrastare il dispotismo della comunicazione, sapendo che i suoi dispositivi sono in grado di utilizzare anche la lotta contro il dovere di comunicare? Quali pratiche, esercizi, forme di vita mettere in campo? Esistono esperienze, esperimenti, da riprendere, sviluppare, sostenere? Da questo punto di vista, un’inchiesta sui modi di operare, organizzarsi, istituirsi di tali sperimentazioni avrebbe un notevole valore politico. Si tratterebbe, per dirlo icasticamente, di mostrare quelle pratiche che nei loro atti comunicativi trasmettono la decisione di non comunicare ciò che si dovrebbe. Sul piano più strettamente teorico, non sarebbe il caso, solo per fare qualche esempio, di discutere, riprendere e portare alle estreme conseguenze una serie di suggerimenti che ci vengono dalle teorie all’apparenza più diverse: la valorizzazione da parte di Artaud della “contrazione assoluta” come condizione dell’irradiamento di gesti singolari? il programma di una “clandestinità a cielo aperto” proposto da Blanchot? l’elogio della “sobrietà”, del “divenire catatonici”, “divenire impercettibili”, nelle scritture di Deleuze e Guattari? Conviene ricordare che anche Derrida ha invitato alla sobrietà per essere fedeli alla “crudeltà” richiesta dal teatro di Artaud. Perniola ha fatto appello alla “discrezione” e al “disinteresse interessato” per tener testa alle “prove di forza” del dispotismo della comunicazione. E Alain Badiou ha scritto che il pensiero inizia necessariamente nel “ritegno”, come accade, a suo dire, nella danza. In accordo con Badiou, Žižek ha invitato recentemente all’auto-censura per sottrarsi all’imperativo a esprimere se stessi…
Bibliografia minima
Mario Perniola, Contro la comunicazione, Einaudi, Torino 2004. Cristoph Türke, La società eccitata. Filosofia della sensazione, Bollati Boringhieri, Torino 2012.
Maurizio Zanardi
Maurizio Zanardi è tra i fondatori della casa editrice Cronopio, per la quale ha curato i volumi: Le lingue di Napoli (1994); Aporie napoletane. Sei posizioni filosofiche (2006); La democrazia in Italia (2011); Comunità e politica (2011); Sulla danza (2017). Tra i suoi ultimi scritti: Un teatro popolare e difficile, in Antologia teatrale, a cura di A. Lezza, A. Acanfora, C. Lucia, Liguori, Napoli 2015; Sottrazioni, eterotopie, laboratori, in Lo stato della città. Napoli e la sua area metropolitana, a cura di L. Rossomando, Monitor, Napoli 2016.
A volte si ha una percezione delle cose che non corrisponde alla realtà. L’impressione è quella di vivere in un mondo fatto essenzialmente di parole, dove quelle scritte in particolare hanno un peso e un valore che nessuna azione o parola detta potrà mai avere. E’ come se le parole che diciamo, ascoltiamo, scriviamo e leggiamo occupino quasi per intero la nostra attenzione.
Uno studio dello psicologo Albert Mehrabian afferma, invece, che in una conversazione – uno dei momenti in cui si pensa di essere del tutto concentrati sul discorso – in realtà i movimenti del corpo (soprattutto le espressioni facciali) incidono per il 55% del contenuto comunicativo, l’aspetto vocale (volume, tono, ritmo) per il 38% e il valore semantico delle parole (il loro significato letterale) solo per il 7%. Di qui il nome del blog.
In altri termini Mehrabian ci dice il significato letterale delle parole che ascoltiamo ha un’incidenza in definitiva marginale nel quadro delle nostre esistenze, che è molto più importante il modo in cui le cose vengono dette del loro senso letterale.
Un’affermazione sorprendente in una società apparentemente fatta solo di parole. La materia di cui sono fatte le sacre scritture, le costituzioni, le leggi, i contratti, le lettere, gli sms, le bollette, gli assegni e gli estratti conto.
La psicologia ci dice, insomma, che le relazioni umane si tengono su due piani: uno di relazione consapevole e razionale, fatto di parole e numeri, e uno, in realtà preponderante, di cui abbiamo solo in parte consapevolezza, fatto di movimenti, atteggiamenti e suoni. Uno quindi basato su ciò che secondo alcuni storici da circa 70.000 anni distingue l’uomo sapiens dagli altri animali e l’altro, appunto preponderante, basato invece su ciò che da 200.000 anni (il momento in cui si ritiene siano comparsi i primi esemplari) accomuna l’uomo sapiens agli altri animali.
Di qui l’idea di una piattaforma di riflessione, confronto, e scambio di materiali sul linguaggio non verbale, sulla festa, sul ballo, sul potenziale politico del corpo e sui suoi bisogni, e quindi in definitiva anche sul ruolo e la dimensione politica del piacere, e su come questi potrebbero diventare consapevole strumento di cambiamento sociale.
Una piattaforma che cerchi di raccogliere e intersecare le linee di pensiero che su questi argomenti si sono sviluppate in ambito antropologico, psicologico, sociologico, filosofico, nelle neuroscienze, nelle scienze sociali, nel pensiero libertario, in quello femminista, insomma in tutti quei contesti che hanno provato ad immaginare una società più consapevole di tutti quegli aspetti della relazione interpersonale che non sono regolati unicamente dall’astrazione della parola ma cercano di tenere in considerazione anche la dimensione della qualità della relazione e del piacere nella vita sociale.
Lo spunto per un blog sul potenziale politico dei comportamenti deriva dai Dance Club, una pratica che ALDES ha avviato nel 2017 nel territorio lucchese. Si tende a pensare il ballo come un fenomeno unitario. In realtà i modi in cui le culture affrontano il ballo sono molto diversi. Ci sono luoghi in cui appena c’è musica, tutti si mettono a ballare e altri in cui ballare è qualcosa che proprio non si fa mai. In alcune culture il ballo è una pratica liberatoria, in altre è formalizzato e stilizzato, altre lo hanno circoscritto a momenti precisi e controllati della vita sociale. Poche cose sono comunque altrettanto capaci di strappare un sorriso a chiunque più della vista di qualcuno che balla con entusiasmo divertendosi davvero.
Comitato scientifico*:
Roberto Castello Graziano Graziani
Coordinamento editoriale*:
Graziano Graziani
Redazione*:
Doralice Pezzola
Collaborazione alla redazione*: Alessandra Moretti
– al Comitato scientifico: Andrea Porcheddu (2018), Francesca De Sanctis (2017), Dario La Stella (2017) – al Coordinamento editoriale: Andrea Porcheddu (2018), Francesca De Sanctis (2017) – alla Redazione: Margherita Dellantonio e Valeria Vannucci (2018) e Dario La Stella (2017)
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Roberto Castello
Roberto Castello (1960) danzatore, coreografo e insegnante, è tra gli iniziatori della danza contemporanea in Italia. Con ALDES, l’associazione che dirige, produce spettacoli e cura il progetto SPAM! – rete per le arti contemporanee, che ospita residenze artistiche, progetti didattici e programmazioni multidisciplinari di danza, musica e teatro in provincia di Lucca. Ha insegnato per 10 anni coreografia digitale presso l’Accademia di Belle Arti di Brera a Milano ed è l’ideatore di “93% – materiali per una politica non verbale”, una piattaforma di riflessione, confronto, e scambio di materiali sul linguaggio non verbale. Nel 2021 Altreconomia pubblica “Trattato di economia – Riflessioni semiserie sulla dimensione economica dell’esistenza”, scritto con Andrea Cosentino e partecipa alla pubblicazione del volume “Nel migliore dei mondi possibili. Intorno all’opera di Roberto Castello” curato da Valentina Valentini insieme a Chiara Pirri e Valeria Vannucci edizioni Ephemeria. Si è sempre battuto per il riconoscimento della danza contemporanea e per un sistema dello spettacolo equo, efficiente e sostenibile. Ha ricevuto il Premio UBU nel 1985, 2003, 2018 e 2022. www.aldesweb.org
Graziano Graziani
Graziano Graziani è nato a Roma. Oltre a essere uno dei conduttori di Fahrenheit (Radio 3), ha realizzato documentari e programmi per Rai 5. Collabora con «Lo Straniero», «Il Tascabile» e «Minima&Moralia». Scrive di teatro contemporaneo, come critico, o almeno ci prova. Ha pubblicato il romanzo Esperia (Gaffi, 2008), la Spoon River romanesca dei I sonetti der Corvaccio (La camera verde, 2011) e, per Quodlibet Compagnia Extra, l’Atlante delle micronazioni (2015) e Catalogo delle religioni nuovissime (2018). https://grazianograziani.wordpress.com
Doralice Pezzola
Doralice Pezzola è laureata in Letteratura, Musica e Spettacolo all’università La Sapienza di Roma e diplomata presso la Scuola d’Arte Cinematografica Gian Maria Volonté e l’Accademia di Cinema e Televisione Griffith. È un membro fondatore dell’associazione cinematografica Greve61, con la quale organizza laboratori e rassegne sul territorio romano, come il Cinecittà Film Festival. È sceneggiatrice di Tanabata di Riccardo Bolo (2012) e ha collaborato a Let’s go di Antonietta De Lillo (2013), Uno, nessuno di Daniele Vicari (2015) e Il flauto magico di piazza Vittorio di Mario Tronco e Gianfranco Cabiddu (2018). Ha scritto per 93% – materiali per una politica non verbale, per cheFare, per la rivista di cinema Spaziofilm e scrive attualmente per la rivista di critica teatrale Le Nottole. https://www.lenottole.com
Alessandra Moretti
Alessandra Moretti è da sempre anima di ALDES, sguardo critico e co-autrice dei progetti e spettacoli di Roberto Castello con cui collabora dal 1993. E’ cofondatrice e animatrice di “SPAM! rete per le arti contemporanee”, centro di produzione multidisciplinare che ospita stagioni, residenze artistiche e laboratori nella piana di Lucca. Cura la grafica di tutti i progetti grafici di ALDES, tra cui dal 2017 quello del blog “93% – materiali per una politica non verbale”, a cui collabora anche alla redazione. Nel 2021 partecipa alla pubblicazione del testo “Nel migliore dei mondi possibili. Intorno all’opera di Roberto Castello” curato da Valentina Valentini insieme a Chiara Pirri e Valeria Vannucci. Premi Ubu 2003, 2018 e 2022 (“Il Migliore dei mondi possibili” / progetto ALDES / “Inferno”). www.aldesweb.org
«C’era una volta un leopardo che da tempo cercava di catturare una tartaruga. Un giorno, per caso, si imbatté nella tartaruga che camminava tutta sola in una strada solitaria. “Ah ah,” le disse, “Finalmente ti ho presa, adesso preparati a morire”. E la tartaruga rispose: “Posso chiedere un ultimo favore, prima di morire?” Il leopardo non vide niente di male nella richiesta, e disse di sì. “Dammi qualche minuto per preparare il mio animo!”, spiegò la tartaruga. Di nuovo il leopardo non vide niente di male nella richiesta, e l’accolse. Ma invece di restare immobile come si aspettava il leopardo, la tartaruga cominciò a fare strani movimenti frenetici sulla strada, grattando il suolo con le mani e con i piedi e gettando sabbia da tutte le parti. “Perché fai così?”, chiese il leopardo, perplesso. Al che la tartaruga spiegò: “Perché vorrei che quando sarò morta tutti quelli che passeranno di qui dicessero Sì, qui qualcuno ha lottato con un suo pari”. Ecco, gente, questo è quanto stiamo facendo noi, forse con nessun altro fine se non che quelli che verranno dopo di noi possano dire, è vero, i nostri padri furono sconfitti, ma almeno ci provarono».
Questa favola, inventata o forse rielaborata sulla base di un testo tradizionale tramandato oralmente, compare in un grande romanzo africano dello scrittore nigeriano Chinua Achebe, Anthills of the Savannah, tradotto in italiano col titolo Viandanti della storia nella collana «Il lato dell’ombra» di Edizioni Lavoro. È una favola che racconta le molte battaglie civili combattute, evocando una presenza nella storia ma anche il senso della memoria, e costituisce una magnifica testimonianza di come il narratore che vuole rendere il presente e il passato faccia ricorso al patrimonio orale oppure lo ricrei attraverso la sua immaginazione. Parliamo dell’oralità africana nel contesto della narrativa, ossia di come la narrativa che viene dall’Africa subsahariana – quella terra incognita dove anche per i romani c’erano i leoni, cioè al di sotto del Sahara – sia impregnata di elementi orali. Infatti la regione a nord del Sahara era molto nota – non a caso, nella storia di Roma ci sono stati anche degli imperatori africani. Il rapporto dei romani con l’Africa è stato molto ampio; Roma aveva una grande popolazione anche nera, sebbene ciò non venisse notato perché l’atteggiamento nei confronti del colore era molto diverso dal nostro, così come si è manifestato a partire dall’era delle colonizzazioni. Ebbene, le letterature subsahariane presentano una costante caratteristica, ossia di essere strutturate sulle tradizioni orali. Cominciamo col chiederci come ciò accade, cosa si intende per oralità africana, e come si articola nel sistema dell’oralità africana la parola d’arte, poiché da un canto c’è la parola di comunicazione, e dall’altro c’è la parola che diventa arte. Non è la parola semplice quella che entra nella letteratura, bensì la parola come forma d’arte prodotta dall’artista. In alcune aree dell’Africa Occidentale, l’artista orale o griot usa la voce e la mimica, ma anche la danza e il canto – quindi dal gesto alla danza, e dalla voce alla musica – come parte essenziale della propria performance. L’artista orale realizza insomma una performance che è momentanea, effimera – come del resto fa anche il danzatore – e di genere misto. Nella sua performance entrano vari elementi eterogenei che si alleano al racconto, quindi la performance da un lato è importante per come viene prodotta, ma dall’altro è importante per come viene ricevuta. Non esiste artista orale della tradizione africana se non nel contesto sociale e comunitario. Cioè la parola d’arte nasce, si sviluppa, fiorisce e passa agli altri attraverso un contesto sociale. L’artista orale si manifesta in quanto esiste una comunità che gli risponde anche materialmente, perché l’artista crea un sistema antifonico di domanda e risposta che è molto formulaico, ma la cui origine risiede nella vera e propria comunicazione anche di contenuti precisi. Inoltre, l’artista e la comunità si incontrano e interagiscono in determinati momenti rituali. Le performance si verificano quando c’è un momento significativo e importante sia per l’artista sia per la comunità: una nascita, una morte, una cerimonia funebre; una sconfitta o una vittoria in guerra, o altri momenti rituali legati alle stagioni, al raccolto, alla produzione agricola, oppure al rapporto con altri gruppi sociali. Quindi il fenomeno dell’oralità si inserisce e va letto in un contesto comunicativo pubblico. E l’importanza del rito della parola nella tradizione africana si rivela in un rapporto stretto con il pubblico, con la comunità, dove agisce un artista che poi, con l’evolversi dei mezzi di comunicazione, è diventato scrittore, e mantiene un rapporto fortissimo con la sua comunità di origine e con la sua comunità dell’immaginario. Non si ha mai nella tradizione della narrativa africana – almeno fino ad oggi – l’artista isolato nella sua “torre d’avorio”, non esiste proprio il concetto di questo tipo di espressione artistica di radice individualistica, l’artista è immediatamente a contatto con la sua comunità. Sia in senso proprio, ossia di artisti che sono anche persone impegnate nella vita politica, nella vita sociale, nella vita culturale, ma anche in senso lato, quando lo stretto legame con la comunità passa attraverso l’immaginario.
Quando Chinua Achebe racconta la favola del leopardo e della tartaruga, attraverso questa forma espressiva evidentemente di matrice popolare e tradizionale, si inserisce direttamente in un contesto culturale comunitario, così che, sebbene la favola sia scritta anziché presentata oralmente, a noi piace immaginare che sia bella solo se narrata a voce, attraverso una voce fisica, poiché la voce dell’artista orale è un grande strumento espressivo ma allo stesso tempo costituisce il rapporto e il collegamento di sutura tra l’immaginario e la fisicità. La narrazione è una delle forme dell’oralità che passano attraverso la voce e il timbro, attraverso le inflessioni e i movimenti, per cui nel caso dell’artista orale africano si aveva una sorta di genere misto ove l’artista non solo parlava e raccontava, ma anche cantava, danzava e recitava, seguendo delle modalità formulaiche molto precise. Tutto questo patrimonio intangibile rimane molto vicino allo scrittore africano, come ci insegna Achebe. Se anche noi europei, e in particolare noi italiani, abbiamo avuto ed abbiamo tuttora un’importante tradizione orale, nel mondo africano essa è più vicina perché la scrittura intesa come forma cumulativa e totale di comunicazione si è affermata più di recente ed è stata introdotta attraverso la colonizzazione e l’evangelizzazione, due fatti e due fenomeni che vanno di pari passo: e si noti bene che ciò vale anche per l’Africa del nord, dove c’è stata la colonizzazione araba e non l’evangelizzazione cristiana, dunque la conversione all’Islam che poi è penetrato in parecchie altre parti, soprattutto dell’Africa occidentale e orientale. Sia l’Islam che il cristianesimo nelle sue varie declinazioni e denominazioni sono due religioni del libro, insieme all’ebraismo; e la conversione ed evangelizzazione cristiana, o la conversione all’Islam, così come le pratiche religiose relative, passano attraverso il libro e quindi attraverso la lettura del libro. Non a caso infatti, per i missionari che in buona parte dell’Africa nera, quella occupata dagli inglesi, sono stati missionari di chiese cosiddette protestanti (non nelle aree di colonizzazione francese e portoghese, ove l’evangelizzazione è stata di marca cattolica) la lettura delle sacre scritture era essenziale per stabilire il rapporto diretto con Dio, che passava attraverso la sua rivelazione, poiché di rivelazione si tratta sia per il Corano che per il Nuovo e l’Antico Testamento. Questo tipo di cultura del libro era estranea all’Africa, ove esisteva invece una cultura della parola che era molto forte e su cui la cultura del libro si è imposta passando attraverso l’evangelizzazione e la colonizzazione ad essa collegata, che ha creato un’amministrazione pubblica diretta o indiretta a seconda che si trattasse di amministrazione inglese o francese, ma sempre basata sul rapporto con la scrittura e quindi sulla necessità di apprendere la scrittura e di comunicarla attraverso la lettura. Tale situazione ha creato in Africa la figura particolare dell’interprete – mi si consenta una piccola digressione – che ha nella narrativa africana degli esempi straordinari. Nel storia del romanzo africano ci sono infatti molti straordinari personaggi di interpreti: si pensi soltanto a L’étrange destin de Wangrin di Amadou Hampate Bâ, il cui protagonista è appunto un interprete molto bravo perché parla il francese “vero”, e non il forofifon-n’est-ce-pas di quanti avevano appreso la lingua servendo in cucina. (Questo libro è stato tradotto in italiano con il titolo L’interprete briccone, nella già citata collana «Il lato dell’ombra»). Wangrin, insomma, parlava il francese ‘alto’, cioè colto o per lo meno corretto, degli amministratori, mentre il forofifon-c’est-ce-pas dei suoi concorrenti meno dotati era un’accozzaglia fantasiosa dove l’eco sonora del parlato assomigliava solo vagamente al francese. L’interprete aveva insomma un ruolo politico e culturale, ed era personaggio di potere, in un mondo in cui la parola regnava sovrana. Ritornando alle letterature africane, il concetto della parola come parola d’arte che ha alti valori estetici e dei canoni propri, molto complessi, e anche delle forme prestabilite da regole, non è stata vista dalla colonizzazione europea, e quindi non è stata letta così com’era ed è stata considerata una forma inferiore di espressione. Oggi non è più così, esistono moltissimi studiosi di oralità, considerata appunto come forma d’arte e nel suo rapporto con la produzione scritta. Ma è importante ricordare che questa produzione di parola d’arte, che raggiunse il suo vertice in epoca precoloniale con il grande epos dei regni africani d’occidente ma anche dei regni Zulu e Xhosa dell’Africa australe, è stata poi assunta nella scrittura. Le forme epiche, nate oralmente, sono poi state raccolte, come è avvenuto per il poema Sundiata che narra le vicende dell’eroe eponimo e che è stato scritto in più versioni, la più celebre delle quali risale a Djibril Tamsir Niane. È importante ricordare, tuttavia, che la parola d’arte africana aveva degli stili, delle regole riconosciute, dei canoni sofisticati: così come nella musica jazz ci sono regole, canoni e forme in cui si inserisce l’improvvisazione, il signifying, come dicono i jazzisti. Quindi la matrice orale dell’epica, della lirica e del racconto non impediva che essi avessero delle regole. Quali sono i fenomeni e gli aspetti più caratteristici dell’oralità che si ritrovano anche in tanta narrativa africana? Per esempio le ripetizioni, cioè l’uso delle ripetizioni, che naturalmente creava metrica. I parallelismi nelle frasi, le forme parallele, e poi le digressioni – ad esempio quella che si è citata, di Achebe, è una forma classica di digressione con cui si introduce la favola, e la digressione è una classica forma dell’oralità. Altre caratteristiche dell’oralità sono certi tipi di immagini, le allusioni e soprattutto l’uso della metafora, che naturalmente viene usata anche in tutte le tradizioni scritte ma che nel mondo narrativo africano è molto presente, e presenta una sorta di eco che viene dalla performance. L’artista si pone quindi come performer: non a caso Achebe, grande narratore nigeriano, parla dello scrittore come di un teacher, da intendersi come maestro di vita e di storia, ma anche come insegnante di mestiere: e chi è più performer dell’insegnante, che crea sempre uno spettacolo in cui inscena e trasmette il proprio sapere?
Si obietterà che nella produzione letteraria orale i canoni fissi potessero creare staticità, ossia che i testi e le modalità espressive venissero tramandati sempre uguali: ma non è affatto così, perché è proprio attraverso l’esistenza del canone e delle regole che si afferma l’originalità dell’artista, il quale prende il materiale del testo tramandato, e lo schema canonico, e li piega ai propri desideri alle proprie intenzioni trasformandoli e creando un’opera originale attraverso una propria invenzione. Si prenda ad esempio il caso di Amos Tutuola, grande scrittore nigeriano emerso all’alba della narrativa nigeriana moderna, che negli anni ‘50 riuscì a far pubblicare a Londra The Palm-Wine Drinkard (Il bevitore di vino di palma nella traduzione uscita in Italia per i tipi di Adelphi) mandando per posta il proprio manoscritto alla prestigiosa casa editrice britannica Faber & Faber. Il racconto del bevitore attinge a quello che era il ricco patrimonio tradizionale yoruba e mette in scena situazioni e vicende che tutti gli yoruba conoscevano, in quanto favole, miti e situazioni della tradizione orale; però Tutuola li integra in un contesto diverso e li fa agire attraverso un personaggio d’invenzione, appunto il bevitore di vino di palma, il quale è molto felice perché ha un bravissimo distillatore di vino di palma che si arrampica sulle palme, le incide e gli procura un ottimo vino, ed è ricco e ha tanti amici perché il buon vino attira gli amici. Sennonché questo incisore di palme a un certo punto cade da una palma e muore, cosicché lui rimane senza il suo oste personale, non può più bere vino e diventa molto infelice, mentre gli amici scompaiono insieme alla buona fortuna, come accade in molti casi nel contesto umano. Però dice: “qui la cosa si mette male, io vado a cercare il mio distillatore di vino di palma”. E dove lo cerca? Là dove stanno quelli che noi chiamiamo defunti, cioè quelli che passano in un mondo parallelo che non è (come da noi) un mondo altro e staccato, ma un mondo con cui comunica il mondo dei vivi, poiché nella realtà e nella cosmologia africana esistono il mondo dei viventi e quello dei non viventi, che comunicano e prevedono dei passaggi dall’uno all’altro. Quindi ecco che il bevitore di vino di palma va di là, nel mondo dei non viventi, e passa attraverso le varie città di non viventi, sempre cercando il suo famoso incisore di palme. Tutuola ne racconta la storia che è una variante di quella che i critici francesi chiamano quête e gli inglesi quest, ovvero la grande ricerca, il cammino di chi va in cerca di qualcosa di fondamentale, come può essere nella tradizione europea il Parsifal che cerca il Santo Graal, o Ulisse che cerca la sua Itaca, e che in fondo è un paradigma della vita umana, un cammino che ha una spinta di partenza – il desiderio di trovare qualcosa di assolutamente, esistenzialmente indispensabile – e che poi dovrebbe avere una fine: nel punto cui si era mirato. Ma non è mai così, perché si va sempre a finire da qualche altra parte, così come Ulisse vagabonda per il Mediterraneo sostando nei luoghi più disparati, e anche quando trova Itaca non riesce a fermarvisi. Nel 1952, quando Tutuola pubblicò questo libro, ci fu una polemica tremenda, perché molti dissero – il bello è che furono i nigeriani a dirlo – “ma che razza di storie sono queste! Tutti noi conosciamo queste storie, Tutuola non ha inventato niente!”, e altri dissero: “Ma che razza di lingua è questa, sembra inglese ma non lo è!”, “Ma che razza di metafore sono queste, così insolite e strampalate!”. Il libro, insomma, creò uno scalpore enorme, non solo in Inghilterra e in Europa dove venne pubblicato dalla grande casa editrice Faber & Faber, ma soprattutto in Nigeria dove i parrucconi accademici nigeriani dissero subito “Ah, è sgrammaticato!” e non volevano essere rappresentati da uno scrittore che scriveva in maniera così sgrammaticata. In realtà lo scrittore inventava una lingua e proponeva un nuovo personaggio, usando un patrimonio collettivo: poiché nessuno di noi nasce da solo, nasce invece da una cultura e in un contesto determinato, e l’artista parla a una comunità e attinge alla memoria e al patrimonio, e poi lo trasmette a una comunità che può essere presente ma anche immaginaria. I romanzi africani nascono con la colonizzazione, là dove l’evangelizzazione e la cultura dell’amministrazione coloniale portano e impongono la scrittura nelle lingue coloniali europee. Nascono prima là dove gli insediamenti coloniali sono fissi, cioè in Africa australe dove i coloni si insediano sino da metà Seicento. I primi romanzi nascono in Sudafrica, il primo è Chaka del 1925, e il secondo è Mhudi del 1930. Quest’ultimo ha come protagonista una donna, la coraggiosissima Mhudi, che combatte contro un leone: un romanzo straordinario, pieno di ironia e genialità. Però poi, man mano che la colonizzazione si radica sempre più profondamente, le amministrazioni coloniali creano delle scuole per poter generare una classe media che funga da interlocutore con la popolazione africana, ed ecco che nascono figure di artisti che non sono più artisti orali ma artisti che scrivono: scrittori, appunto. In Africa Occidentale uno dei primi è proprio Amos Tutuola con The Palm-Wine Drinkard del 1952, anche se quello più importante e influente risulta Chinua Achebe che nel 1958 pubblica Things Fall Apart. Siamo alla vigilia delle grandi indipendenze africane che si avviano tra il ‘54 e il ‘56 nel Ghana, il primo paese di colonizzazione inglese ad acquisire l’indipendenza, e si allargano a tutte le colonie negli anni ‘60 quando uno dopo l’altro i paesi di colonizzazione sia inglese che francese diventano indipendenti. C’è quindi la pressione dei forti movimenti anticoloniali, ci sono gli effetti della seconda guerra mondiale, c’è l’appoggio anche esterno del pensiero marxista che è fortemente anticoloniale e che attraverso i paesi dell’Europa orientale sorregge anche materialmente le lotte di liberazione: poiché, come a fondamento del pensiero marxista c’è la liberazione dell’uomo dal bisogno e quindi dalla povertà, così anche nel contesto del mondo coloniale il concetto fondamentale è la liberazione dall’occupazione straniera, dallo sfruttamento europeo, e la conquista dell’indipendenza e dell’autonomia individuale e nazionale. Le indipendenze quindi arrivano in quest’epoca, salvo i paesi di colonizzazione portoghese, per i quali, dato che in Portogallo perdura il regime fascista fino agli anni ‘70, l’indipendenza è conquistata intorno al 1975 sia in Mozambico sia in Angola. Alla vigilia di queste indipendenze, in Nigeria e negli altri paesi dell’Africa occidentale c’era un nutrito gruppo di intellettuali africani che produceva parola d’arte scritta, arti figurative; era un momento di grande fioritura, la Lagos degli anni ‘50 era una città dinamica e viva. In Nigeria ci sono vari gruppi etnici e i più numerosi sono gli ibo nell’est, là dove c’è il petrolio, mentre a ovest stanno gli yoruba, dalla grande tradizione rituale, che poi con l’apporto della schiavitù si è trasmessa in Brasile e a Haiti attraverso i riti di origine africana, e gli hausa del Nord, rigidamente islamici. Gli ibo sono cristianizzati da tempo, una cristianizzazione ormai molto sedimentata, gli yoruba in parte cristianizzati ma in modo più superficiale – come attesta anche la cultura di cui parla Wole Soyinka – e in parte ancora animisti, mentre gli housa sono invece tutti islamici. Chinua Achebe è un ibo, è figlio della media borghesia già consolidata, e nel ‘58 pubblica questo straordinario libro, tradotto in italiano per Jaca Book con il titolo Il crollo; ma esiste una più recente traduzione, per La nave di Teseo, con un titolo tradotto letteralmente dall’inglese, Le cose crollano.Il crollo si situa in un passato immediatamente antecedente all’intrusione coloniale e alla penetrazione bianca della zona ibo. Presenta un gruppo di villaggi che si chiama Umuofia con i suoi riti, le sue consuetudini, la sua produzione agricola e i suoi personaggi, al centro del quale vi è un uomo, Okonkwo, un nobile guerriero che ha acquisito molti titoli di onore all’interno della sua società. Noi seguiamo le vicende di questo guerriero all’interno di questa comunità allargata, assistiamo alle performance di questo guerriero che è anche un campione di lotta, agli incontri pubblici in cui gli oratori danno prova di questa rituale modalità antifonica, e mano a mano vediamo che questo guerriero si trova a compiere degli errori gravissimi nei confronti dei valori della propria etnia e della propria comunità. Viene allora esiliato per sette anni, e quando ritorna sono arrivati i missionari. I primi missionari vengono uccisi perché vengono considerati degli animali strani, poi un missionario che arriva in bicicletta – un uomo bianco che arriva in bicicletta nella foresta! – e voci dicono che assomigli a un lebbroso, non sembra infatti avere le dita dei piedi (in quanto indossa delle scarpe che le celano). Poi, però, i missionari arrivano in massa, si stabiliscono all’interno della comunità locale, con i loro riti cristiani. Alcuni si convertono, i primi sono quelli di casta inferiore, così come nell’antica Roma i primi a convertirsi erano stati gli schiavi, perché vedevano una redenzione in questa religione dell’amore. Perché Achebe ci racconta tutto ciò? Lo racconta innanzitutto ai suoi africani, affinché ci sia una rappresentazione viva e presente di quella che era la cultura, la grande cultura africana ibo nel contesto preciso e specifico di Umuofia, affinché la gente conosca e ricordi. A un certo punto Achebe dice: «io vorrei soltanto che questo mio libro avesse un merito, che i miei connazionali lo leggessero e imparassero cosa sono stati». Mira a rendere viva questa società, a renderla presente alle generazioni successive: inventa una lingua che è un inglese standard, con dei ritmi molto forti e con delle inserzioni in lingua ibo; insomma, il romanzo parla normalmente, con dialoghi e descrizioni molto brevi cui però si aggiungono inserzioni di favole, come quella del leopardo e della tartaruga e molte altre, più frequenti e saporiti proverbi perché, come dice Achebe, «tra gli ibo, l’arte della conversazione è reputata molto importante e “i proverbi sono l’olio di palma con cui si condiscono le parole”». Un altro proverbio viene citato a proposito del padre di Okonkwo, di nome Unuoka, un sognatore e (secondo Okonkwo) un buono a nulla, pieno di debiti. Ed ecco che uno dei suoi creditori va da lui e dice, “dammi i quattrini perché io ne ho bisogno”, e lui risponde: “ti pagherò ma non oggi. I nostri anziani dicono che il sole splenderà su quelli in piedi prima di splendere su quelli che stanno alla loro ombra, perciò pagherò per primi i miei debiti più grossi”. Poi aggiunge che tra la sua gente si rispetta l’età, ma si riferiscono i meriti, sicché, come dicono gli anziani “se un bambino si lavava le mani può mangiare con il re”. E anche, come dice l’uccello Ineke: da quando gli uomini hanno imparato a sparare senza mancare lui ha imparato a volare senza posarsi. Questo costituisce un esempio di favola eziologica, che attraverso un apologo descrive il comportamento di un animale spiegandone la ragione, attribuendola naturalmente a un motivo fantastico ma accattivante. Così, attraverso forme narrative abilmente orchestrate, Achebe raffigura vividamente la sua cultura e anche la storia di questo villaggio, insieme alla storia dell’incontro con l’uomo bianco con una religione diversa, con riferimento a quando i missionari sobillano i convertiti neofiti perché distruggessero gli egwugwu, cioè le maschere che consentivano l’apparizione e la partecipazione degli antenati nella società dei viventi, fungendo loro da tramite. La maschera è un elemento molto importante nella cultura dell’Africa subsahariana perché in realtà nasconde e dà voce a un personaggio che incute soggezione e magari anche terrore. Le maschere non andrebbero mai esposte, infatti tradizionalmente venivano tenute nascoste e uscivano in pubblico soltanto nei momenti giusti, quando dovevano entrare in azione e inserirsi in una cerimonia o un rito con precise finalità sociali e politiche. Nel romanzo i neofiti, sobillati da un pastore troppo zelante, colpiscono un egwugwu, strappandogli la maschera. E questa è una cosa tremenda, che genera immediatamente disordine sociale e orrore, provocando una vendetta e una ritorsione. Gli ibo ritorneranno in massa, con alla testa le maschere rituali, e bruceranno la chiesa. Naturalmente l’esercito inglese, chiamato dall’ufficiale distrettuale, interverrà per punire il villaggio e scoppierà così un aperto conflitto. Okonkwo cerca di confrontarsi con questa situazione e, quando arriva il messo dell’ufficiale distrettuale, lo uccide. Così facendo genera il disastro: a seguito di questo atto tremendo si suicida, compiendo un atto inconcepibile nella sua comunità, tanto è vero che nessuno della comunità può toccare il corpo del suicida e gli anziani del villaggio chiederanno ai soldati dell’ufficio distrettuale di provvedere alla rimozione del corpo. Questo romanzo ha aperto veramente una stagione, e ancora oggi è tra i più letti in Africa, non soltanto in Nigeria ma in tutto il continente. È in realtà uno dei romanzi più letti nel mondo, ed è un’opera straordinaria perché nella sua apparente semplicità nasconde la complessità di una cultura e rivela la problematicità di un incontro culturale, cioè mostra quanto l’incontro culturale sia una cosa complessa, greve di rischi e anche piena di avventure. In questo momento di incontro/scontro tra la cultura dell’etnia igbo e il mondo europeo, con l’arrivo dei missionari prima e dei soldati poi, si tocca con mano l’inizio di un conflitto e poi la sottomissione forzosa coloniale, e anche il momento del cambiamento. Ma Achebe non narra soltanto questo; racconta dal di dentro come, proprio nella parabola di quest’eroe che crolla perché a un certo punto uccide e uccide anche se stesso, si rivelino le debolezze di una cultura che nella sua rigidità contribuisce a creare lo scontro. Il suo è uno sguardo critico e sfaccettato che ancora oggi può insegnare molto, e Il crollo costituisce tuttora uno dei libri più avvincenti per i giovani, perché offre infinite possibilità di dialogo.
Da questi esempi si vede come la cultura orale passi all’interno di un testo e vi entri come un insieme di forme, ma naturalmente anche come patrimonio. Tutto il patrimonio orale, l’universo delle maschere, il rapporto con il mondo dei non viventi. In breve, tutto il mondo non scritto che esiste nella realtà vissuta di una comunità dell’Africa Occidentale viene riversato nel racconto. Questa è la contiguità della tradizione orale con la tradizione scritta. Naturalmente, ci sono altri narratori africani che prediligono forme e soluzioni diverse da quelle adottate da Chinua Achebe. Per rimanere alla produzione in prosa, occorre ricordare che esistono scrittori come Djibril Tamsir Niane che raccolgono e trascrivono interi poemi orali (Niane come si è già detto pubblica Sundiata, uno dei grandi romanzi epici della tradizione maliana), o si esercitano in varianti sulle orme di epos preesistenti, come è il caso di Thomas Mofolo in Chaka – oppure raccolgono addirittura la forma performativa travasandola in scrittura. Un esempio è la scrittrice Werewere Liking, grande performer, una bassà camerunese che vive in Costa d’Avorio, dove ha fondato una comunità di artisti polivalenti che creano parole d’arte, oggetti d’arte, monili, che vivono insieme e hanno elaborato una forma di vita comune molto particolare. Werewere Liking ha scritto poesia orale in cui il racconto sfuma nella performance poetica. In Italia abbiamo tradotto La memoria amputata, pubblicato da Baldini e Castoldi, storia di una bambina che ingloba parecchie produzioni poetiche, però è anche un racconto di vita, quindi un romanzo di formazione femminile. Un titolo importante sulla storia delle donne, assieme ad altri, come i romanzi di Ken Bugul Il sentiero di sabbia e La moneta d’oro.
Altri due scrittori in cui la presenza della tradizione orale è straordinaria sono Amadou Kourouma, un malinké originario della Costa d’Avorio, e il nigeriano ogoni Ken Saro-Wiwa. Kourouma pubblica nel 1968 un bellissimo romanzo che si intitola Les soleils des indépendances (I soli dell’indipendenza, edizioni e/o), in cui colloca la narrazione all’inizio della storia dell’indipendenza negli anni ‘60, criticando ferocemente quanto accaduto nei vari paesi africani dopo la fine del colonialismo. Si tratta di un libro che ha fatto epoca, per la forza corrosiva della critica sociopolitica affidata a una scrittura ardita e vivacissima, che si serve di esiti grotteschi e di invenzioni sorprendenti. Più tardi ha scritto Allah n’est pas obligé, ossia Allah non è mica obbligato (sempre con e/o), in cui racconta la storia di un ragazzo soldato riprendendo una tradizione espressiva iniziata da Ken Saro-Wiwa. Inizia così:
«Capitolo primo. Ho deciso che il titolo definitivo e completo del mio blablà è Allah non è mica obbligato a essere giusto in tutte le sue cose di quaggiù. E adesso inizio il mio sproloquio. E per cominciare… e uno!.. mi chiamo Birahima e sono p’tit nègre. Non perché sono nero e bambino. No! Sono p’tit nègre perché parlo male il francese. Proprio così, davvero. Se si parla male il francese, si dice che si parla p’tit nègre, anche se si è adulti, anche vecchi, anche arabi, cinesi, bianchi, russi, anche americani, si è sempre e comunque p’tit nègre. Così vuole la legge del francese quotidiano. …E due!… con la scuola non sono andato molto avanti; ho piantato lì in terza elementare. Ho lasciato il banco perché tutti dicevano che la scuola non vale niente, neppure il peto di una vecchia nonna. […] …E tre! Sono insolente, sgrammaticato come la barba di un caprone e parlo come una carogna. Non dico come i negri africani indigeni bene incravattati: Merda! Puttana! Stronzo! io uso parole malinke come faforò! [Faforò significa “cazzo del padre”, o “culo del padre” in genere, o “in culo a tuo padre”] Come gnamokodé! [Gnamokodé significa “bastardo” o “puttana tua madre”] Come Walahé! [Walahé significa “in nome di Allah”] I malinké sono la mia razza. È quella specie di negri neri africani indigeni che sono numerosi nella Costa d’Avorio, in Guinea o in altre repubbliche delle banane fottute come Gambia, Sierra Leone e Senegal laggiù ecc ecc. … E quattro!… Mi voglio scusare per il mio modo sfacciato di rivolgermi a voi. Perché sono solo un bambino. Ho dieci o dodici […] e anni parlo molto. Un bambino educato sta a sentire, non tiene banco… non ciancia come una ghiandaia tra i rami di un fico […]. …E cinque!… Per raccontare la mia vita di merda, il mio bordel de vie, per parlare in modo approssimativo un francese passabile. Per non confondermi con i paroloni, possiedo quattro dizionari. Prima di tutto il dizionario Larousse e il petit Robert, in secondo luogo l’Inventario delle particolarità lessicali del francese in Africa nera, e in terzo il dizionario Harrap’s. Questi dizionari mi servono per trovare i paroloni, per verificarli e soprattutto per spiegarli, i paroloni. Occorre spiegare perché il mio blablà sarà letto da vari tipi di persone: dai tubab [tubab significa “bianco”] coloni, dai neri indigeni selvaggi d’Africa e dai francofoni di ogni calibro [calibro sta per “genere”]. Il Larousse e il Petit Robert mi permettono di cercare, di verificare e di spiegare i paroloni del francese di Francia ai neri negri indigeni d’Africa. L’Inventario delle particolarità lessicali del francese d’Africa spiega i paroloni africani ai tubab in francese di Francia. il dizionario Harrap’s spiega i paroloni pidgin ai francofoni che non capiscono nulla di nulla del pidgin. Come ho avuto questi dizionari? Questa è una lunga storia che non ho voglia di raccontare adesso. Ora non ho voglia, non ho tempo di perdermi in chiacchiere. Ecco, tutto qua. A faforò [“affanculo mio padre”]».
Ken Saro-Wiwa era un nigeriano ogoni. Gli ogoni sono un piccolo popolo che vive nel delta del fiume Niger in una zona pesantemente sfruttata dall’industria petrolifera. Grande intellettuale, cineasta e drammaturgo ma anche un impresario culturale di successo, poeta e narratore, decise di sostenere la lotta degli ogoni contro i colossi dell’industria petrolifera; venne per questo arrestato dalle forze armate nigeriane, accusato di aver danneggiato gli interessi regionali e impiccato nel 1995. Il suo fondamentale libro del 1985 si intitola Sozaboy, che significa “bambino soldato” (Soldier Boy); purtroppo questa parola oggi è diventata nota a causa delle guerre civili che hanno straziato molti paesi dell’Africa. (Il romanzo Sozaboy è stato tradotto in italiano e pubblicato da Baldini e Castoldi con il titolo originale inglese) Ed ecco come si avvia il romanzo, con un incipit bellissimo che parte dal villaggio di Dukana, presentato in parallelo e in affettuosa antitesi all’Umuofia di Chinua Achebe:
«Comunque all’inizio tutti erano contenti a Dukana. Tutti i nove villaggi pensavano e mangiavano un sacco di mais con le pere snocciolando racconti sotto la luna. Perché il lavoro dei campi era finito e l’gname stava crescendo proprio bene. E perché il vecchio governo cattivo era morto ed era arrivato un nuovo governo, un governo di sozasoldati e di polizia».
Questo incipit, con i nove villaggi e il rito del raccolto, è preso da Things Fall Apart di Achebe. Ken Saro-Wiwa inizia quindi nel segno di Achebe, ma poi racconta la storia non di un maturo guerriero, ma di un ragazzo che si chiama Mene e diventa ragazzo soldato, entrando nelle milizie della guerra civile senza capire minimamente perché lo faccia, dove vada e che senso abbia la sua vita. Succedono cose terribili, tanto è vero che Mene cambia, diventa disperato, fugge e alla fine ritorna al suo villaggio Dukana, che trova però deserto. La sua casa è stata abbattuta e sua madre non c’è più. Allora dice: «…e così mi alzai da dove stavo seduto. Non dissi più una parola, soltanto mi alzai e mi avviai. Mentre stavo andando, guardai verso il posto dove era sempre stata la casa di mia mamma. E le lacrime cominciarono a scendermi dagli occhi come pioggia. Andai via veloce dal mio villaggio natale Dukana e in realtà non sapevo mica dove stessi andando. E intanto pensavo a come la guerra aveva rovinato il mio villaggio Dukana, rincretinito un sacco di persone, ucciso molte altre, ucciso mia mamma e mia moglie Agnes, la mia bella e giovane moglie dello stupendo seno, e ora mi aveva fatto diventare come uno che ha la lebbra perché non ha più un villaggio. E stavo pensando a come prima ero stato orgoglioso di andare soldato e di chiamarmi Sozaboy. Ma ora, se qualcuno viene a dirmi qualcosa della guerra, o anche del combattimento, io mi metterò soltanto a correre e a correre e correre e correre. Credetemi. Sinceramente vostro».
Itala Vivan
Itala Vivan (Udine, 6 febbraio 1936) è un’accademica e scrittrice italiana. Itala Vivan, professore ordinario già alla Facoltà di Scienze Politiche dell’ìUniversità degli Studi di Milano, è una delle massime esperte italiane di letterature africane e una studiosa della produzione culturale dell’Africa e in particolare del Sudafrica. Si è formata come comparatista nelle università statunitensi, e quindi nel settore degli studi postcoloniali e culturali, analizzando le società e le culture nella transizione dalla situazione coloniale a quella postcoloniale e osservando, in filigrana,la condizione femminile e la vicenda della schiavitù moderna figlia degli imperi europei. Si forma in Italia e negli Stati Uniti con la laurea nel 1959 in lingue e letterature straniere all’Università Cattolica di Milano e, negli anni Sessanta, con la preparazione per il dottorato in studi comparati alla Rutgers University nel New Jersey che frequenta grazie a una borsa Fulbright. Tra il 1971 e il 1975 è attaché presso l’Istituto Italiano di Cultura di Londra. Docente di Letteratura inglese prima all’Università di Bari (1975-1979), poi all’Università di Verona e di Udine (1979-1990) e infine professore ordinario alla Facoltà di Scienze Politiche dell’Università degli Studi di Milano (1990-2005) dove insegna studi culturali e postcoloniali. Tra il 1980 e il 1983 è visiting professor alla Columbia University di New York nel dipartimento di studi comparati[1]. Studiosa e ricercatrice che contribuisce agli studi postcoloniali e agli studi culturali. Partendo dalla letteratura e dalla storia con un approccio comparativo, multidisciplinare e fortemente internazionale, i suoi studi spaziano sulle arti visive, i musei culturali, la cultura contemporanea in generale e la storia e evoluzione sociale del Sudafrica. Attraverso un intenso lavoro di pubblicazione, Itala Vivan ha svolto un ruolo centrale in Italia nel far conoscere le letterature africane contemporanee. Ha curato la pubblicazione di romanzi e di raccolte di racconti per le case editrici Giunti, Feltrinelli, Adelphi, Baldini Castoldi Dalai. Ha fondato e diretto la collana di letterature africane e caraibiche Il lato dell’ombra per la casa editrice Edizioni Lavoro[2]. Ha avuto un ruolo attivo nel promuovere la partecipazione di scrittori africani al Festivaletteratura di Mantova[3]. Ha studiato, e tuttora studia, gli esiti letterari dei nuovi scrittori italiani di origine africana. Tra gli autori curati da Itala Vivan vi sono Wole Soyinka, Nadine Gordimer,Chinua Achebe, Nagib Mahfuz, Olive Schreiner, Elsa Joubert, Buchi Emecheta, Pepetela, Mia Couto, Thomas Mofolo, Richard Rive, Tahar Ben Jelloun, Sipho Sepamla, Zoe Wicomb, Bessie Head, Amadou Hampâté Bâ, Amos Tutuola, Rose Zwi, Ken Saro-Wiwa, Nuruddin Farah, Driss Chraïbi, Ken Saro-Wiwa, André Brink, Peter Abrahams, Arthur Maimane, Lisandro Otero, Abdelkébir Khatibi, Abdlewahab Meddeb, Rachid Boudjedra, Cyprian Ekwensi, Jean Jacques Alexis, Jacques Roumain, Maryse Condé, Sony Labou Tansi, ecc.. Grazie alla sua partecipazione a convegni e conferenze e all’organizzazione di eventi, nonché alla collaborazione con quotidiani e riviste tra i quali Rinascita, Paese Sera, Linea d’ombra, L’Unità[4],e varie altre, ha avuto un ruolo importante anche nel far conoscere a un ampio pubblico la cultura africana contemporanea. Itala Vivan ha diretto la rivista “Culture”, del dipartimento di Lingue e Culture Contemporanee della Facoltà di Scienze Politiche dell’Università degli Studi di Milano, ed è stata direttore scientifico della Biblioteca “Enrica Collotti Pischel” della Facoltà di Scienze Politiche di Milano contribuendo in modo molto significativo ad arricchire i fondi dell’istituto con pubblicazioni e riviste legate all’Africa e agli studi postcoloniali[5]. È stata quindi direttore scientifico della Biblioteca della Scuola di Mediazione Interculturale dell’Università degli Studi di Milano (sede di Sesto S.Giovanni). Oggi fa parte della redazione della rivista Storia delle donne pubblicata online dall’Università degli Studi di Firenze e del comitato scientifico di “Scritture migranti” e varie altre riviste accademiche.
«È solamente in un luogo imprevisto, e in un momento inatteso, che può avvenire un fatto al quale saremo pronti a credere senza riserve». T. Kantor
Improvvisare è termine a cui nel linguaggio corrente si accostano significati con accezioni vagamente negative: raffazzonare, abborracciare, preparare lì per lì. Concetti che rimandano all’imprecisione, alla mancanza di progetto, all’impreparazione. Nel pensiero occidentale come si sostanzia a partire dell’Umanesimo, l’opera d’arte è frutto del genio dell’artista che pensa l’opera e attraverso lo sforzo della propria volontà, manualità, tecnica e abilità rende manifesta l’idea nelle forme. L’opera d’arte è quindi stampo del pensiero che la precede e la determina. Ciò che in campo artistico viene improvvisato assume pertanto nel pensiero comune, ma anche in quello di numerosi addetti ai lavori, uno status di minorità, di incompiutezza, perfino di dilettantismo. Nonostante questo pregiudizio, condiviso per altro da autori come John Cage che minarono nel profondo l’idea di autoralità e di paternità dell’opera, nell’ultimo secolo e mezzo l’arte dell’improvvisazione ha assunto un ruolo determinante nelle più svariate discipline artistiche. Pensiamo al Jazz, a certa avanguardia musicale soprattutto elettronica, alla pittura (il dripping di Jackson Pollock per esempio), alla danza e al teatro. Accanto al pensiero dominante dell’artista artefice unico dell’opera, che trova nell’Ottocento romantico la sua più eroica e dogmatica applicazione, si è sempre affiancata una modalità più fluida ed anarchica ma anche più sommersa perché sovente osteggiata. Pensiamo alla Commedia dell’Arte dove gli attori componevano, a partire da temi, scene e situazioni di base, nell’istante della rappresentazione un caleidoscopio di possibilità sempre diverse che nascevano e morivano davanti al pubblico. Per alcuni autori di drammi e commedie, scrittori e non teatranti, questa mania inventiva era considerata un vilipendio, uno sfregio all’opera, solo i più illuminati compresero i pregi del recitar all’improvviso. Uno di questi fu Alessandro Piccolomini, autore, nella metà del Cinquecento, di rinomati testi teatrali quali Amor Costante e Alessandro, e che decise di dedicarsi a un progetto ardito: comporre un catalogo universale di scene, situazioni, personaggi e intrighi da cui gli attori potessero trarre qualsiasi genere di materiale con cui costruire sulla scena uno spettacolo di volta in volta diverso a seconda delle circostanze. Un prontuario per una arte combinatoria applicata al teatro, una serie di moduli aperti eternamente ricomponibili come pezzi di un meccano dalla quale sorgesse quasi per miracolo un’opera apparentemente compiuta ex ante. Certo, come ricorda Luigi Riccoboni, autore e pensatore del teatro italiano in Francia e autore de Histoire du théâtre Italien in due volumi nel 1730, la recitazione all’improvviso necessita di un certo tipo di attore: «ingegnosi e più o meno ugualmente bravi, perché lo svantaggio dell’improvvisazione consiste nel fatto che la recitazione del migliore attore dipende assolutamente da colui con cui dialoga: se si trova un attore che non sa cogliere con precisione il momento della replica, e che l’interrompe a sproposito, il suo discorso langue e la vivacità dei suoi pensieri viene soffocata». Questo passo ci descrive la necessità degli attori di aver abilità compatibili ed equipollenti. Tale esigenza possiamo tranquillamente estenderla a tutte le pratiche artistiche che impiegano l’improvvisazione. La riflessione di Riccoboni fa emergere anche un’altra attitudine fondamentale dell’improvvisatore: il saper cogliere l’attimo e la capacità di interpretare quanto avviene trovando una risposta adeguata. Questo saper afferrare l’occasione nel momento giusto ci trasporta in una diversa concezione del tempo propria dell’arte dell’improvvisazione. Se l’opera tradizionalmente intesa è frutto di un progetto, di un disegno che mano a mano che procede si sostanzia e si struttura fino a giungere a un compimento che dà corpo a uno o più significati previsti, nell’arte dell’improvvisazione si vive nell’istante e in quello che i greci chiamavano kairos, il tempo dell’opportunità. È un cogliere l’attimo, un adattarsi tempestivo alle circostanze, una modalità che non accetta il ritardo e rifiuta l’esitazione. Abitare kairos significa vivere la contingenza del momento con tutta la propria presenza, svincolati dal concatenamento di passato e futuro, dove il primo si risemantizza a ogni istante successivo e il secondo semplicemente non esiste. Nell’improvvisazione kairos prende dunque il posto di chronos, il tempo dell’opera per eccellenza. Per saper vivere kairos c’è però bisogno di quella che i greci chiamavano metis, ossia quell’attitudine mentale che pratica l’imprevedibilità, che si adegua alle situazioni. Come il velista coglie il vento alle prime avvisaglie del suo mutare, così l’uomo che esercita la metis riesce a dominare le situazioni difficili e ostili non esercitando il controllo ma cogliendo le opportunità che via via si offrono. Una sorta di surf sull’onda del mare mutevole delle circostanze. Come dice Corrado Bologna: «la metis è la capacità di aderire solidamente alla realtà in maniera complice, camaleontica, ambigua, duttile». Grazie a essa si pratica l’eukairia, la capacità di afferrare il tempo opportuno. L’opportunità però è quanto di più fugace possa esistere. Macchiavelli la descrive come una donna piena di grazia che mai non riposa perché tiene il piede sopra una ruota e il cui volto è coperto da lunghi capelli: «perch’un non mi conosca, quando vengo». Opportunità è seguita da Penitenza che vien trattenuta da chi non s’è avveduto del suo passaggio, e perduto in pensier vani, non comprende com’ella sia sfuggita dalle mani. A questo serve la metis, a cogliere l’occasione al suo passaggio e a sfruttarla nel migliore dei modi. L’improvvisatore dunque vive nel tempo kairologico esercitando la metis e affinandola con l’esperienza benché ciò che è stato non sia mai più ripetibile. Quest’ultimo assunto ci conduce ad esaminare un altro aspetto inscritto nell’arte dell’improvvisazione: essa è quell’arte che inventa le regole e le norme del suo farsi nell’istante in cui si compie. Non ha canoni a cui ci si possa aggrappare e nessun piano di battaglia può in alcun modo essere atteso. Nessuna forma preventivamente studiata vedrà mai la luce in un’improvvisazione perché suonerebbe falsa come le monete di cioccolata. Nemmeno può essere in qualche modo insegnata. Tutt’al più il maestro può condurci a un atteggiamento propedeutico, uno stato mentale e fisico fecondo che concili l’atto improvviso e imprevisto. Può dunque accompagnarci sulla soglia, ma entrare nel flusso creativo istantaneo è affare del performer, è frutto di allenamento personale e di una attenta coltivazione di uno specifico contegno differente per ciascuno. Il filosofo Luigi Pereyson diceva: «l’arte è un tal fare che, mentre fa, inventa il modo di fare […] nel corso stesso dell’operazione inventa il modus operandi, e definisce le regole dell’opera mentre la fa, concepisce eseguendo, e progetta nell’atto stesso che realizza». Pereyson non parla dell’improvvisazione ma dell’arte tout court, tanto che Alessandro Bertinetto giunge a teorizzare che ogni pratica artistica sia di fatto una forma di improvvisazione in quanto ogni nuova opera risponde al suo tempo in maniera non preventivata e di fatto risemantizza il repertorio che l’ha preceduta. Questo assunto è ancor più vero nelle arti performative dove, per quanto un’opera sia studiata e provata, nell’atto in cui si compie davanti a un pubblico può accadere sempre qualcosa di imprevisto che richieda al performer una certa dose di improvvisazione. Vi sono artisti che cercano questo stato di incertezza, che si preparano delle trappole per scongiurare l’abitudine alla ripetizione. Questo inventarsi le regole nel momento in cui si agisce comporta come conseguenza che ogni performer viva l’atto di improvvisazione in maniera completamente diversa, sostanzia il momento con uno stile e sapore unico, e questo personalissimo approccio conduce a una totale mancanza di regole cui aggrapparsi, e quelle poche norme che ciascuno a suo modo adotta, possono tranquillamente venire disattese durante l’esecuzione. L’improvvisazione è atto anarchico per eccellenza in cui, per dirla alla Thoreau, il governo che governa meglio è quello che governa meno. L’atto di improvvisare contiene in sé dunque delle istante politiche ed etiche precise. Ulteriore elemento da considerare è che nell’improvvisazione non conta tanto il risultato quanto la qualità del processo esecutivo. L’esser presenti all’istante, il saper vivere il carpe diem che sostanzia questo specifico atto creativo, è l’unica misura che certifica la peculiarità e il pregio di un processo artistico improvvisato. Il risultato inteso come opera coerente esteticamente valida, composizione chiusa nel senso di finita, può non sostanziarsi. L’incompletezza, il fallimento, la caduta persino lo schianto sono delle possibilità accettabili e possibili. Fanno parte della natura stessa dell’improvvisazione. Ci si gioca se stessi completamente, e si può perdere. Nel cadere però si acquista esperienza, un bagaglio da rimettere in gioco al tentativo successivo. Ulteriore elemento da considerare è la non ripetibilità dell’atto performativo improvvisato. Tutto si svolge nel qui e ora. Si tratta di una generazione spontanea che vive in un baleno e poi scompare senza lasciar traccia se non nell’animo di chi c’era. Documentarla è quasi impossibile. Il video e la testimonianza, scritta o orale che sia, sono parziali. Il primo manca del sapore dell’istante della presenza, la seconda è sempre personalissima, frutto di un punto di vista, di un orientamento e di una conoscenza acquisita nel tempo. Lo stesso performer non sempre sa esattamente cosa ha fatto, e manca spesso delle parole per descrivere quanto provato nel flusso creativo istantaneo. L’assenza di progetto, l’esercizio della metis nel tempo kairologico produce l’effetto di minare alla base uno degli elementi costitutivi dell’arte occidentale come viene considerata a partire dall’Umanesimo: la volontà dell’artista, l’io dell’artefice è ciò che crea l’opera. Nell’improvvisazione l’io cosciente così come l’esercizio della volontà deve essere in qualche modo sospeso, imbrigliato. La coscienza del performer è infatti sempre scissa, come divisa tra l’essere teso come filo sull’abisso del momento fuggente e occhio che guarda se stesso. Abbandono e volontà a braccetto, una volontà però scevra di progetto, che nega l’io e le sue voglie, che pronta si adatta alla circostanza e lieta si contraddice per provare strade diverse. Una lotta continua tra il noto e l’inatteso, tra ciò che si sa e ciò che si scopre, tra l’abitudine e la casualità. Non è dunque creazione ex nihilo, ma composizione che si sostanzia con elementi frutto di un bagaglio tecnico che si integrano con naturalezza con ciò che si forma hic et nunc. Infine il pubblico che non è solo un occhio che guarda passivo, ricettacolo di un messaggio preciso che va compreso, ma è elemento attivo di creazione. Il suo sguardo sostanzia l’opera che si viene a creare e l’azione del performer. La sua risposta, la sua interazione è non solo materiale per il processo creativo, ma è anche elemento costitutivo di un atto irripetibile. È dalla relazione che nasce una performance improvvisata. Lo sguardo propone percorsi inediti e imprevisti che il performer deve saper cogliere. Chi guarda propone opportunità, rende possibile l’evento e lo modifica con la sua presenza. In tutti questi casi è evidente un’etica e una politica dell’agire alquanto sovversiva. L’assenza di progetto o, per lo meno, la possibilità che esso venga completamente disatteso e modificato, l’acquisire abilità con la pratica e non attraverso norme codificate e stabilite, l’accettazione del possibile fallimento, non come disastro irreparabile, ma come esperienza formativa, la valorizzazione del processo più che del risultato compiuto, la sospensione dello strapotere dell’ego e la condivisione con una comunità che non solo è spettatrice ma co-creatrice dell’evento, avanzano istanze ed esigenze fuori dalla norma corrente del mercato artistico contemporaneo che necessita e reclama risultati certi, processi ripetibili e riproducibili, l’esclusione totale del fallimento di un investimento di tempo, denaro e forza lavoro. L’improvvisazione è un fastidioso guerrigliero annidato nella giungla dell’arte che pratica una rivoluzione non violenta, ma di certo pericolosa. Non è un caso che i nuovi media, così come le case discografiche e persino le strategie di promozione di opere di teatro e di danza, cerchino in ogni modo di disinnescare la carica rivoluzionaria della pratica improvvisativa. In che modo? Congelando la fluidità del momento in una ripresa da mettere su Youtube, una diretta su Facebook o Instagram, il bootleg di un concerto improvvisato. Questi sono solo alcuni esempi di strumenti tesi a riprodurre ciò che non si può ripetere e a vendere come finito ciò che di fatto non lo è. L’atto artistico condiviso con il pubblico nel momento in cui si attua fonda una comunità temporanea ed esclusiva. Solo chi ha partecipato e ha vissuto è, non solo testimone, ma anche possessore di un’esperienza che per ciascuno è diversa e variamente significativa. Non si sostanzia come merce che si compra e si scambia, ma come dono e offerta. Detto questo va ribadito che l’arte dell’improvvisazione non è qualcosa di caotico, frutto di un lasciarsi andare alla deriva, ma un gioco sottile, un affare che non ammette dilettantismi, in cui i pochi elementi scelti alla base vengono sottoposti a variazione, metamorfosi, proteiforme trasformazione, giocosa contraddizione, sublime arte combinatoria dove tutti i fattori o piccole norme di base si integrano e ricombinano con ciò che si trova per strada. È come un volo in cui si deve esser pronti a cogliere il vento e i suoi repentini cambi di direzione. Un sottrarsi per fare emergere, cavalcando l’onda accettando il rischio di venir sommersi. Non vi è dunque nessuna emersione dell’io e delle sue miserie, nessuna clinica, ma un togliersi di mezzo per essere tutt’uno con il tempo, lo spazio, l’oggetto, i compagni di viaggio. Non si pensa perché pensando non si fa. Si tratta piuttosto di un fare pensante. Una sorta di prassi filosofica improvvisa, non pianificata, aperta all’imprevisto dell’incontro. L’improvvisazione è quindi, per concludere, non una pratica minore rispetto alla grande arte pensata e progettata, ma un nucleo fondante e costitutivo della pratica artistica nel suo complesso. Essa è portatrice non solo di istanze etico-politiche, ma delinea una prassi aperta all’inclusione. Nella creazione improvvisata qualsiasi materiale è ugualmente nobile, qualsiasi stimolo è foriero di sviluppi, persino l’elemento più trascurabile e negletto può diventare pietra angolare di una costruzione. Inoltre in una società dominata dall’affermazione, e dall’ostentazione ossessiva dell’ego, l’arte dell’improvvisazione disegna una modalità più gentile e discreta, un togliersi di mezzo per far parlare le cose e il mondo che ci circonda. Una conversazione con l’esistente fatta principalmente di ascolto, di attesa, di rinuncia. Una sospensione della frenesia dell’agire al fine di cogliere l’attimo propizio per camminare con gli elementi invece di plasmarli secondo la propria volontà o capriccio. Per concludere questo articolo che non ha affatto la pretesa di essere esaustivo quanto piuttosto di delineare degli spunti di riflessione, vorrei riportare quanto diceva François Tanguy prima di ogni improvvisazione, parole che mi hanno accompagnato sempre nei miei pellegrinaggi teatrali. François consigliava di cercare uno stato performativo che permettesse di far passare l’aria tra le cose e le persone. Una sottrazione che conduceva all’emersione della vita segreta che scorre non vista sotto i nostri occhi, ma soprattutto una pratica che conduce attore e osservatore a scoprire le infinite possibilità del mondo che ci circonda al posto di continuare a concepirlo come un immenso supermercato in cui prendere solo ciò che ci aggrada rimanendo ancorati ai propri gusti e pregiudizi. Queste sue parole mi hanno fatto comprendere, un lontano pomeriggio di settembre al Lido di Venezia, sotto la tenda del Théâtre du Radeau, la possente libertà che si può cogliere in un’improvvisazione, libertà che nasce dalle costrizioni, dal rispetto degli oggetti e delle persone che agiscono con te, dai limiti di spazio e di tempo, limiti che improvvisi svaniscono e rendono tutto possibile, se crei quel vento misterioso che passa tra le cose.
Enrico Pastore
Laureato in lettere Magna cum laude con una tesi sul teatro di John Cage presso l’Università Cà Foscari di Venezia. Ha svolto periodi di formazioni in Italia e all’estero con registi come Pippo Delbono, François Tanguy (FR), Jakob Shokking (DK), Fernando Dacosta (SP). Regista e direttore della Compagnia D.A.F. fondata nel 1998 con la quale affronta un lungo percorso di ricerca nel teatro musicale d’avanguardia affrontando autori quali Stravinsky, Cage, Kagel, Ullmann e collaborando attivamente con giovani compositori come Giovanni Mancuso, Mauro Montalbetti, e con l’ensemble del Laboratorio Novamusica di Venezia. Ha curato regie per il Gran Teatro la Fenice di Venezia, il Teatro Fondamenta Nove il Teatro Groggia a Venezia e il Teatro della Caduta di Torino, Officine Caos. Ha collaborato con istituzioni quali La Biennale di Venezia, Le Settimane Musicali di Stresa, il Mart di Rovereto, lo Spirito del Lago, l’Università Ca’ Foscari di Venezia, gli Amici della Musica di Padova, il Teatro della Caduta di Torino. Dal 2006 al 2011 è stato direttore operativo degli Incontri Cinematografici di Stresa festival internazionale di arte cinematografica dedicato ai giovani autori e alle produzioni indipendenti, lavorando attivamente alla costituzione di una piattaforma per la coproduzione internazionale. Dal 2012 al 2018 ha scritto sulle pagine di Passparnous, web revue of art, come critico di spettacoli di teatro e danza, facendo reportage da festival come La Biennale di Venezia, Festival de la Batie (CH), Uovo Festival, Performa Festival (CH), Venice International Performance Art Week, Bologna Live Arts Week, Interplay, La Piattaforma, Santarcangelo dei teatri, Electro Camp Festival Venice, Terrassa Nuevas Tendencias (SP), Festival delle Colline Torinesi, Sound Disobedience Ljubljana (SL), Kilowatt, InEquilibrio, Trasparenze, Le Vie Festival, May Days, TACT. Nel 2017 è stato co-curatore insieme a Ambra Bergamasco e Edegar Sterke del MovingBodies Festival di Torino. Attualmente scrive su Rumor(s)cena.
Succede a volte che certe idee, apparentemente bizzarre, diventino all’improvviso talmente concrete da poterle quasi toccare con mano. Si insinuano nella testa e cominciano a crescere, crescere, crescere finché dal quel grande caos in cui tutto si mescola qualcosa di buono inizia a venir fuori. Così, ciò che era solo nei nostri pensieri poco alla volta prende forma e nel nostro caso conquista anche un nome: 93%: materiali per una politica non verbale. Che cos’è? Un blog prima di tutto. Una piattaforma nata da un’intuizione del coreografo e danzatore Roberto Castello, che nel suo articolo spiega in maniera più approfondita cosa vorrebbe essere novantatrepercento.it, ovvero uno spazio di riflessione dedicato alla comunicazione non verbale nell’interazione fra persone, un luogo in cui far convivere diverse discipline e in cui si possa anche pensare alla possibilità di utilizzare il corpo come strumento di cambiamento civile e sociale. Questo significa, per esempio, riflettere sul femminismo e in particolare sull’uso del corpo come strumento di lotta, oppure sul valore di certo gesti politici come quello del giovane che in piazza Tienanmen si fermò, in silenzio, davanti ai carri armati, o ancora sul perché la misura extralarge di una performer è già un corpo politico prima ancora di salire sul palcoscenico. E’ per questo che ogni numero, aggiornato mensilmente, sarà dedicato ad un tema specifico, mescolando ogni volta saperi e linguaggi differenti. Troverete così lo stile più accademico del professore universitario e la prosa più leggera di un regista, oppure l’intervento di un critico teatrale e quello di una giovane studentessa o di chi per anni ha militato in un partito ecc.. Stili e discipline diverse, eppure con uno stesso e unico interesse: valorizzare le potenzialità del linguaggio corporeo. In questa prima uscita, ovviamente, tentiamo soprattutto di spiegare che cos’è e di cosa si occuperà novantatrepercento.it. Ecco perché l’intervento di Roberto Castello racconta come nasce il progetto e quali sono gli obiettivi del blog, l’altra faccia del Dance Club di ALDES, che altro non è se non un invito a ballare e a fare festa. Ma prima ancora di nascere, la piattaforma si è nutrita di suggerimenti, consigli, stimoli che sono arrivati da tanti amici, registi, intellettuali. Tra di loro c’è anche Andrea Porcheddu, critico teatrale e studioso, che qui ci ricorda l’esperienza delle suffragettes inglesi e delle loro marce per la libertà. Non essendo questo un numero tematico, inoltre, abbiamo chiesto allo psicologo Marino Bonaiuto di inquadrare storicamente e scientificamente la comunicazione non verbale in tutti i suoi aspetti e applicazioni nelle varie discipline. Un’altra psicologa, invece, Fridanna Maricchiolo si sofferma sulla comunicazione non verbale nelle relazioni sociali, sottolineando, in particolare, come il nostro comportamento influenzi la persona che abbiamo di fronte. Angelo Bandinelli, infine, per anni nelle file dei Radicali, ci parla del corpo politicizzato partendo dal ricordo del Living Theatre, che poneva al centro dell’azione teatrale proprio il corpo, scoperto nella sua valenza sociale. Ci piacerebbe che con il tempo questa “piccola isola” si popolasse ogni mese di più. Ci piacerebbe che anche voi, lettori, partecipaste al nostro dibattito, con interventi, commenti, segnalazioni. Ci piacerebbe che novantatrepercento.it diventasse un luogo in cui tornare, da frequentare, da scoprire e infine da amare.
di Francesca De Sanctis
Francesca De Sanctis è giornalista professionista e critico teatrale. Ha lavorato all’Unità dal 2001 al 2017, prima come redattore poi come vicecaposervizio delle pagine di Cultura e Spettacoli. Da sempre ha una grande passione, il teatro, che ha iniziato ad amare nel periodo in cui frequentava il Dams a Bologna, dove si è laureata prima di specializzarsi presso la Scuola di Giornalismo. Negli anni precedenti a l’Unità ha collaborato con Il Messaggero, Il Mattino, La Gazzetta di Reggio Emilia e Il Resto del Carlino. Attualmente lavora in tv con Michele Santoro e scrive per il Venerdì di Repubblica, l’Espresso, il Manifesto. E’ ideatrice e direttrice artistica del Festival di Teatro civile CassinoOff e della rassegna A Roma! A Roma!.
2017, l’anno della women’s march, di nonunadimeno, di metoo. Un’ondata di donne che dicono basta alla violenza degli uomini. Femminismi in piazza ne abbiamo visti tanti, solo in Italia negli ultimi dieci anni ci sono stati tre grandi momenti. Nel 2007 più di centomila donne nelle strade per dire no alla violenza degli uomini e ai femminicidi. Nel 2010 Se non ora quando? raccoglie il disagio delle donne per un discorso pubblico apertamente misogino che trovava la sua massima espressione nell’allora presidente del consiglio Berlusconi. Nel 2016 le donne scendono di nuovo in strada sulla scia delle mobilitazioni in Polonia e in Argentina, usando gli stessi colori (il nero e il fucsia) e le stesse parole d’ordine #niunamenos; saranno più di quaranta i paesi in cui, contemporaneamente, le donne manifesteranno per dire no alla violenza degli uomini sulle donne. Con le sue parole d’ordine il 2017 sembra proprio l’espressione di un processo che, anche se in maniera intermittente, ha costruito un orizzonte di senso in cui si riconoscono sempre più donne.
Nel 1985 in pieno backslash usciva Il racconto dell’ancella scritto da Margaret Atwood, una distopia in cui il patriarcato si affermava prendendo il controllo totale sulla vita e i corpi delle donne. Nel 2017 Il racconto dell’ancella diventa serie TV di successo ed emblema della resistenza delle donne contro Trump e il conservatorismo americano. Sempre nel 2017 Naomi Alderman scrive con la mentorship di Atwood Ragazze elettriche, una nuova distopia in cui a prendere il potere sono le donne.
È un dato di fatto: il rapporto di forza tra i sessi è cambiato nel tempo e, nonostante contraccolpi e contraddizioni, non siamo mai state così consapevoli e così libere. Claudia Goldin, una delle economiste più note nell’ambito degli studi di genere, crede che la trasformazione nei rapporti di forza si riscontri nel cambiamento del ruolo economico delle donne americane a partire dalla fine degli anni Settanta, frutto di una lunga evoluzione silenziosa che ha attraversato tutto il Novecento (http://www.ingenere.it/articoli/rapporti-forza-sessi-rivoluzione-evoluzione). Ma come si passa dall’evoluzione a una vera rivoluzione nei rapporti di forza? Tre sono le parole per descrivere questo passaggio: orizzonte, identità e autodeterminazione.
L’orizzonte è la nostra capacità di proiettarci nel futuro e di fare delle scelte che ci consentano di realizzare un progetto di vita individuale e quindi di studiare immaginando quale ruolo avremo nella società. È un dato estremamente concreto. Lo dimostrano i numeri: la maggioranza degli iscritti all’università, la maggioranza dei laureati e i migliori voti si declinano al femminile. Un dato che vale per tutti i paesi dell’Ocse.
L’identità. Non più mamma di, moglie di. Le donne non vogliono definirsi attraverso la relazione con qualcun altro, ma, dopo averlo sognato ed essersi impegnate per acquisire le competenze necessarie quello spazio di espressione di sé lo vogliono anche realizzare. Non ci sono mai state così tante occupate come oggi, nel 2010 negli USA l’occupazione femminile, complice la crisi, ha superato quella maschile e oggi si attesta sul 48,2% della forza lavoro.
Fato e furia di Lauren Groff è un romanzo sul matrimonio in cui la prospettiva cambia radicalmente al cambiare il personaggio, ma è soprattutto una narrazione su quanto siano tossici i ruoli di genere e la rinuncia a sé che le donne fanno quando si definiscono attraverso un uomo “è un romanzo femminista, nel senso che riconosce le strutture di potere che trattengono le persone dal vivere pienamente la loro vita. Non è solo un sistema binario, non si parla di donne contro uomini, ma è un romanzo che va alla ricerca di tutte le persone che non possono parlare per se stesse, è un romanzo che parla di ognuno di noi” http://lithub.com/lauren-groff-on-power-privilege-and-feminism/
L’autodeterminazione è la capacità di una donna di fare le sue scelte per sé e non in funzione delle scelte di qualcun altro, come, per esempio, scegliere un part time per prendersi cura della casa e dei figli lasciando a lui la possibilità di fare carriera. Un dato che racconta questo cambiamento è quello sui matrimoni: negli USA le single hanno superato le sposate, non sono donne che non hanno relazioni d’amore, sono donne che decidono di preservare uno spazio di libertà.
All the single ladies di Rebecca Traister (Fandango 2016 – http://www.fandangoeditore.it/shop/marchi-editoriali/fandango-libri-2/all-the-single-ladies/) pubblicato nel 2016 nella sua versione originale ha come sottotitolo: “le donne non sposate e il sorgere di una nazione indipendente”. Parla di tutte le donne che rimangono fuori dal matrimonio, di quelle che hanno studiato, lavorano, sono indipendenti, sono consapevoli che il matrimonio non è una garanzia di stabilità emotiva (basta un’occhiatina ai dati su separazioni e divorzi) e che sono diventate una fetta demograficamente rilevante. L’autrice mette l’accento su come, sempre più spesso, le donne, anche quelle che poi decidono di sposarsi o di avere una relazione a lungo termine, non passano più dalla casa del padre a quella del marito, ma vivono un periodo in cui sono indipendenti e questo periodo segna il modo in cui percepiscono se stesse e le mediazioni che sono disposte a fare o a non fare.
Future sex di Emily Witt (Minimum Fax, 2017 – https://www.minimumfax.com/shop/product/future-sex-1977) è un’autoinchiesta, nel senso che l’autrice parte dal suo essere una donna a trent’anni, single, senza una relazione stabile e con la voglia di sperimentare la propria sessualità. La sua esperienza diventa un viaggio attraverso le infinite connessioni tra tecnologia, linguaggio, trasformazioni demografiche (meno gente che si sposa, gente che si sposa più tardi, un maggior rispetto per i diversi stili di vita).
E in Italia?
Se parliamo di orizzonte ci siamo: i dati sono in linea con gli altri paesi Ocse. Se parliamo di identità i dati sull’occupazione femminile italiana sono quelli degli USA nel 1986, anno in cui Atwood scrive Il racconto dell’Ancella. E se guardiamo all’autodeterminazione si allunga la strada verso le Ragazze elettriche. Il tasso di occupazione femminile è basso, una donna su quattro perde il lavoro quando fa un figlio, ma il presente è il miglior dato storico che conosciamo. Avanziamo continuamente, anche se a fatica, conquistiamo anno dopo anno, pancia a terra, uno spazio sempre più grande sul mercato del lavoro. Siamo sempre più consapevoli dei nostri desideri e progetti di vita: ma è nella dimensione delle relazioni affettive che si gioca la grande partita tra aspettative, desideri e ruoli. Le donne hanno un carico di lavoro domestico e di cura spropositato rispetto agli uomini, il matrimonio implica un 30% in più di possibilità di non lavorare, nel 39% delle coppie in età lavorativa lei non guadagna affatto e in un ulteriore 36% lei raggiunge al massimo i quattro quinti del guadagno di lui, spesso molto di meno.
Libere tutte di Cecilia D’Elia e Giorgia Serughetti (Minimum Fax, 2017) è un libro che si muove a partire da un presente in cui le conquiste femministe, la minaccia incombente a queste conquiste (si pensi all’aborto) e gli stili di vita, mai così liberi come oggi, configurano un tempo in cui le spinte, gli arresti e le contraddizioni delineano un panorama nuovo. Questo libro funziona da bussola, ricostruisce, smitizza, relativizza e traccia la strada attraverso la quale stabilire le coordinate di questo presente, un tempo che le autrici chiamano “non lineare” e che ci trova tese verso un desiderio di entrare nell’era dell’autodeterminazione a tutto tondo.
Barbara Leda Kenny
Barbara Leda Kenny dal 2006 lavora nell’area di pari opportunità della Fondazione G. Brodolini. I suoi filoni di intervento sono la violenza contro le donne, le donne nella scienza e la comunicazione di genere. Dal 2011 coordina inoltre le attività di comunicazione istituzionale della Fondazione. E’ socia fondatrice di Tuba, la libreria delle donne di Roma aperta nel 2007 che organizza il festival inQuiete, ideato da un gruppo di donne che condividono passioni e ideali, con un’esperienza di lungo corso nella produzione culturale: Viola Lo Moro, Francesca Mancini, Barbara Piccolo, Maddalena Vianello.
Il discorso è infinito. Sono trascorsi millenni eppure, pur se il mondo è un altro, stravolto nei secoli, immerso ora in una vorticosa modernità, l’atavismo del rapporto tra donna e uomo, basato sul patriarcato e la misoginia, ancora perdura. Ciò che rimane invariato, nonostante la più grande e perdurante rivoluzione del ventesimo secolo, il femminismo, è l’esercizio del potere maschile sulle donne. Un potere che si traduce in ogni forma di violenza, dalla più sottile alla più eclatante. Nell’assunzione che il corpo delle donne sia la merce di scambio, di sopraffazione e umiliazione, lì, su quel corpo si abbatte la scure della grettezza o della rabbia. I gradi di orrore partono dal basso e poi salgono, aumentando la posta. L’orrore comincia negli occhi degli uomini che vedono il corpo femminile come una preda, poi passa nelle parole e negli epiteti, giunge alle mani che palpano, al pene che obbliga, all’arma che uccide. E cambia anche la ragione per cui si agisce il potere: piacere malato, pretesa dovuta, ubbidienza imposta, coercizione appagata, possesso totale, vendetta cieca. Per esercitare il potere occorre sempre il disprezzo dell’altra persona, l’altro è il nemico da annichilire. Ma nel caso del potere sessista, applicato dagli uomini contro le donne, il veicolo è il dileggiamento del loro corpo, che passa di generazione in generazione, in padri e madri, scuola di ogni ordine e grado, commissariati vari e aule di tribunale. I luoghi dove invece dovrebbero essere curati e eliminati la mancanza di rispetto e l’oltraggio contro le donne, e la giustificazione di atti maschili belluini (così li definisce Ingeborg Bachmann). E a chi obbietta che ci sono donne che usano proprio il corpo come unico, a dir la verità, strumento di potere al contrario, cioè la concessione fisica come arma per ottenere ciò che vogliono, bene si può rispondere facilmente che quelle donne hanno accettato le regole di un gioco maschile che lo impone. Il patto è faustiano, insieme al corpo si vende l’anima al potere che lo compra. Le donne che accettano il do ut des sessuale perpetuano la cancellazione della propria dignità. Le donne che invece hanno il coraggio di rifiutare lo scambio pagano, sempre, hai voglia a dire denuncialo, quando spesso, nelle sedi preposte, subiscono altre umiliazioni, e quando non si hanno i soldi per pagare un avvocato. Gli aiuti concreti per le donne nelle forme di assistenza giuridica e protezione, e la punizione di atti maschili di prevaricazione e violenza sono indispensabili e urgenti. Ma non bastano. Perché la guerra non è eminentemente giuridica, non è un processo penale estenuante, e l’aula di tribunale il luogo della liberazione dal potere maschile ma può rappresentare soltanto una forma di risarcimento quando il danno è compiuto. La violenza, grande o piccola, dalle molestie all’omicidio è nella testa degli uomini. Nel loro modo di ragionare, sentire, agire sempre in nome della propria acquisita potenza alla quale sono piacevolmente abituati e che si è sedimentata in loro. Ogni atto femminile che la scardina e la scoperchia viene vissuta come una minaccia allo status quo, alla propria sicurezza di ruoli e generi. Quando accade, e il privilegio finisce, il piacere dominatore è sottratto, la reazione dei detentori maschili può essere letale. Eppure il corpo delle donne li ha fatti nascere, sembra che non se ne ricordino. Sembra che a un certo punto diventi cosa loro, ne diventino proprietari. Il femminismo ha dato alle donne consapevolezza di se stesse e del proprio corpo, ha dato diritti, ha dato spazio di azione. Adesso è giunta finalmente l’ora che siano gli uomini per primi a fare dei passi, che introiettino in fretta il concetto di uguaglianza nella differenza, proprio quello che fu l’esito di un filone di pensiero delle donne che aveva capito molto dell’essere umano. Sono loro che devono evolversi e avere nuovi occhi, nuove mani e un nuovo corpo. Sono loro che devono imparare dalle donne a costruire un altro mondo.
Valeria Viganò
Valeria Viganò, scrittrice, è nata a Milano ma vive a Roma da molti anni. Ha pubblicato, tra gli altri, Il tennis nel bosco (Theoria 1989), Prove di vite separate (Rizzoli 1992), L’ora preferita della sera (Feltrinelli 1995), Il piroscafo olandese (Feltrinelli 1999), Siamo state a Kirkjubaerklaustur (Neri Pozza 2004), La Scomparsa dell’Alfabeto (Nottetempo 2011). Ha scritto per molti anni su L’Unità, collabora con Il Sole 24 ore, scrive per il teatro e per la radio. E’ traduttrice. E’ chief editor de La Rivista Intelligente, web magazine. E’ docente di scrittura narrativa presso varie e prestigiose istituzioni culturali.
Difficile dire in questo nuovo assetto qual è il ruolo dei festival in Italia.
Se dovessimo leggere l’intero sistema teatrale come un sistema concentrico su modello atomico o comunque in termini di vasi comunicanti tale per cui ogni segmento del sistema partecipa in modo funzionale alla strutturazione del sistema stesso in termini evolutivi, allora mi verrebbe da dire che qualcosa da qualche parte non funziona. I vasi non comunicano bene. Se invece volessimo leggere l’intero sistema in termini autoconservativi allora direi che qualcosa in più torna al di là del rischio di estinzione di ogni singolo segmento a seconda naturalmente delle temperie a cui è sottoposto. Direi quindi che se il mondo dei festival è un segmento di un qualche sistema più che altro tenta di mantenere alcune caratteristiche che gli sono proprie in un panorama che però non lo considera più come bacino da cui attingere e dove eventualmente scoprire nuovi orizzonti possibili per la scena.
Non penso però che valga più la pena discutere se si stia peggiorando o meno. Adesso penso che sia il caso di affrontare l’inevitabilità del cambiamento e capire come possiamo ottenerne il meglio.
Di fatto i festival continuano a intervenire sull’immaginario cercando di proporre nuovi formati e nuovi modelli che scardinando le convenzioni entrano in contatto con nuovi pubblici. Sollecitano lo sguardo e l’atteggiamento dello spettatore cercando di dialogare con la contemporaneità e quindi con la complessità, spostando continuamente il punto di vista per restituire all’atto performativo il valore esperienziale. Costruiscono legami con altri territori seguendo il filo delle urgenze e inanellando parentele che deformano e rimodellano geografie.
Credo che ogni strategia adottata dai festival sia utile se volta alla ricerca di una necessità. Sentire la responsabilità di essere parte di un sistema e contribuire alla formazione di una comunità è, immagino, lo scopo principale di ogni festival; sia nel sostegno degli artisti che sentono questo come urgenza, sia nei confronti di chi individua nel teatro e nell’arte la possibilità di confrontarsi e di mettere in discussione le proprie posizioni.
Fabrizio Arcuri
Fondatore, direttore artistico e regista di tutte le produzioni di Accademia degli artefatti. Co-direttore artistico del Teatro della Tosse di Genova per il triennio 2011 – 2013 e consulente alla programmazione per il 2014/15. Dal 2009 al 2012 cura il festival internazionale PROSPETTIVA per lo Stabile di Torino per il quale riceve il Premio Ubu nel 2011. Dal 2009 è regista del Festival Internazionale delle Letterature di Massenzio. Dal 2006 idea ,fonda ed è direttore artistico del festival SHORTTHEATRE. Ha lavorato come regista assistente di Luca Ronconi dal 2005 al 2008. Premio della critica 2010 con SPARA/TROVA IL TESORO/RIPETI. Nel 2011, Premio Hystrio alla regia. Nel 2012 regista per il Teatro Stabile di Torino di FATZER FRAGMENT di Bertolt Brecht , in coproduzione con Volksbune di Berlino. Nel 2013 produce per il Reaidenz Theatre di Monaco di Baviera SANGUE SUL COLLO DEL GATTO di Rainer Werner Fassbinder. Dal 2014 al 2017 è stato regista residente del Teatro di Roma (Teatro Argentina e Teatro India) realizzando due edizioni di RITRATTO DI UNA CAPITALE (aa vv) SWEET HOME EUROPA di Davide Carnevali, CANDIDE di Mark Ravenhill e RITRATTO DI UNA NAZIONE (aa vv). Dal 2014 e tutt’ora e’ regista residente del Css Teatro Stabile del Friuli di Udine per il quale realizza tra le altre cose la maratona Materiali per una tragedia tedesca di Antonio Tarantino. Dal 2016 è direttore artistico e coordinatore della Festa di Roma, la ventiquattr’ore del capodanno di Roma.
«La complessità rallenta la comunicazione. L’iper-comunicazione anestetica riduce la complessità, per raggiungere una maggiore velocità. Essa è sostanzialmente più veloce della comunicazione sensata. Il senso è lento, è di ostacolo ai circuiti accelerati della informazione e della comunicazione. Cosi la trasparenza coincide con un vuoto di senso. La massa di informazioni e di comunicazione si origina da un horror vacui». Sono parole di Byung-Chul Han, scritte nel suo La società della trasparenza. Parole che fanno tremare i polsi, perché in quella (in questa!) società siamo immersi sino al collo. E siamo soggetti e oggetti di quella iper-comunicazione che ci anestetizza, che ci fa scintillare gli occhi nello scintillante schermo del nostro smartphone. Sempre connessi, sempre comunicanti. «La società della trasparenza – continua Han – non è soltanto priva di verità, ma è anche priva di apparenza. Né la verità né l’apparenza sono evidenti. Solo il vuoto è del tutto trasparente. Per bandire questo vuoto, viene messa in circolo una massa di informazioni. La massa di informazioni e di immagini è un accumulo nel quale si rende ancora possibile il vuoto. Un semplice aumento di informazioni e di comunicazione non rischiara il mondo. Neppure l’evidenza agisce rischiarando. La massa di informazioni non produce alcuna verità. L’iper-informazione e l’iper-comunicazione non gettano alcuna luce nella tenebra». Non pretendiamo, qui, di rischiarare quelle tenebre, ma forse non fa male interrogarsi su cosa possa voler dire “comunicare” al giorno d’oggi. Ci proviamo, affidando gran parte del nostro giornale a delle voci autorevoli, coscienti, critiche. Gasparotti, Zanardi, Cuomo: non necessitano presentazioni. Sono pensieri aguzzi, dettagliati che magistralmente si intrecciano, si rilanciano, si completano, in uno sguardo ampio, complesso, proprio sul concetto (e i modi) del Comunicare declinato in tre diverse prospettive. Strana parola, comunicazione: fino agli anni quaranta del Novecento era usata prevalentemente, se non esclusivamente, per le “vie”. Le famose vie di comunicazione: oggi sono autostrade telematiche, intasate sempre e sistematicamente controllate da quei Big Data che sorvegliano, registrano, catalogano, vendono. Ancora Byung-Chul Han: «Google e i social network, che si presentano come spazi di libertà, assumono forme panottiche. La sorveglianza, oggi, non si realizza, come si ritiene normalmente, nella forma di un attacco alla libertà. Piuttosto, ciascuno si consegna volontariamente allo sguardo panottico. Si collabora intenzionalmente al panottico digitale, svelando e esponendo se stessi. Il detenuto del panottico digitale è, al tempo stesso, carnefice e vittima. In ciò consiste la dialettica della libertà. La libertà si rivela controllo». Potrebbero sembrare toni eccessivamente apocalittici, quelli del filosofo coreano. Eppure l’affair di Cambridge Analytica ha mostrato quel che tutti, bene o male, già sapevamo: ha tolto la foglia di fico di un sistema che ci ha allegramente incatenato a colpi di like. E non sorprende che esista ancora un istituto “antiquato” come la censura. Atti di censura su Facebook o su altri social sono all’ordine del giorno: pure il termine “censura” che avremmo volentieri creduto sconfitto, come un bacillo di qualche secolo passato, rimbalza invece vivacemente qua e là. Ce lo racconta il critico e studioso Oliviero Ponte di Pino, che ha iniziato una serrata “contabilità” di censure applicate. Sosteneva George Steiner che l’intellettuale (o il critico) deve sempre vigilare contro ogni forma di censura. Una di quelle più diffuse, oggi, sembra esser l’autocensura, la censura preventiva: per quieto vivere, per opportunismo, per timor reverenziale, si tende a dire meno, a fare meno. O a dire e fare, ad esempio, quel che chiedono i “bandi”, regolatori ormai di qualsivoglia attività artistica e creativa. Bandi pubblici, bandi privati. Ma è la “trasparenza”, baby! Con buona pace, per l’appunto, degli strali di Han. Siamo immersi a tal punto, nella società della trasparenza, che il terrore, oggi, è di non esser connessi, di non comunicare, di non poter dire di sé al mondo. Quasi fosse una nuova scomunica, l’esser “bannati”. S/comunicare, dunque: ecco il dilemma. La scomunica, stando alla definizione Treccani, era ed è, la «forma più grave della censura ecclesiastica, poiché comporta l’esclusione dalla comunione ecclesiale acquisita mediante il battesimo. Non può essere inflitta a un corpo morale, ma solo a persone fisiche, ecclesiastiche o laiche; una stessa persona può esserne ripetutamente colpita per lo stesso delitto ripetuto o per delitti diversi. Cessa soltanto con l’assoluzione ricevuta dall’autorità competente». L’autorità competente, qua, è un algoritmo made in Usa, una community di sconosciuti, oppure altro? Se ne può uscire? Basta spegnere il cellulare, come sommessamente suggerisce Han? O si tratta di attivare altre pratiche di sovversione? Dario La Stella, nel suo articolato saggio, ne indica alcune, seguendo la suggestione delle pratiche di sovversione urbana. «L’uso dello spazio – scrive La Stella – rappresentato dal progetto (urbanistico) viene sovvertito dall’utilizzo reale delle persone che vivono quotidianamente quella porzione di città, quel quartiere. Il gioco è spesso una di queste pratiche, basti pensare agli skaters, al parkour o al “pallone” in aree non adibite. Anche la danza, al limite tra gioco ed esperienza estetica, è una pratica sovversiva». Certo il corpo è là, nella sua evidenza. Ribelle e sovversivo. È la comunicazione non verbale che fa da motore a questo sito, è il “Corpo-teatro” evocato da Jean-Luc Nancy in un bellissimo libro, piccolo quanto profondo: «Essere nel mondo non è uno spettacolo. Tutt’altro. È essere dentro, non di fronte». Parla di “mischia col mondo”, il filosofo francese, di scontro, di attrazioni e repulsioni, traversate e spinte, prese e abbandoni, impossessamenti e spossessamenti. Sembra quasi che stia descrivendo una coreografia, che stia recensendo uno spettacolo di danza. Essere al mondo, dunque, è danzare nel mondo? Non so: per quel che mi riguarda, pigro e goffo come sono, sarebbe difficile. Eppure a guardarli, quei corpi danzanti, raccontano, ancora e sempre, quella mischia. Anche per questo abbiamo provato, con tre giovani studiose, nuove collaboratrici di questo sito, a interrogarci su che corpi vediamo quando vediamo la danza: cosa vediamo quando guardiamo la danza e cosa succede quando guardiamo la danza attraverso gli occhi di una telecamera? E quindi, cos’è la “videodanza”? Come appare il corpo se filtrato dal video? Tra essere e apparire, cosa inquadra l’occhio della telecamera? Che “tagli” trasmette? Opera delle censure? Sembrano domande oziose eppure intercettano il tema iniziale, la questione dalla quale siamo partiti sul senso e le caratteristiche della comunicazione. Ne è passato di tempo da quando la “musa” di Havelock ha imparato a scrivere. Nella stagione della ipercomunicazione, però, quella oralità sembra ritrovarsi, paradossalmente, nel vecchio teatro, in quegli edifici dove corpi (e parole) incontrano altri corpi (e altre parole). «La teatralità – così Jean-Luc Nancy conclude meravigliosamente il suo saggio – non è né religiosa né artistica – anche se la religione e l’arte derivano da essa. È la condizione del corpo che è esso stesso la condizione del mondo: lo spazio della comparizione dei corpi, della loro attrazione e repulsione (…) non appena c’è un mondo, ci sono corpi che s’incontrano, si distanziano, si attirano, si respingono, si mostrano gli uni agli altri mostrando contemporaneamente dietro di loro, intorno a loro, la notte incorporea della loro provenienza».
Ps.Arriviamo ad occuparci, con piacere, di questo sito creato da ALDES, dopo il lavoro fatto la passata stagione dall’amica e collega Francesca De Sanctis. Ringrazio dunque Francesca, Roberto Castello, Alessandra Moretti e tutto ALDES per avermi coinvolto e per il percorso così ben avviato. Spero di portare con me una buona dose di curiosità, contando di coinvolgere in 93% un buon numero di “firme”, giovani e meno giovani, i cui contributi – certo più del mio – sono sicuro daranno ulteriore forza al nostro giornale.
Per la nostra cultura comunicare è una sorta di parola/feticcio. Le facoltà universitarie di Scienze della comunicazione sono affollate da moltitudini di studenti, i quali si aspettano chissà quale futuro. Ma che cosa intende la nostra cultura corrente per comunicare? Se consultiamo un testo di scienza della comunicazione, la risposta è questa: comunicare=scambiare/trasmettere un certo segnale o messaggio da un emittente ad un ricevente, attraverso un certo canale. La comunicazione, dunque, funziona come una macchina che trasmette segnali da un punto all’altro dello spazio. Una sorta di nastro trasportatore – o di pipeline (come sosteneva M. McLuhan) – di oggetti significativi, cioè di messaggi. Il modello-base di ogni canale comunicativo, per la nostra cultura, è quello linguistico. Anche quando le teorie standard della comunicazione si riferiscono alla cosiddetta “comunicazione non verbale”, tendono a interpretarla e comprenderla secondo il modello e gli schemi di quella verbale. Come se ogni forma di comunicazione funzionasse quale semplice variante della comunicazione verbale, a conferma di ciò che certa filosofia novecentesca e postnovecentesca ha definito logocentrismo. In ogni caso, i meccanismi strumentali della comunicazione movimentano e spostano i loro oggetti significativi tra soggetti che sono e devono restare ben separati. Come quando si vuole far passare una pallina da una mano all’altra: le due mani non potrebbero mai aderire, toccandosi e nemmeno avvicinarsi troppo, perché ciò renderebbe impossibile il passaggio di qualsiasi oggetto da una parte all’altra… Ecco il primo dei paradossi che caratterizzano l’odierna cultura dominante della comunicazione. Essa è una macchina che funziona solo se i comunicanti sono separati e lontani l’uno dall’altro. Qualsiasi contatto diretto, qualsiasi toccarsi, la farebbe inceppare e grippare. La sua è, letteralmente, telecomunicazione: trasmissione di segnali a distanza, mantenendo e riproducendo l’insuperabile separazione tra i comunicanti. Dovendo ottimizzare lo scambio delle informazioni, questa macchina deve ridurre al minimo il livello di confusione e di aleatorietà (in termini tecnici di “entropia informazionale”) dei suoi messaggi, i quali devono consistere in oggetti determinatamente ricchi di significato, stabili e certi, il cui modello segnico di riferimento non può essere la parola orale nel suo carattere volatile, effimero, sfuggente e per nulla “ridondante” – Verba volant sed scripta manent, dicevano i Latini – bensì la parola scritta. Solo la parola scritta, nella sua tendenziale permanenza e incancellabilità, fa sì che gli oggetti da essa indicati siano scambiabili nella loro radicata, inequivocabile e ridondante identità costituita. A ben vedere, il segno linguistico comunicativamente funziona come un perfetto equivalente del denaro, avendo la moneta la stessa duplicità – corpo materiale/valore attribuito – del segno linguistico in quanto significante+significato. Economicamente è il valore astratto attribuito alla moneta ciò che consente la scambiabilità, a livello universale, di qualsiasi merce, così come è l’elemento altrettanto astratto del significato, che consente la scambiabilità dei messaggi comunicativi grazie ai segni linguistici. Le parole, infatti, non funzionano da segni in quanto puri significanti, ossia a partire dal corpo fisico-sensibile che esse prima di tutto sono. Bensì solo in virtù di quei valori ideali, sovrasensibili e astratti, che, in ogni sistema linguistico-alfabetico, devono essere associati ai significanti, affinché le parole possano indicare qualcos’altro: appunto degli oggetti. Ma che cosa sono i significati? Non fenomeni sensibili, come i significanti, bensì concetti, idee o nozioni universali, che si riferiscono indirettamente a un certo fenomeno sensibile, restando su tutt’altro piano. Per comunicare efficacemente, mantenendo in piena efficienza la macchina della telecomunicazione, è necessario, dunque, oltrepassare e trascendere ogni corpo sensibile, che, in quanto tale, deve fungere solo da mero supporto strumentale della comunicazione stessa. E siamo così arrivati al secondo paradosso dell’odierno pensiero unico della comunicazione. Essa è una macchina ipermetafisica, o meglio metafisico-teologica, la quale, per alimentarsi, ha bisogno di trascendenza. Può funzionare solo mettendo a regime il meccanismo del transfert verso una dimensione astrattamente sovrasensibile e, appunto, meta-fisica, tutta incentrata sul potere del significato. Come se la macchina delle telecomunicazioni non funzionasse senza Dio, senza un Dio trascendente, il quale ha il volto, nel contempo, del dio denaro e del Sommo Ente delle teologie monoteistiche, che già Nietzsche indicò come simbolo di ogni cattiva metafisica. La domanda che, a questo punto, non può essere elusa è la seguente: è proprio questo ciò che accade e si fa ogniqualvolta comunichiamo? Oppure la macchinazione che abbiamo descritto (attraverso i testi di scienza delle comunicazioni) rappresenta il più potente ostacolo nei confronti di ogni profondo e autentico comunicare?
Mettersi in comune al di fuori di ogni logica identitaria
All’inizio del ‘900, Walter Benjamin aveva evidenziato come la comunicazione incentrata sul “linguaggio nominale degli uomini” fosse un dispositivo tipicamente capitalistico-borghese rispondente ad un certo modo di concepire ed enfatizzare l’essenziale linguisticità dell’animale umano. Separandola e isolandola dal contesto vitale della comunicazione universale, che, invece, si affida alla anominale “lingua delle cose mute”: quella della volpe, della montagna e della lampada (per indicare la totalità delle forme di vita extra-umana). Originariamente, secondo Benjamin, il comunicare è sempre un comunicarsi dal carattere effusivo: un offrire se stessi e un mettersi in comune, al di là di ogni separante lontananza e senza bisogno di scambiare alcuna merce. La lampada sicomunica irradiando la sua luce e compenetrandola con tutto ciò che essa illumina. L’acqua del mare si comunica nei ritmi del suo espandersi allagando e ritrarsi, lasciando asciugare. I mammiferi si comunicano odorandosi, toccandosi, leccandosi e intridendo dei loro umori l’ambiente circostante…Il problema non è, però, quello di regredire brutalmente verso forme di ingenuo animalismo. Bensì, semmai, quello di riscoprire e risvegliare l’originaria potenza comunicativa (nel senso della potenza del comunicarsi) insita anche in ciò che distingue l’uomo rispetto a qualsiasi altro essere vivente. Prendiamo, ad esempio, gli elementi primi della nostra attività di pensiero: le idee e i concetti. Solo una loro astratta quanto unilaterale interpretazione metafisica li rende solo i mattoni di una costruzione architettonica artificiosa e trascendente. Gli stessi raffinatissimi pensatori medievali erano soliti distinguere, a proposito delle idee, il loro potere di riferimento oggettivo (ovvero il fatto che ogni idea rinvii alla cosa di cui essa è appunto idea) dalla loro valenza intrinsecamente formale, data dal fatto che ogni idea, in sé, è essa stessa, innanzitutto, qualcosa, ossia una cosa che viene ad esistere. Un’idea è sì la rappresentazione mentale di qualcos’altro, ma, insieme e in primo luogo, è una res. È una cosa che accade e si mostra, nel suo orizzonte, in relazione a tutte le altre cose del mondo. E quindi esercita sino in fondo la sua influenza, che la rende capace di suscitare affezioni e affetti semplicemente per contatto, come aveva pensato, nel ‘600, il “maledetto” filosofo Spinoza. Sotto questo punto di vista, le idee e i concetti non si sottraggono in alcun modo alle dinamiche degli incontri, che coinvolgono la totalità degli esistenti. Un’idea, nel momento in cui si affaccia alla mente, proveniente da chissà dove, può cambiare completamente lo stato dei miei affetti, ovvero del mio umore, rendendolo più triste o più gioioso. E non da sola, mai da sola, bensì in relazione a tutti gli altri esistenti con i quali interagisce in un certo ambiente. E ogni esistente, come sosteneva lo stoicismo antico, è corpo vitale che, nell’incontro con altri corpi, provoca, per contatto, azioni e reazioni reciproche, le quali modificano incessantemente lo stato e le condizioni dei corpi che si incontrano, come sarà confermato, a livello scientifico, nel ‘900, dal principio di indeterminazione di Heisenberg. Lo stesso vale per i segni linguistici, cioè per le parole-che-significano. Non si tratta di una questione quantitativa di percentuali di significato, che passano e vengono recepite in un certo atto comunicativo interpersonale. È la parola significativa, anche al massimo della sua significatività – e non malgrado essa – che sviluppa un’azione espansivamente influente, la quale trasforma tutto ciò che tocca e quindi il mondo in toto, in maniera tale che nulla potrà essere più com’era prima, com’era prima del risuonare di quella parola o di quella frase. Le ricerche di John Austin, pubblicate nel libro Come fare cose con le parole, hanno posto in evidenza come qualsiasi enunciato linguistico – compresi quelli dal carattere più constativo (ossia tale da rispecchiare un determinato stato di cose pre-esistente) – nell’atto in cui viene pronunciato assume, prima di tutto, una valenza performativa, ovvero fa essere qualcosa che prima non c’era e, quindi, fa mondo, trasformando la totalità delle relazioni in cui il mondo di volta in volta consiste. E allora, come l’ostacolo per la comunicazione non sta nelle idee in quanto tali, così non sta nemmeno nel significato che viene attribuito alle parole delle nostre lingue. Perché idee e parole, quali accadimenti e manifestazioni della vita vivente, nel loro uscire dal nascondimento, cioè nel loro accadere, possono toccare, accarezzare, urtare, colpire, incidere, intridere, lacerare, massaggiare, secondo differenti gradi di intensità. Il problema semmai sta nel fatto che le teorie standard della telecomunicazione funzionano solo a partire dalla chirurgica rimozione della fondamentale valenza toccante delle idee e delle parole, affinché esse siano solo ed esclusivamente puri segni-di (ovvero segni che rinviano a qualcos’altro, indicando altro) trasmissibili meccanicamente da un punto all’altro di uno spazio astratto.
In principio era la conversazione
Con questa decisiva rimozione, da parte dell’ingegneria delle telecomunicazioni, viene ad essere bonificata e sterilizzata anche la valenza prettamente conversazionale del parlare, a favore di un dire strumentale esclusivamente vocato a produrre certi determinati scopi, in maniera da essere valutato e giudicato sulla base del raggiungimento degli stessi. In una conversazione del tutto disinteressata, invece, le parole – che significano quello che significano, non è questo il problema – agiscono in primo luogo per tenere avvinti magneticamente gli uni agli altri i conversanti e, nel contempo, alimentare l’imprevedibile fuoco della conversazione stessa, in modo che si spenga il più tardi possibile. Al di là di qualsiasi altro scopo e di qualsiasi strumentale funzionalità. Ogni autentica conversazione, inoltre, non isola i conversanti in alcun sottomondo chiuso e privato, proprio perché lascia dispiegare appieno l’influente potere toccante e coinvolgente, cioè comunicativo, delle parole e delle idee portate dalle parole. L’esperienza del toccare, infatti, oltre che annullare ogni separante lontananza, disintegra e dissolve qualsiasi concezione identitaria della soggettività e insieme svuota ogni oggettività costituita. Perché ogni toccare è, sempre insieme e simultaneamente, anche un essere toccati, in cui resta aperta e si rinnova continuamente la soglia che ci espone all’indeterminabile Fuori. Nell’esperienza assoluta del toccarsi non c’è alcun interno separato o separabile dall’esterno e nemmeno alcun fuori opposto al dentro. Perché, in tale condizione integralmente porosa, il fuori permea l’esterno di ogni limite, per entrare, fuoriuscire e rientrare di nuovo, in un continuum circolare, attraverso infinite possibili soglie. Secondo pulsazioni ritmiche e non meccanismi. Senza scambio di oggetti. E senza soggetti. Bensì nell’imprevedibile avvicendarsi di incontri, che fanno mondo, trasformandolo secondo metamorfosi possibili. Il pensiero più profondamente comunicante abita questa dimensione. Non per niente già Platone distingueva il filosofo da qualsiasi “mercenario” sofista, nella misura in cui il parlare del filosofo è un’azione, che ha cura di non rimuovere la dimensione toccante e conversazionale delle idee e delle parole. Il filosofo – è scritto nella Lettera VII – si serve sino in fondo delle parole e di tutti i principali elementi del conoscere, non accontentandosi, però, dei loro meri significati e valori informativi e conoscitivi, ma continuando a batterne, sfregarne, pestarne il corpo reattivo, “come in un mortaio”. Con pazienza, serenità d’animo e agio e senza aspettarsi nulla, ma pronto a cogliere l’eventuale sprigionarsi degli effetti pratici di tale attività. E, nel dialogo Teeteto, ancora Platone scrive che mentre i sofisti e tutti i professionisti della parola sono costretti a economizzare i loro discorsi, i quali sono solo mezzi che devono necessariamente produrre e ottenere un certo scopo, il discorrere dei filosofi, invece, si sviluppa e si intreccia, al di là di ogni vincolo e costrizione esteriori, in modo erratico, andando incontro a digressioni, pause, intensificazioni, improvvise svolte, cadute e subitanei voli. Perché, per tali individui demoniaci, comunicare è agire in comune, assaporando e godendo serenamente e disinteressatamente gli effetti e gli affetti di tali azioni. Per questo, conclude Platone, mentre i professionisti della comunicazione appaiono persone sicure e risolute, che danno sempre l’impressione di sapere bene dove devono andare, i filosofi, invece, appaiono incerti, svagati, dall’incedere addirittura incespicante e facile alla caduta. In poche parole: pronti a danzare. È da qui che la nostra eventuale conversazione, appena avviata, forse potrebbe continuare…
Bibliografia minima
Platone, Lettera VII Platone, Teeteto Aristotele, De Interpretatione Stoici antichi. Tutti i frammenti, secondo la raccolta di H. von Arnim, a cura di R. Radice, Bompiani, Milano 2002 Spinoza, Etica, in OPERE, edizione italiana a cura di F.Mignini, Mondadori, Milano 2007, pp. 785-1086 Marx, Manoscritti economico-filosofici del ’44, tr. it. a cura di N.Bobbio, Einaudi, Torino 2004 F. de Saussure, Corso di linguistica generale, tr. it. a cura di T. De Mauro, Laterza, Roma-Bari 2009 C.E. Shannon-W.Weaver, The Mathematical Theory of Communication, University of Illinois Press, Urbana 1964 R.Jakobson, Saggi di linguistica generale, Feltrinelli, Milano 1963 H.Bergson, Sul segno. Lezioni del 1902-1903 sulla storia dell’idea di tempo, tr. it. a cura di R. Ronchi e F. Leoni, Textus, L’Aquila 2011 W.Benjamin, Sulla lingua in generale e sulla lingua degli uomini, in Angelus Novus. Saggi e frammenti, tr. it. a cura di R. Solmi, Einaudi, Torino 1962, pp. 51-67 Q.Fiore-M.McLuhan, Il medium è il massaggio, tr. it. Corraini, Mantova 2011 G.Deleuze, Cosa può fare un corpo? Lezioni su Spinoza, tr. it. Ombre Corte, Verona 2007 L.Althusser, Sul materialismo aleatorio, tr. it. Unicopli, Milano 2004 J.Austin, Come fare cose con le parole, tr. it. a cura di C.Perca e M. Sbisà, Marietti, Genova 1987 H.P. Grice, Logica e conversazione. Saggi su intenzione, significato e comunicazione, tr. it. il Mulino, Bologna 1993 L. Nanni, Il silenzio di Ermes, Meltemi, Roma 2002 R. Ronchi, Teoria critica della comunicazione, Bruno Mondadori. Milano 2003 R. Gasparotti, L’opera oltre l’oggetto, Moretti&Vitali, Bergamo 2015 F. Ermini, R. Gasparotti, J. L. Nancy, N. Sala Grau, M. Zanardi, Sulla danza, Cronopio, Napoli 2017
Romano Gasparotti
Romano Gasparotti ha sviluppato la sua ricerca filosofica ormai più che trentennale sul terreno dell’indagine sulle forme del fare e sull’esperienza estetica. Ha fondato il movimento artistico transdisciplinare Diastema. Per un’arte festiva. È consulente della Fondazione Morra/Museo Hermann Nitsch di Napoli. Ha fatto parte del gruppo fondatore della rivista di filosofia “Paradosso” e della rivista di architettura e arte “Anfione e Zeto” con la quale continua a collaborare. È redattore del Giornale Critico di Storia delle Idee, collaboratore della rivista di ricerca letteraria Anterem e membro del Comitato scientifico di ICONE – Centro Europeo di Ricerca di Storia e Teoria dell’Immagine sorto presso l’Università S. Raffaele di Milano. Ha curato e continua a curare con Massimo Donà l’opera postuma e inedita del filosofo italiano Andrea Emo. È stato docente di Filosofia Teoretica e Ontologia dell’Arte presso l’Università S. Raffaele di Milano e insegna Fenomenologia dell’Immagine e Critica della comunicazione presso l’Accademia di Belle Arti di Brera di Milano. Collabora con artisti visivi, musicisti e coreografi sia in qualità di critico e curatore, sia in qualità di performer. Tra le sue principali pubblicazioni: Le forme del fare (con M. Cacciari e M. Donà), Liguori, Napoli 1987; Movimento e sostanza, Guerini, Milano 1995; Socrates y Platon, Akal, Madrid 1996; I miti della globalizzazione, Dedalo, Bari 2003; Figurazioni del possibile. Sul contemporaneo tra arte e filosofia, Cronopio, Napoli 2007; Filosofia dell’eros. L’uomo, l’animale erotico, Bollati Boringhieri, Torino 2007; L’inganno di Proteo. La filosofia come arte delle Muse, Moretti&Vitali, Bergamo 2010; Il quadro invisibile, Cronopio, Napoli 2015; L’opera oltre l’oggetto. Sull’esperienza simbolica dell’evento artistico, Moretti&Vitali, Bergamo 2015; Shozo Shimamoto e l’esperienza artistica quale esperienza poetica del pensare, edizione italo-anglo-giapponese, Edizioni Morra, Napoli 2017; Sulla danza (con J.L.Nancy, F.Ermini, N.Sala Grau, M.Zanardi), Cronopio, Napoli 2017. Ha altresì curato il volume In contrattempo. La pittura malgrado tutto, Mimesis, Milano 2007. È stato autore, regista e coprotagonista degli eventi teatrali Imeros e Di un pensare all’opera (realizzato su musiche di Andrea Rossi Andrea e coreografie di Valentina Moar).
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