Sul riso e sul sorriso. Qualche riflessione sull’ironia della danza d’improvvisazione

di Alessandro Certini

Alessandro Certini in "Heavy Metal", foto Enrico Gallina
Alessandro Certini in “Heavy Metal”, foto Enrico Gallina

Del riso, per la scena nella danza… mi fa pensare al passato. Oggi ridiamo meno. Poco forse, peggio. Parlare di emozioni è sempre difficile, ricordarle è più facile. Il ridere e il piangere sono segnali di emozioni, e le emozioni sono materia complessa che è, per altro, mediamente “materia seria”. Il riso non è la comicità. Quest’ultima è un presupposto al riso, ma solo per parlarne.
La comicità è l’emozione in potenza, il riso è la liberazione in atto di quel potenziale, che tutti abbiamo e che più o meno coltiviamo.

Nel mio lavoro non ho definito modelli di comicità, non è il mio mestiere; ma per esperienza adotto dei metodi, mi avvalgo di punti fermi che metto in pratica nell’ambito dell’improvvisazione.
Il danzatore, quando si trova ad agire sulla scena in uno spazio mentale “liberato” dalle costrizioni del discorso prefissato, quando pratica la dinamicità del discorso orale, invece della scrittura coreografica di una narrazione ripetuta, si cala totalmente nel presente, qui, in questo luogo orale. Sottolinea sottilmente o marcatamente, l’ironia stessa della vita: le tante contraddizioni che ogni riduzione scenica e settoriale riempie di significati “irrinunciabili”, normalmente e apparentemente.
Si possono esaltare i caratteri di rottura del con-senso, delle regole, di relatività e cambiamento del senso che ampliano l’area di sopravvivenza all’impatto dell’urgenza di situazioni pre-costituite, spesso imposte, nella “vita”. Egli mette in crisi il senso stesso, anzi “un” senso stesso della vita.
Così ad esempio, si risolve in scena il rapporto con il pubblico, o meglio, con un gruppo di spettatori. Forse l’unica “costrizione” per chi improvvisa, è appunto il non prendersi sul serio, per poter aprire la fantasia alla trasformazione dell’inatteso, ossia del non pianificato, che è la caratteristica più seducente dell’approccio performativo che pratico.

Azioni dove il “tempismo” dei gesti, le associazioni dei pensieri e le caratteristiche delle scelte, contravvengono le convenzioni che mi sono familiari, conosciute.

Vivere la scena della danza d’improvvisazione senza osservarne i codici fissi richiede al contempo nutrimento e profondo contatto con il proprio corpo. In modo che “quando”, “cosa” e “come” non siano di ostacolo, affinché il rapporto corpo/mondo possa aprirsi all’ironia, e questo è un primo passo per portare una direzione emotiva nell’atto scenico.

In questa direzione, il non esser serio, è meno impegnativo. Aiuta a liberarsi provocando sul suo campo il timore costante dell’esser preso seriamente. Dell’esser giudicato dal tribunale della noia mortale del pubblico o, ancor peggio, arrivare ad annoiare sé stessi.

La scena è un rischio, una trappola tanto quanto lo è l’edonismo riflesso per l’artista.
Il narcisismo delle idee, che agisce come «quel celebre artista concettuale che era passato al figurativo perché pensava fosse una bella idea» (è una frase di Umberto Eco letta da qualche parte). È qualcosa che mi fa sorridere e il sorriso può scandire i momenti della performance, come l’agile battuta di un pendolo; ed è molto utile quando si vuole dar maggiore serietà del messaggio. Alla fine ridere è sempre la parte di un dramma, sulla scena e nella vita stessa. Ed è anche un dramma serio: ricevere e perdere, giocare e nulla potere.

Da questa mia riflessione è naturalmente esclusa la “tecnica”, in quanto costituirebbe una contraddizione tra il desiderio di essere (non solo in scena) in tutto, con la univoca violenza della realtà del presente e il manipolare, l’orchestrare il contesto immaginario collettivo temporaneo dello spettacolo come finzione. In una battuta, ciò che crediamo è falso e non solo quello che avviene in scena! O meglio, non è meno vero di altro. Ed è proprio su questa convinzione che possiamo allungare il discorso – appunto per arrivare a quelle seimila battute richieste per la dimensione della pagina web, che non ho ahimè raggiunto… – ma sappiamo che questo soddisfare le esigenze è proprio ciò che in scena il performante non sopporta.

 

 

Alessandro Certini

Improvvisatore, danzatore, coreografo studia danza moderna con Traut Faggioni (Wigman, Kreutzberg) e basi classiche con Antonietta Daviso a Firenze.
Successivamente tecniche post-moderne, somatiche e contact improvisation ad Amsterdam e Londra unendo il lavoro in scena allo studio tecnico della danza.
Lavora nell’ambito della danza contemporanea europea a partire dal ’78 a partire dalla formazione di Group-O diretta da Katie Duck ed è estensivamente presente negli anni ‘80 nei principali festival del post-moderno come il Klapstuck Fest. (B), il Dance Umbrella (UK),
Utrecht Fest. (NL) … e nei molti pionieristici circuiti della New Dance internazionale.
Negli anni ’90 è accreditato sulla scena internazionale dell’improvvisazione di danza a fianco di riconosciute figure guida di questo ambito artistico e viene spesso invitato in rassegne e manifestazioni dedicate alla composizione estemporanea.
Continua tutt’ora la collaborare con molti degli artisti che hanno segnato gli indirizzi di questo settore, spesso in stretto rapporto con la musica dal vivo di autori che dell’istantaneo, del non conosciuto e dell’imprevisto hanno fatto il motore della loro ricerca.
Dal 1989 co-dirige con la coreografa Charlotte Zerbey, Company Blu.
Oltre alle all’attività di produzione e di circuitazione della compagnia si occupa della codirezione artistica del Teatro Limonaia di Sesto Fiorentino per la programmazione, l’ospitalità e la residenza di danza.
Come docente Certini è stato ospite presso scuole internazionali e centri di formazione quali SNDO Amsterdam, Rotterdam Accademy, EDDC Rotterdam, Bewegungs Art Freiburg, Radyalsystem V Berlin, Thèatre Contemporain de la danse Paris, SEAD Salzburg, Accademia di
Danza Roma e in numerosi laboratori e programmi didattici italiani ed esteri.

www.companyblu.it