Cosa c’entra il riso

di Graziano Graziani

Julyen Hamilton in “Tempi di Reazione”, SPAM!, 2018, foto di Elena Modena

Apriamo il 2021 con un’indagine sul riso. Un’indagine in due puntate che affronta questo mese il rapporto tra riso e danza, mentre il prossimo mese sarà la volta del teatro. Perché partire dal riso? In parte si tratta di un gesto scaramantico, per esorcizzare un anno luttuoso come il 2020 e questa sua coda che sembra poter impegnare per intero anche l’anno successivo. Ma, più concretamente, perché il riso è un elemento che caratterizza un pezzo importante e interessante della scena odierna. Parliamo di “riso”, di “risata”, e non di comicità, ironia, eccetera, perché quello che ci interessa sondare è l’innesco della risata come relazione tra il performer e il pubblico. Abbiamo così chiesto a un gruppo di coreografi e danzatori di raccontarci quel momento preciso in cui, nel rapporto con il pubblico, qualcosa si accende in forma di risata. Quali strumenti si usano, se se ne usano, per ottenerla? Che funzione ha all’interno dello spettacolo? È sempre (e solo) una captatio benevolentiae nei confronti del pubblico o piuttosto un modo di costruire comunità? Questi interrogativi sono stati l’innesco delle riflessioni che raccogliamo in questo numero, che costruiscono un panorama della danza “legata al riso” che è anche una geografia di sensibilità comuni pur messe in pratica con linguaggi diversi, a volte diversissimi. Roberto Castello rileva come Piemonte, Toscana e in parte Roma siano l’epicentro di questo fenomeno che tende a connettere il riso alla danza contemporanea, un elemento di propensione verso il pubblico per nulla scontato: come ricorda Ambra Senatore, in Francia questa propensione al comico nella danza è considerata strana, non conforme all’idea di una disciplina a suo modo “sacrale”, che vede nel gesto e nella sua bellezza la centralità del lavoro, sia esso portato avanti con intenti formali o narrativi o destrutturanti. Ovviamente il rapporto tra danza e riso non è uno specifico italiano, ma nel nostro paese – che indaghiamo con questa carrellata di interventi che va da Fabio Ciccalè e Giovanna Velardi, da Tardito Rendina a Giorgio Rossi – si è creata una saldatura in tal senso. E per varie ragioni. Intanto la danza non è necessariamente un genere che produce oggetti spettacolari leggibili in modo razionale. Ha a che vedere col corpo, con la relazione. Da questo punto di vista la risata è l’innesco di questa relazione, un farsi comunità. Eppure il riso ha una natura ambigua, quando include qualcuno è perché esclude qualcun altro, ridere è “mostrare i denti” e quindi sembrerebbe essere un gesto non innocente, a volte addirittura feroce. Si può ridere di altri, e la risata può trasformarsi in elemento di esclusione. Se lo scherno è rivolto al potere, questa esclusione ha una natura politica, generalmente di irrisione del più forte. Ma può essere rivolta a sé stessi, si può costruire personaggi goffi o bislacchi che suscitano il riso, uno scivolamento verso il clown che, assieme al mimo, sono le radici più citate nei contributi qui raccolti. Insomma, la risata può avere diverse sfaccettature, essere più o meno “acuminata” e, come tale, può cambiare radicalmente la sua funzione all’interno di uno spettacolo. La carrellata di interventi, da Marco Chenevier a Silvia Gribaudi ad Alessandro Certini, prosegue spesso interrogandosi sul senso di sperimentare il comico nella danza. Al di là delle singole considerazioni – che vi lasciamo scoprire leggendo gli articoli – ciò che esce è che il riso è, anzitutto, una condizione gradevole, nella quale ci si può avvicinare. Farne un elemento cardine per una disciplina, come la danza contemporanea, spesso vista pregiudizialmente come un genere algido e per addetti ai lavori, significa ribaltare questa visione e ricostruire un rapporto intenso con lo spettatore. L’articolo di Valeria Vannucci, dedicato alla storia del balletto e in particolare al Settecento, ci ricorda infine che danza e pantomima hanno molto in comune già da molto tempo e che quindi questo rapporto “caldo” che i coreografi che lavorano sul riso creano con il loro pubblico è sì una forma originale, ma che si lega a una lunga e ben strutturata tradizione.