«Io sono l’Occasione, a pochi nota». Riflessioni sull’arte dell’improvvisazione

di Enrico Pastore

Teri Weikel a Tempi di Reazione, SPAM! dic. 2018 – ph Andrea Simi

«È solamente in un luogo imprevisto, e in un momento inatteso, che può avvenire un fatto al quale saremo pronti a credere senza riserve».
T. Kantor

Improvvisare è termine a cui nel linguaggio corrente si accostano significati con accezioni vagamente negative: raffazzonare, abborracciare, preparare lì per lì. Concetti che rimandano all’imprecisione, alla mancanza di progetto, all’impreparazione. Nel pensiero occidentale come si sostanzia a partire dell’Umanesimo, l’opera d’arte è frutto del genio dell’artista che pensa l’opera e attraverso lo sforzo della propria volontà, manualità, tecnica e abilità rende manifesta l’idea nelle forme. L’opera d’arte è quindi stampo del pensiero che la precede e la determina. Ciò che in campo artistico viene improvvisato assume pertanto nel pensiero comune, ma anche in quello di numerosi addetti ai lavori, uno status di minorità, di incompiutezza, perfino di dilettantismo.
Nonostante questo pregiudizio, condiviso per altro da autori come John Cage che minarono nel profondo l’idea di autoralità e di paternità dell’opera, nell’ultimo secolo e mezzo l’arte dell’improvvisazione ha assunto un ruolo determinante nelle più svariate discipline artistiche. Pensiamo al Jazz, a certa avanguardia musicale soprattutto elettronica, alla pittura (il dripping di Jackson Pollock per esempio), alla danza e al teatro.
Accanto al pensiero dominante dell’artista artefice unico dell’opera, che trova nell’Ottocento romantico la sua più eroica e dogmatica applicazione, si è sempre affiancata una modalità più fluida ed anarchica ma anche più sommersa perché sovente osteggiata. Pensiamo alla Commedia dell’Arte dove gli attori componevano, a partire da temi, scene e situazioni di base, nell’istante della rappresentazione un caleidoscopio di possibilità sempre diverse che nascevano e morivano davanti al pubblico. Per alcuni autori di drammi e commedie, scrittori e non teatranti, questa mania inventiva era considerata un vilipendio, uno sfregio all’opera, solo i più illuminati compresero i pregi del recitar all’improvviso.
Uno di questi fu Alessandro Piccolomini, autore, nella metà del Cinquecento, di rinomati testi teatrali quali Amor Costante e Alessandro, e che decise di dedicarsi a un progetto ardito: comporre un catalogo universale di scene, situazioni, personaggi e intrighi da cui gli attori potessero trarre qualsiasi genere di materiale con cui costruire sulla scena uno spettacolo di volta in volta diverso a seconda delle circostanze. Un prontuario per una arte combinatoria applicata al teatro, una serie di moduli aperti eternamente ricomponibili come pezzi di un meccano dalla quale sorgesse quasi per miracolo un’opera apparentemente compiuta ex ante.
Certo, come ricorda Luigi Riccoboni, autore e pensatore del teatro italiano in Francia e autore de Histoire du théâtre Italien in due volumi nel 1730, la recitazione all’improvviso necessita di un certo tipo di attore: «ingegnosi e più o meno ugualmente bravi, perché lo svantaggio dell’improvvisazione consiste nel fatto che la recitazione del migliore attore dipende assolutamente da colui con cui dialoga: se si trova un attore che non sa cogliere con precisione il momento della replica, e che l’interrompe a sproposito, il suo discorso langue e la vivacità dei suoi pensieri viene soffocata».
Questo passo ci descrive la necessità degli attori di aver abilità compatibili ed equipollenti. Tale esigenza possiamo tranquillamente estenderla a tutte le pratiche artistiche che impiegano l’improvvisazione. La riflessione di Riccoboni fa emergere anche un’altra attitudine fondamentale dell’improvvisatore: il saper cogliere l’attimo e la capacità di interpretare quanto avviene trovando una risposta adeguata.
Questo saper afferrare l’occasione nel momento giusto ci trasporta in una diversa concezione del tempo propria dell’arte dell’improvvisazione. Se l’opera tradizionalmente intesa è frutto di un progetto, di un disegno che mano a mano che procede si sostanzia e si struttura fino a giungere a un compimento che dà corpo a uno o più significati previsti, nell’arte dell’improvvisazione si vive nell’istante e in quello che i greci chiamavano kairos, il tempo dell’opportunità. È un cogliere l’attimo, un adattarsi tempestivo alle circostanze, una modalità che non accetta il ritardo e rifiuta l’esitazione. Abitare kairos significa vivere la contingenza del momento con tutta la propria presenza, svincolati dal concatenamento di passato e futuro, dove il primo si risemantizza a ogni istante successivo e il secondo semplicemente non esiste. Nell’improvvisazione kairos prende dunque il posto di chronos, il tempo dell’opera per eccellenza.
Per saper vivere kairos c’è però bisogno di quella che i greci chiamavano metis, ossia quell’attitudine mentale che pratica l’imprevedibilità, che si adegua alle situazioni. Come il velista coglie il vento alle prime avvisaglie del suo mutare, così l’uomo che esercita la metis riesce a dominare le situazioni difficili e ostili non esercitando il controllo ma cogliendo le opportunità che via via si offrono. Una sorta di surf sull’onda del mare mutevole delle circostanze. Come dice Corrado Bologna: «la metis è la capacità di aderire solidamente alla realtà in maniera complice, camaleontica, ambigua, duttile». Grazie a essa si pratica l’eukairia, la capacità di afferrare il tempo opportuno.
L’opportunità però è quanto di più fugace possa esistere. Macchiavelli la descrive come una donna piena di grazia che mai non riposa perché tiene il piede sopra una ruota e il cui volto è coperto da lunghi capelli: «perch’un non mi conosca, quando vengo». Opportunità è seguita da Penitenza che vien trattenuta da chi non s’è avveduto del suo passaggio, e perduto in pensier vani, non comprende com’ella sia sfuggita dalle mani. A questo serve la metis, a cogliere l’occasione al suo passaggio e a sfruttarla nel migliore dei modi. L’improvvisatore dunque vive nel tempo kairologico esercitando la metis e affinandola con l’esperienza benché ciò che è stato non sia mai più ripetibile.
Quest’ultimo assunto ci conduce ad esaminare un altro aspetto inscritto nell’arte dell’improvvisazione: essa è quell’arte che inventa le regole e le norme del suo farsi nell’istante in cui si compie. Non ha canoni a cui ci si possa aggrappare e nessun piano di battaglia può in alcun modo essere atteso. Nessuna forma preventivamente studiata vedrà mai la luce in un’improvvisazione perché suonerebbe falsa come le monete di cioccolata. Nemmeno può essere in qualche modo insegnata. Tutt’al più il maestro può condurci a un atteggiamento propedeutico, uno stato mentale e fisico fecondo che concili l’atto improvviso e imprevisto. Può dunque accompagnarci sulla soglia, ma entrare nel flusso creativo istantaneo è affare del performer, è frutto di allenamento personale e di una attenta coltivazione di uno specifico contegno differente per ciascuno.
Il filosofo Luigi Pereyson diceva: «l’arte è un tal fare che, mentre fa, inventa il modo di fare […] nel corso stesso dell’operazione inventa il modus operandi, e definisce le regole dell’opera mentre la fa, concepisce eseguendo, e progetta nell’atto stesso che realizza». Pereyson non parla dell’improvvisazione ma dell’arte tout court, tanto che Alessandro Bertinetto giunge a teorizzare che ogni pratica artistica sia di fatto una forma di improvvisazione in quanto ogni nuova opera risponde al suo tempo in maniera non preventivata e di fatto risemantizza il repertorio che l’ha preceduta.
Questo assunto è ancor più vero nelle arti performative dove, per quanto un’opera sia studiata e provata, nell’atto in cui si compie davanti a un pubblico può accadere sempre qualcosa di imprevisto che richieda al performer una certa dose di improvvisazione. Vi sono artisti che cercano questo stato di incertezza, che si preparano delle trappole per scongiurare l’abitudine alla ripetizione.
Questo inventarsi le regole nel momento in cui si agisce comporta come conseguenza che ogni performer viva l’atto di improvvisazione in maniera completamente diversa, sostanzia il momento con uno stile e sapore unico, e questo personalissimo approccio conduce a una totale mancanza di regole cui aggrapparsi, e quelle poche norme che ciascuno a suo modo adotta, possono tranquillamente venire disattese durante l’esecuzione. L’improvvisazione è atto anarchico per eccellenza in cui, per dirla alla Thoreau, il governo che governa meglio è quello che governa meno. L’atto di improvvisare contiene in sé dunque delle istante politiche ed etiche precise.
Ulteriore elemento da considerare è che nell’improvvisazione non conta tanto il risultato quanto la qualità del processo esecutivo. L’esser presenti all’istante, il saper vivere il carpe diem che sostanzia questo specifico atto creativo, è l’unica misura che certifica la peculiarità e il pregio di un processo artistico improvvisato. Il risultato inteso come opera coerente esteticamente valida, composizione chiusa nel senso di finita, può non sostanziarsi. L’incompletezza, il fallimento, la caduta persino lo schianto sono delle possibilità accettabili e possibili. Fanno parte della natura stessa dell’improvvisazione. Ci si gioca se stessi completamente, e si può perdere. Nel cadere però si acquista esperienza, un bagaglio da rimettere in gioco al tentativo successivo.
Ulteriore elemento da considerare è la non ripetibilità dell’atto performativo improvvisato. Tutto si svolge nel qui e ora. Si tratta di una generazione spontanea che vive in un baleno e poi scompare senza lasciar traccia se non nell’animo di chi c’era. Documentarla è quasi impossibile. Il video e la testimonianza, scritta o orale che sia, sono parziali. Il primo manca del sapore dell’istante della presenza, la seconda è sempre personalissima, frutto di un punto di vista, di un orientamento e di una conoscenza acquisita nel tempo. Lo stesso performer non sempre sa esattamente cosa ha fatto, e manca spesso delle parole per descrivere quanto provato nel flusso creativo istantaneo.
L’assenza di progetto, l’esercizio della metis nel tempo kairologico produce l’effetto di minare alla base uno degli elementi costitutivi dell’arte occidentale come viene considerata a partire dall’Umanesimo: la volontà dell’artista, l’io dell’artefice è ciò che crea l’opera. Nell’improvvisazione l’io cosciente così come l’esercizio della volontà deve essere in qualche modo sospeso, imbrigliato. La coscienza del performer è infatti sempre scissa, come divisa tra l’essere teso come filo sull’abisso del momento fuggente e occhio che guarda se stesso. Abbandono e volontà a braccetto, una volontà però scevra di progetto, che nega l’io e le sue voglie, che pronta si adatta alla circostanza e lieta si contraddice per provare strade diverse. Una lotta continua tra il noto e l’inatteso, tra ciò che si sa e ciò che si scopre, tra l’abitudine e la casualità. Non è dunque creazione ex nihilo, ma composizione che si sostanzia con elementi frutto di un bagaglio tecnico che si integrano con naturalezza con ciò che si forma hic et nunc.
Infine il pubblico che non è solo un occhio che guarda passivo, ricettacolo di un messaggio preciso che va compreso, ma è elemento attivo di creazione. Il suo sguardo sostanzia l’opera che si viene a creare e l’azione del performer. La sua risposta, la sua interazione è non solo materiale per il processo creativo, ma è anche elemento costitutivo di un atto irripetibile. È dalla relazione che nasce una performance improvvisata. Lo sguardo propone percorsi inediti e imprevisti che il performer deve saper cogliere. Chi guarda propone opportunità, rende possibile l’evento e lo modifica con la sua presenza.
In tutti questi casi è evidente un’etica e una politica dell’agire alquanto sovversiva.
L’assenza di progetto o, per lo meno, la possibilità che esso venga completamente disatteso e modificato, l’acquisire abilità con la pratica e non attraverso norme codificate e stabilite, l’accettazione del possibile fallimento, non come disastro irreparabile, ma come esperienza formativa, la valorizzazione del processo più che del risultato compiuto, la sospensione dello strapotere dell’ego e la condivisione con una comunità che non solo è spettatrice ma co-creatrice dell’evento, avanzano istanze ed esigenze fuori dalla norma corrente del mercato artistico contemporaneo che necessita e reclama risultati certi, processi ripetibili e riproducibili, l’esclusione totale del fallimento di un investimento di tempo, denaro e forza lavoro. L’improvvisazione è un fastidioso guerrigliero annidato nella giungla dell’arte che pratica una rivoluzione non violenta, ma di certo pericolosa.
Non è un caso che i nuovi media, così come le case discografiche e persino le strategie di promozione di opere di teatro e di danza, cerchino in ogni modo di disinnescare la carica rivoluzionaria della pratica improvvisativa. In che modo? Congelando la fluidità del momento in una ripresa da mettere su Youtube, una diretta su Facebook o Instagram, il bootleg di un concerto improvvisato. Questi sono solo alcuni esempi di strumenti tesi a riprodurre ciò che non si può ripetere e a vendere come finito ciò che di fatto non lo è. L’atto artistico condiviso con il pubblico nel momento in cui si attua fonda una comunità temporanea ed esclusiva. Solo chi ha partecipato e ha vissuto è, non solo testimone, ma anche possessore di un’esperienza che per ciascuno è diversa e variamente significativa. Non si sostanzia come merce che si compra e si scambia, ma come dono e offerta.
Detto questo va ribadito che l’arte dell’improvvisazione non è qualcosa di caotico, frutto di un lasciarsi andare alla deriva, ma un gioco sottile, un affare che non ammette dilettantismi, in cui i pochi elementi scelti alla base vengono sottoposti a variazione, metamorfosi, proteiforme trasformazione, giocosa contraddizione, sublime arte combinatoria dove tutti i fattori o piccole norme di base si integrano e ricombinano con ciò che si trova per strada. È come un volo in cui si deve esser pronti a cogliere il vento e i suoi repentini cambi di direzione. Un sottrarsi per fare emergere, cavalcando l’onda accettando il rischio di venir sommersi. Non vi è dunque nessuna emersione dell’io e delle sue miserie, nessuna clinica, ma un togliersi di mezzo per essere tutt’uno con il tempo, lo spazio, l’oggetto, i compagni di viaggio. Non si pensa perché pensando non si fa. Si tratta piuttosto di un fare pensante. Una sorta di prassi filosofica improvvisa, non pianificata, aperta all’imprevisto dell’incontro.
L’improvvisazione è quindi, per concludere, non una pratica minore rispetto alla grande arte pensata e progettata, ma un nucleo fondante e costitutivo della pratica artistica nel suo complesso. Essa è portatrice non solo di istanze etico-politiche, ma delinea una prassi aperta all’inclusione. Nella creazione improvvisata qualsiasi materiale è ugualmente nobile, qualsiasi stimolo è foriero di sviluppi, persino l’elemento più trascurabile e negletto può diventare pietra angolare di una costruzione. Inoltre in una società dominata dall’affermazione, e dall’ostentazione ossessiva dell’ego, l’arte dell’improvvisazione disegna una modalità più gentile e discreta, un togliersi di mezzo per far parlare le cose e il mondo che ci circonda. Una conversazione con l’esistente fatta principalmente di ascolto, di attesa, di rinuncia. Una sospensione della frenesia dell’agire al fine di cogliere l’attimo propizio per camminare con gli elementi invece di plasmarli secondo la propria volontà o capriccio.
Per concludere questo articolo che non ha affatto la pretesa di essere esaustivo quanto piuttosto di delineare degli spunti di riflessione, vorrei riportare quanto diceva François Tanguy prima di ogni improvvisazione, parole che mi hanno accompagnato sempre nei miei pellegrinaggi teatrali. François consigliava di cercare uno stato performativo che permettesse di far passare l’aria tra le cose e le persone. Una sottrazione che conduceva all’emersione della vita segreta che scorre non vista sotto i nostri occhi, ma soprattutto una pratica che conduce attore e osservatore a scoprire le infinite possibilità del mondo che ci circonda al posto di continuare a concepirlo come un immenso supermercato in cui prendere solo ciò che ci aggrada rimanendo ancorati ai propri gusti e pregiudizi. Queste sue parole mi hanno fatto comprendere, un lontano pomeriggio di settembre al Lido di Venezia, sotto la tenda del Théâtre du Radeau, la possente libertà che si può cogliere in un’improvvisazione, libertà che nasce dalle costrizioni, dal rispetto degli oggetti e delle persone che agiscono con te, dai limiti di spazio e di tempo, limiti che improvvisi svaniscono e rendono tutto possibile, se crei quel vento misterioso che passa tra le cose.

 

Enrico Pastore

Laureato in lettere Magna cum laude con una tesi sul teatro di John Cage presso l’Università Cà Foscari di Venezia. Ha svolto periodi di formazioni in Italia e all’estero con registi come Pippo Delbono, François Tanguy (FR), Jakob Shokking (DK), Fernando Dacosta (SP).
Regista e direttore della Compagnia D.A.F. fondata nel 1998 con la quale affronta un lungo percorso di ricerca nel teatro musicale d’avanguardia affrontando autori quali Stravinsky, Cage, Kagel, Ullmann e collaborando attivamente con giovani compositori come Giovanni Mancuso, Mauro Montalbetti, e con l’ensemble del Laboratorio Novamusica di Venezia. Ha curato regie per il Gran Teatro la Fenice di Venezia, il Teatro Fondamenta Nove il Teatro Groggia a Venezia e il Teatro della Caduta di Torino, Officine Caos. Ha collaborato con istituzioni quali La Biennale di Venezia, Le Settimane Musicali di Stresa, il Mart di Rovereto, lo Spirito del Lago, l’Università Ca’ Foscari di Venezia, gli Amici della Musica di Padova, il Teatro della Caduta di Torino. Dal 2006 al 2011 è stato direttore operativo degli Incontri Cinematografici di Stresa festival internazionale di arte cinematografica dedicato ai giovani autori e alle produzioni indipendenti, lavorando attivamente alla costituzione di una piattaforma per la coproduzione internazionale. Dal 2012 al 2018 ha scritto sulle pagine di Passparnous, web revue of art, come critico di spettacoli di teatro e danza, facendo reportage da festival come La Biennale di Venezia, Festival de la Batie (CH), Uovo Festival, Performa Festival (CH), Venice International Performance Art Week, Bologna Live Arts Week, Interplay, La Piattaforma, Santarcangelo dei teatri, Electro Camp Festival Venice, Terrassa Nuevas Tendencias (SP), Festival delle Colline Torinesi, Sound Disobedience Ljubljana (SL), Kilowatt, InEquilibrio, Trasparenze, Le Vie Festival, May Days, TACT. Nel 2017 è stato co-curatore insieme a Ambra Bergamasco e Edegar Sterke del MovingBodies Festival di Torino. Attualmente scrive su Rumor(s)cena.

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