Questo è un pezzo sulla scrittura comica

di Riccardo Goretti

Lenny Bruce, New York, 1959
Lenny Bruce, New York, 1959. DENNIS STOCK/MAGNUM PHOTOS. Foto da: https://www.lemonde.fr/livres/article/2018/05/20/lenny-bruce-derniers-bons-mots_5301954_3260.html

PREMESSA
Questo è un pezzo sulla scrittura comica nel 2024.

 

PROLOGO FRAINTENDIBILE
“Questo neonato è molto brutto.”
Ecco una cosa che tutti e tutte abbiamo pensato, inevitabilmente, almeno una volta nella vita.
E visto che stiamo in una rivista di settore, e qui il linguaggio ha peso: “pensato” non è la parola giusta.
Più corretto dire, in mancanza di meglio, che siamo stati attraversati da quella frase.
Inevitabilmente.
Senza giudizio: appunto, non è un pensiero, non è una formulazione, è più simile ad uno starnuto della mente.
“Questo neonato è molto brutto.”
Basta.
Tutto lì.
Non è che poi abbiamo formulato (sì, stavolta con cognizione) “…e quindi si merita di morire”.
Assolutamente.
Anzi, sicuramente abbiamo trovato adorabili i suoi versetti neonatali.
Magari abbiamo anche smesso di vederlo come “molto brutto”.
Perché, appunto, era solo uno starnuto della mente.
Ci era parso.
O magari no.
Non ci era parso.
Magari quel neonato (certo, ovviamente per i canoni di “bello” e “brutto” tipici della nostra testaccia occidentale a oggidì settordici di aprile del 2024) è veramente molto brutto.
E noi lo abbiamo pensato.
Solo pensato.
Ecco.
A questo servono i comici: loro lo dicono.
Al posto nostro.
Ci scaricano da un peso: il peso di averlo pensato.
Anche solo in quella modalità starnuto.
Dovremmo essergliene grati.
Anche perché:
Se gli togliamo questa funzione, al comico, ditemi:
a cosa serve più?

 

POSTILLA AL PROLOGO (ché non sia più fraintendibile)
Questo significa che il comico è un bullo?
No.
IL BULLO è un bullo.
Il bullo è colui che strilla a brutto muso, con cattiveria, “questo neonato è brutto”.
Il bullo è Valvert, che arriva da Cirano e non sa dire altro che “voi avete un naso molto grande”.
Il comico, invece, è proprio Cirano che pazientemente spiega al rozzo interlocutore in quanti modi avrebbe potuto prenderlo in giro COSTRUENDO una battuta sul naso grosso.
Perché questo è: si tratta di lavoro, come per tutte le cose.
Il lavoro fa sempre la differenza.

 

PICCOLO ESEMPIO NERD.
E dunque: la comicità DEVE essere “cattiva”, o non è? Assolutamente NO. Mai sostenuto questo in vita mia. Ne esistono i secchi, di stili comici, proprio come ci insegna Cirano. V’è il surreale, il naive o clownesco, la satira da risata a denti stretti e la grassa pacchiana da risata a denti sguainati (se vi piace il genere). E anzi vi dirò, la comicità cattiva non è neanche necessariamente la mia cup of tea. O meglio, se chi la fa la sa fare (e bene), allora sì, la potenza che se ne sprigiona è liberatoria e devastante (il lavoro fa sempre la differenza). Ma questa è un’ovvietà.
L’altra ovvietà dovrebbe essere che, sia la comicità crudele l’unica possibile o meno, sia la vostra preferita oppure no, essa purtuttavia DEVE avere il diritto di esistere.
Di questo sono certo.
Il piccolo esempio nerd di cui al titolo che vi riporto è il seguente, e credo sia piuttosto utile per capire l’assunto precedente:
Intorno alla metà di dicembre scorso, la rivista online Aesteticasovietica ha lanciato un appello per rimuovere dal mercato il gioco da tavolo “CocoRido”, distribuito in Italia da Asmodee. Di cosa si tratta: il gioco in questione è una sorta di piccolo clone del ben più noto “Cards against humanity”, e con il suo illustre predecessore condivide il meccanismo principale: tramite delle carte i giocatori devono formare la frase più “divertente” possibile… ovviamente per contrasto. Ad esempio io posso avere in mano la carta: “Un passatempo domenicale per tutta la famiglia…” e calarla insieme a “una frusta, un paio di manette e dei leggings di latex”. Tra le altre carte, fin troppo prevedibilmente, razzismo, sessismo, abilismo, rape jokes, frasi sull’omicidio e sul suicidio. Insomma, quello che fino a qualche anno fa si chiamava “black humour” (di cui trasmissioni popolarissime come Family GuyI Griffin in Italia – erano del resto strapiene). Black humour accostato a situazioni normalissime e di grande paciosità. Divertente? No davvero, sono d’accordo con voi. Ma questo non vuol dire, sono un nerd di professione, per me i giochi da tavolo devono avere libretti di regolamento di almeno 120 pagine… inoltre però, ahimè, sono anche un comico di professione, e gli accostamenti fatti così a cazzo (si può dire “a cazzo” in televisione?) mi facevano ridere, forse, in terza elementare (il lavoro fa sempre la differenza). Che cosa posso dunque fare a riguardo di un gioco che trovo onestamente stupido SIA nelle meccaniche SIA nei contenuti? Il peggiore sgarbo che si possa fare ad alcunché nell’era del turbocapitalismo: non lo compro.
Non ne chiedo la rimozione dal mercato.
Non lo compro.
Il primo è sacrosanto libero arbitrio.
La seconda, censura.
Poi potete chiamarla come volete eh, per carità, whatever works.

 

DOMANDA
Ma dunque: di cosa stiamo scrivendo, e perché?
Ce lo spiega subito subito qualcuno che scrive e pensa molto meglio del poveraccio che è arrivato annaspando fin qui.

 

LO STATO DELLE COSE
Da La Correzione del Mondo di Davide Piacenza (Einaudi, 2023):

[…] Se il mondo conservatore ha sempre fatto un uso estensivo dell’intolleranza (spesso appena mascherato da tiritere come quelle sui «valori della famiglia» e la «santità del matrimonio»), la tribalizzazione del discorso pubblico in nicchie regolate dalla dopamina (l’autore si riferisce ad un discorso precedente in cui si spiega l’effettiva dipendenza dell’utente social dai likes e in generale dal consenso online. Dipendenza a tutti gli effetti “chimica” poiché l’approvazione dei propri contenuti fa rilasciare dopamina nel sistema nervoso, NDR) ha portato il fenomeno a sfondare anche a sinistra, dove si è saldato in un’unione scellerata – e spesso taciuta – con l’interesse delle aziende e dei sistemi di potere a mostrarsi dalla parte giusta delle cause sociali più sfruttabili commercialmente. Come vedremo meglio nel prossimo capitolo (sorry, ve lo dovete comprare, NDR), l’attivismo su Instagram è diventato un mestiere in cui specializzarsi, e i glossari d’importazione della correttezza politica una competenza da sviluppare. Nelle comunità di riferimento i contenuti virali veicolati ai membri del gruppo orbitano attorno a un lessico anglofono iperspecializzato, espressione di codici sociali che cambiano con una velocità consona al mezzo: la sfida, in un ecosistema governato da queste regole, è mostrarsi più attenti, rigorosi e aggiornati degli altri. Conta primeggiare davanti al proprio pubblico, anche se per farlo ci si intestano lotte altrui o si aumentano numeri e influenza personale attaccandosi regolarmente a pretesti di dubbie ricadute sul reale. Giulio Calella ha notato su «Jacobin Italia», una delle testate di riferimento della sinistra radicale italiana, che negli ultimi anni sia gli influencer che gli intellettuali progressisti sono andati incontro a un cambiamento politico e antropologico, inseguendo «una tendenza a adeguarsi al linguaggio premiato dagli algoritmi con visibilità e like: quello che calca forzatamente le emozioni, i sentimenti, l’indignazione morale, la colpevolizzazione individuale e il vittimismo». Ci si concentra sui cicli di attenzione e gli spazi di organizzazione concessi dalle piattaforme – tra una polemica sulla presa di posizione di una poetessa influencer sugli psicofarmaci e la querelle sulle parole di un premio Nobel circa il modo migliore di cuocere la pasta – abbassando sempre di più l’asticella della partecipazione. Il risultato è una grammatica limitata e zoppa in partenza, che si rivela «efficace a mobilitare la propria “bolla social”, molto meno a convincere chi non lo è già», scrive Calella. […]

 

RISPOSTA
Dunque di questo stiamo scrivendo?
No, non proprio. O non esattamente.
La citazione dal libro di Piacenza parla di social, non di scrittura comica, mentre questo è un pezzo sulla scrittura comica, no?
Vero.
Altrettanto vero che, a parer mio, non esiste più una distinzione tra “vita social” e “vita reale”: siamo andati molto oltre. La vita sui social È la vita reale. La scrittura sui social, e le dinamiche che comandano ciò che decidiamo di pubblicare, sono esse stesse LA scrittura, il linguaggio.
Il tema di fondo, di qualunque cosa si parli, per un osservatore del reale nel 2024, è inevitabilmente il mondo online.
Se vi sembra triste, scollegatevi.
Se ci riuscite.

 

UN PEZZO SULLA SCRITTURA COMICA
E dunque questo che leggete è un pezzo sulla scrittura comica.
Non mi imbrogli, Graziano Graziani che me lo hai richiesto, d’ora in avanti non parlerò di nient’altro che di scrittura comica. Lo so che è un trappolone, e che vuoi un mio intervento su questa rivista solo per le mie posizioni conservatrici a riguardo delle nuove tematiche woke (e già così, almeno a me, vien da ridere, e altresì da parafrasare l’eterno Mario Brega… «Conservatore a me? Conservatore a me? Io nun so’ communista così, io so’ communista così!!»). Non vi fate distrarre, o lettori, dalla pur lunga dissertazione precedente giocata da Goretti e Piacenza, qui non si parla di cancel culture, di Ricky Gervais contro Caitlyn Jenner, di Dave Chappelle contro Mae Martin, di Vera Gheno contro Pio e Amedeo. Si parla solo e soltanto di scrittura comica.
Con ciò si intende dire, e il qui scrivente ne è pienamente cosciente e convinto, che a tutti gli effetti, almeno in Italia, la cancel culture non esiste. O per meglio dire, non è mai realmente arrivata. Cioè, anche i più accaniti difensori della freedom of speech, delle cui schiere mi vanto di far parte, dovranno ammettere che non è mai stato impedito di dire niente a nessuno, negli spazi consentiti ovvio, e che i personaggi pubblici “cancellati” a causa di una polemica su quel che hanno detto o scritto si contano sulle dita di una mano.
Però.
(Ed è questo “però” che mi rende un fascista, evidentemente. È l’equivalente moderno del “ma” nella frase “Non sono razzista ma…”).
Però se proprio in questo momento mi (o per meglio dire “ci”, visto che so che il mio pezzo sarà accompagnato, e vivaddio, da pezzi di segno contrario) viene richiesto un intervento sulle problematiche o sui meccanismi di scrivere un pezzo comico, un motivo ci sarà. Cioè, ben vengano le riflessioni a cadenza regolare sul nostro bel mestierino, ma ho come la sensazione che questa NON sia una di quelle.
Intanto perché c’è un casus belli.
Ed è per me piuttosto significativo che il suddetto sia rappresentato dallo spettacolo Fotofinish (un tempo “Fotofinish in bianco e nero”) di Antonio Rezza e Flavia Mastrella, ossia letteralmente la pièce che mi ha, per così dire, convertito all’arte teatrale in giovanissima età. A fine dicembre scorso lo spettacolo è infatti stato oggetto di una polemica che ha in qualche modo “costretto” parte della critica teatrale del paese a prendere posizione, dopo che un post su Instagram di Generazione Magazine dal titolo Quando l’arte sovrasta il consenso ha accusato il performer romano di “molestare” a tutti gli effetti gli spettatori – che egli ammassa in scena a fine spettacolo, strusciandovisi poi contro col corpo seminudo. Alla pesante accusa mossa a Fotofinish ha già risposto, e bene, proprio Graziano Graziani prima dalla sua bacheca Facebook (con un pezzo dall’eloquente titolo Se non si ride non è la mia rivoluzione), poi in un confronto diretto con la redattrice della rivista ospitato da «Teatro e Critica»… insomma, se ne è già parlato abbastanza, non starò a dilungarmi anche qui su questo casus, anche perché credo che il paragrafo successivo (dall’altrettanto eloquente titolo “il cuore del problema”… per niente pomposo, non trovate?) spieghi, a chi ne sarà interessato, quale sia la mia posizione su casi come questo.
E poi perché credo si sia capito alla svelta che rispetto al “cancel” esiste un metodo ben più funzionale, ancorché subdolo, di far fuori i non allineati: premiare tutti gli altri. Non importa cancellare nessuno.

… un po’ come ha fatto la mafia quando è passata da sciogliere le persone nell’acido a truccare tutti gli appalti d’Italia (NON sto paragonando la woke culture a cosa nostra cristo santo state calmi sono pur sempre uno scrittore comico. Boomer, peraltro). Intendiamoci: non c’è niente di male (a premiare gli allineati, non a truccare gli appalti!), solo mi ha sempre fatto molta paura il pensiero unico, sia a destra che a sinistra, ma ehi, come dicevo prima, è libero arbitrio, e se volete seguire tutti i più grandi sbandieratori di morale che zeppano di virtue signaling ogni loro contenuto, avete la mia benedizione.
E senza giudizio, davvero.
Potete dire lo stesso, dall’“altra parte”?

P.s. lettura consigliata a riguardo del fenomeno del “virtue signaling” accennato nelle ultime righe: la graphic novel Stacy di Gipi (Coconino Press, 2023), storia di uno sceneggiatore di successo che perde letteralmente tutto perché durante un’intervista racconta di avere SOGNATO di essere un serial killer.

 

IL CUORE DEL PROBLEMA
Qualche mese fa, durante le prove di uno spettacolo, ho preso una breve (ma intensa) discussione con un ragazzo molto più giovane di me a riguardo di una battuta di Louis CK (tratta da Chewed Up, 2008). Riporto per intero il pezzo in questione (con relativa traduzione mia):

«Everybody has different words that offend them. Different things that they hear and get offended by. To me, the thing that offends me the most is when I hear someone say “the N-word”… not nigger by the way, I mean “the N-word,” literally whenever a white lady on CNN says “the N-word” that’s just white people getting away with saying nigger. They found a way to say nigger, “N-word”, it’s bullshit because when you say “the N-word” you’re putting nigger in the listener’s head. That’s what saying a word is. You say “the N-word” and I go “Oh, she means nigger,” you’re making ME say it in my head. Why don’t YOU fucking say it instead and take responsibility.»

(Tutti hanno parole differenti che li offendono. Cose differenti che, se le sentono dire, si sentono offesi. A me la cosa che dà più fastidio in assoluto è sentire “la parola con la N”. Non “negro” eh, intendo proprio dire “la parola con la N”… tutte le volte che una signora bianca sulla CNN dice “la parola con la N”… è solo un modo di farla franca e dire a tutti gli effetti “negro”. Hanno trovato un modo per dire “negro”! Usare l’espressione “la parola con la N” è una cazzata, perché quando lo dici in realtà trasmetti la parola “negro” nel cervello di chi ti ascolta! E QUESTO È LETTERALMENTE COME FUNZIONA LA COMUNICAZIONE! Tu dici “la parola con la N” e io penso “ah, intende “negro”!”. LO STAI FACENDO DIRE A ME! NELLA MIA TESTA! E allora perché cazzo non lo dici tu, e ti prendi la tua bella responsabilità!)

E dunque adesso vi spiego su cosa non ci capivamo col mio collega, perché secondo me è proprio tra le pieghe di discussioni come questa che si nasconde il grande problema dei nostri tempi.
Ecco, secondo lui, la parola “negro”, quel comicastro lì, peraltro anche accusato di molestie, non la doveva proprio pronunciare. Chiunque pronuncia quella parola, indipendentemente dal contesto, è un razzista e rischia di far soffrire qualcuno.
E ok, ho detto io, non nego che ci possano essere sensibilità urtate da ciò, ma quella battuta lì, che ha evidentemente come target i BIANCHI, anzi, proprio l’IPOCRISIA dei bianchi, ammetteremo insieme che non è proprio possibile farla senza dire “negro”.
È dunque preferibile NON dire la battuta, pur di non usare quella parola, anche se in realtà essa è completamente a favore della “tua” causa?
Esattamente, ha risposto il mio collega.
È un modo di vedere le cose davvero particolare, secondo me.
Il contesto, la fonte (CK è figlio di un ebreo e di una messicana, è possibile che sia razzista?), e, a volte (come in questo caso e anche nel caso di Antonio Rezza) il significato profondo di ciò che si dice o si fa, non vengono in alcun modo considerati: hai detto “negro”? Sei un razzista. Stop.
Boh.
Opinione lecita, davvero, come praticamente tutte le opinioni, è solo che non la capisco. E neanche Lenny Bruce la capirebbe, probabilmente.
E a tal proposito, soprattutto non capisco una cosa:
Com’è che negli anni Sessanta si chiamavano “fascisti” i poliziotti che andavano ad arrestare il povero Bruce per oltraggio al pudore, poliziotti inviati da un governo bigotto e puritano, mentre lui si faceva trascinare via in manette continuando a urlare “negro” nel club proprio per depotenziare quella parola e smettere di far sì che ci fossero persone che soffrono sentendola… mentre oggi il fascista sarebbe proprio Lenny Bruce?

 

DA UN’IPOTESI A UNA TESI A UNA SINTESI A UN’ALTRA DOMANDA
Insomma amico caro, siamo tutti e due convintamente antirazzisti, non è di questo che dovrebbe importarci?
Se io ritengo che si possa scherzare sull’argomento (e su tutti gli argomenti, del resto) e tu no, non dovrebbe essere solo un dettaglio?
E soprattutto: chi ti dà il diritto di ritenermi meno antirazzista di te (quando non razzista proprio) in base a questa divergenza di opinione?

 

ECCO, TUTTO QUESTO PER DIRE COSA?
Ecco, tutto questo per dire che, seppur la cancel culture non sia pervenuta, almeno possiamo concordare che, citando la mia adorata Lucia Calamaro, evidentemente “il paradigma è cambiato”. E ci aggiungo anche la chiosa “e a me i cambi di paradigma mi fanno venire il reflusso gastroesofageo”.
“Grazie a dio il paradigma è cambiato! Era l’ora!” diranno a questo punto i miei piccoli lettori. Già li sento. Non lo so, siamo sicuri?
Vorrei dire: proviamo a esaminare il problema ancor più da vicino… ma già così mi sono dilungato troppo, ho fatto un gran pasticciame, e inoltre corro il rischio che mi si accusi di mansplaining, o di venire cordialmente invitato a fare un check del mio priviledge – e anche per questo mi sono limitato a mettere su carta digitale mie sensazioni («Io non ho sentimenti, solo sensazioni», cantavano qualche anno fa i Marta Sui Tubi, ve li ricordate?), esprimere miei dubbi, narrare miei accadimenti.
Nessuna pretesa di tirare conclusioni di alcuna sorta.
Nessuna certezza.
E del resto questo è solo un pezzo sulla scrittura comica nel 2024.
O meglio: su come vedo io la scrittura comica nel 2024.
E così credo si debba chiudere con la definizione di ironia che dà Ricky Gervais all’inizio del suo monologo Supernature:

“That was irony, okay? There’ll be a bit of that throughout the show. See if you can spot it. Now, that’s when I say something I don’t really mean for comic effect, and you, as an audience, you laugh at the WRONG thing ’cause you know what the RIGHT thing is. It’s a way of satirizing attitudes.”

(Ecco, quella era IRONIA, ok? Ce ne sarà sparsa qua e là per tutto lo spettacolo, magari la riconoscerete. È quando dico qualcosa che non penso davvero solo per l’effetto comico e voi, come pubblico, ridete alla “cosa sbagliata” perché sapete invece quale sia la “cosa giusta”. È un modo di fare satira sui comportamenti.)

 

CONCLUSIONI.
Non ce ne sono.
Lo avevo promesso.
Ed ecco qua.

 

Post Scriptum informale (1)
Scusate – davvero, sono serio – se non ho usato un linguaggio inclusivo.
Se siete arrivati fin qui magari vi stupirà, ma sono fermamente convinto che la lingua italiana debba rispondere, col tempo, all’esigenza di modificare il maschile come desinenza anche neutra, se questo non corrisponde più al sentire di chi la lingua la usa (e la lingua È di chi la usa). A patto ovviamente che questa esigenza rimanga tale, ripeto, si dovranno trovare soluzioni. Al momento mi pare non ce ne siano. Troncare le parole per inserire una schwa, o un asterisco, davvero rende tutto illeggibile. Addirittura se si volesse rivolgersi al lettore/lettrice si ha come unica possibilità (a parte quella di scrivere sempre, appunto, “lettore/lettrice”, e penso che siamo tutti d’accordo che si appesantisca di un bel po’ la lettura) quella di scrivere “lett*”. Incomprensibile.
No?
Vabbè comunque, ormai, conservatore per conservatore.

 

Post Scriptum Informale (2)
Ho scritto tutto quello che penso a riguardo di questi argomenti così complessi?
No davvero.
E non per diplomazia.
O non solo.
E non per paura di una shit storm.
O non solo.
(Anche perché, Gore’, ma chi te se fila.)
È che, per l’appunto, sto lavorando ad uno spettacolo dal titolo La Correzione del Mondo, tratto dall’omonimo libro dell’ottimo Piacenza che cito anche all’inizio di questo piccolo intervento, e, capirete, non volevo fare troppi spoiler.
Inoltre, come già detto (e davvero a differenza di QUASI TUTTI mi pare), io non ho certezze.
Anche per questo.
Soprattutto per questo.
Non ho certezze.
Voi sì, lo so.
Io non ho certezze.
Solo sensazioni.

 

Vostro come sempre,
RG.

 

Riccardo Goretti

Riccardo Goretti, classe 1979, è autore e attore di teatro e cinema dal 2002. È stato in scena al Piccolo di Milano, all’Argentina di Roma, all’Odeón di Parigi, alla Biennale di Venezia, ai Due Mondi a Spoleto, al San Ferdinando di Napoli.