Quale rivoluzione

di Luisa Merloni

Carne Trita di Roberto Castello. Foto di Lorenzo Simonini (2011)
Elisa Capecchi, Giselda Ranieri, Irene Russolillo in ‘Carne Trita’ di Roberto Castello. Foto di Lorenzo Simonini (2011)

Le parole che leggete sono la dimostrazione che bisogna pensarci sempre dieci volte prima di prendere parola in un dibattito social. Tutto nasce da un post apparso sulla pagina «Generazione Magazine» che poneva, dopo avere assistito allo spettacolo Fotofinish di Antonio Rezza, il problema del consenso. Il pubblico, a un certo punto dello spettacolo, viene coinvolto sulla scena, ucciso (per finta, non pensate male) e poi come finto cadavere a terra toccato in varie parti. Il post, scritto da Valentina Sbrescia, poneva, senza toni particolarmente forcaioli, il tema del consenso in una situazione come questa, dove, mettiamo caso, io spettatorә sono ignarә di quello che sta per succedere, e potrei avere dei problemi di soggezione a ribellarmi e interrompere uno spettacolo anche se, per ipotesi, quello che accade al mio corpo in scena mi stia provocando un forte disagio. Alla fine del post Sbrescia si domanda e domanda anche a Rezza se si sia posto il problema, dal momento che è uno spettacolo creato anni fa, e se quella parte di spettacolo sia ancora oggi assolutamente necessaria. Io non so se Antonio Rezza abbia mai risposto. Quello che ho visto è stato lo scatenarsi di una difesa ferma e compatta dell’artista, a partire dal post di Graziano Graziani Se non si ride non è la mia rivoluzione dove si pone il problema della differenza tra atti che avvengono nel solco del simbolico e percezione di sconfinamento che attiene al reale. Anche se il solco del simbolico, per me, finisce dove inizia il perimetro del mio corpo. Ma in verità, in questo breve scritto, vorrei soffermarmi su quel si ride, una forma impersonale, ma chi è incluso in quel “si”? All’intervento di Graziani sono seguiti molti commenti di colleghә, sicuramente anche condizionatә dal mezzo social che predispone a una polarizzazione piuttosto violenta. Il tutto è convogliato sulla pagina di «Teatro e Critica», per farne un dibattito più esteso e consapevole. È seguito anche un intervento di Cinzia Spanò che del tema del consenso si occupa quotidianamente nel suo lavoro, importantissimo, con Amleta, e ne conosce molto più di me tutte le implicazioni. Quello che mi ha lasciata però sconcertata è la forza della reazione. La compattezza. Da cui traspare un evidentissimo fastidio. Ma cosa è esattamente a dare così fastidio? La difesa di Rezza, che non è tanto di lui, che mi pare si sappia difendere benissimo da solo, quanto di un principio: la libertà di espressione e di creazione artistica. A me pare che ci sia spesso appena escono fuori temi in qualche modo legati al metoo una reattività forte, automatica e istantanea. La paura di un clima terroristico e di censura che limiti la nostra libertà e anche la qualità del nostro lavoro artistico. Nelle sue espressioni più anarchiche, provocatorie e ingovernabili, come quella di Rezza. Io credo che questo rischio, nella realtà dei fatti, non esista. Il tema del consenso è un tema delicato perché pone delle questioni che non sono solo finemente intellettuali, ma hanno a che vedere con i processi penali. E chi vuole vedere l’artista sotto processo? E quante altre domande retoriche mi troverò a scrivere in questo pezzo? Quando l’unica domanda che mi è sorta spontanea leggendo i vari commenti è: ma voi davvero fate? Quando sono basita mi esce il retaggio napoletano. La questione che pone Valentina Sbrescia è più che legittima. Ed è una mozione, una critica, una domanda. Una cosa molto diversa dalla censura, e anche dalla denuncia. La censura è uno strumento del potere, non può venire da chi il potere non ce l’ha. In tutta la mia vita l’unica vera censura a cui ho assistito è quella che sta avvenendo ora sotto i nostri occhi e riguarda la questione palestinese. La censura passa per organi istituzionali, mezzi di informazione. Non certo per un magazine social che ha come mission renderci più sensibilә, e soprattutto alfabetizzatә su questioni di genere, di sessismo e di inclusività. Ripeto: ma voi davvero fate? In Italia siamo molto indietro su questo, talmente tanto che a volte, vi confesso, a causa dello sconforto, mi ritrovo a fare dei sogni giustizialisti, un bel fenomeno come Mani Pulite, mi dico, che ora cosa sarebbe, non so, Mani In Tasca Invece che Sul Culo Mio. Un sogno. Come vedete la verve comica non la ferma nessuno. Ma come abbiamo potuto constatare nel lontano 1992 queste fasi non risolvono il problema. Ora vorrei spostare la questione dal lato dell’artista, o se preferite dell’Artista maiuscolo. Che è poi l’unica ragione per cui sono intervenuta, mettendomi chiaramente nei guai. Da qualche anno pratico la comicità, come attrice che scrive. Mi sono posta proprio un obiettivo, fare comicità a partire da un punto di vista femminista. Sì, la femminista, lo spauracchio di ogni divertimento, la guastafeste patentata. Questa mission impossible che mi sono data, oltre a rendere la mia vita ancora, se possibile, più drammatica, richiede molta attenzione. Ma più di tutto, ascolto. Perché, mi chiedo, alla mozione di Sbrescia non si può semplicemente rispondere: cara Valentina (per nome, così ci teniamo un briciolo di paternalismo) grazie della tua riflessione, ci penserò? Quello che accade se si accoglie anche solo un secondo la questione sollevata, è che inevitabilmente qualcosa cambia. Se io inizio a pormi il problema – quello che faccio colpisce le coscienze, magari provoca un sano disagio collettivo, oppure metto in difficoltà un singolo, trovandomi, non volendo, ad esercitare un potere che si rivela poi violento? – qualcosa nel mio modo d’agire cambierà in ogni caso, anche se decido di tenere la stessa idea, la stessa azione scenica. E di certo la comicità non ne soffre. Anche perché spesso quello che vuole colpire è proprio il potere. Anche quando appare come retorica buonista, certo. Ma tra essere buonista e confrontarsi con le percezioni del mondo in divenire sta una parte centrale del lavoro che abbiamo scelto. E perché mai io, che faccio arte, e sto nel mondo come tuttә lә altrә mi dovrei sottrarre a questo confronto? E ancora domande retoriche. Mi è successo, anche se non pubblicamente, di ricevere delle mozioni su qualcosa che avevo scritto, spesso affettuose e comprensive, perché io me le scelgo bene le amicizie. E mi sono trovata anche io, la femminista suddetta, a pensare che palle, uffa, ma così dove si va a finire, non si può più dire niente, ma questa battuta è così divertente, sottile, dai non è possibile che venga mal intesa. Poi mi sono ricordata che io non sono di destra, e mi sono fermata un attimo, e ho capito che quella reazione, comprensibile anche, era la difesa di un privilegio. Anche io, fino a poco tempo fa non mi ero mai soffermata a pensare in che punto mi trovassi della complessa scala dei privilegi, e dunque a non sapere che quello che per me è fonte di grande divertimento può mettere in serio disagio qualcun altrә. È una consapevolezza che si acquisisce, basta desiderarlo. Per esempio nei mei più recenti lavori mi è successo di riflettere sul privilegio abilista. Insomma, ce l’ho con lә disabilә. In un pezzo comico, dove parlavo dello stereotipo della vecchia zitella, ho fatto riferimento alla signorina Rottermeier, cercando di riabilitare la sua immagine, avevo scritto “è una donna elegante, colta, che organizza tutta la vita di una enorme casa e quella di una paraplegica.” Questa parola, a fine frase, perché anche il luogo conta, a fine frase c’è un effetto battuta, mi suonava male. Perché? La comicità gioca sugli stereotipi, che sono sintesi, semplificazioni, molto agili e utili al gioco, ma nel giocare con gli stereotipi si può spingere verso il loro superamento oppure riconfermare l’esistente. La vecchia zitella è un grande stereotipo, mentre essere paraplegici è una condizione. Se li metto così nella frase dall’alto del mio privilegio abilista faccio una operazione di senso, sotto sotto, che alla fine risulta conservatrice, che conserva cioè una visione del mondo che separa, mette di qua, più in alto, l’abilә, e di là, più in basso, lә disabilә. Questa riflessione mi ha fatto cambiare e inserire una battuta su questo, “questa bambina, in quel capolavoro di abilismo che è Heidi, non fa altro che sgambettare (gesto) davanti a Clara, dai, forza Clara, andiamo, corri!”. Ora, spiegato così può sembrare un processo farraginoso, ma insomma, nelle menti di noi comichә genialә, tutto avviene molto velocemente. A volte nelle accese discussioni non ragionate che avvengono sui social mi è capitato di leggere tra le righe un rimpianto per i bei tempi andati dove non ci si soffermava su tali questioni, e c’era più leggerezza, più intelligenza, più libertà creativa, a nessunә sarebbe venuto in mente quello che è saltato agli occhi di Sbrescia. È vero, ma quella leggerezza era a vantaggio di pochi, nell’ignoranza dell’oppressione di moltә (no, non sono errori di battitura queste finali). È innaturale andare contro i propri privilegi, è uno sforzo controintuitivo. Ma sradicare gli automatismi della cultura patriarcale, con una sonora risata magari, questa sì, è la mia rivoluzione.

 

Luisa Merloni

Nel 2001 fonda insieme alla regista Manuela Cherubini la compagnia PsicopompoTeatro con la quale una serie di spettacoli teatrali che la vedono impegnata come attrice e autrice. Dal 2007 collabora insieme all’attrice Fiora Blasi con la quale intraprende una ricerca tra diverse culture e tradizioni teatrali nell’ambito della comicità, dando vita al duo de Les têtes en l’air.