Un’estemporanea comunità

di Roberto Castello

"Stanze", di R. Castello, in foto: Stefano Questorio e Barbara Toma, foto di Marcello Macchia (2009)
“Stanze”, di R. Castello, in foto: Stefano Questorio e Barbara Toma, foto di Marcello Macchia (2009)

Una risata che sia davvero una buona risata prende di sorpresa innanzitutto chi se la fa, non può essere messa in agenda come un appuntamento col dentista. Si ride per un’infinità di ragioni, in un’infinità di modi e con un’infinità di sfumature. Ridendo si risponde a un impulso istintivo ma si gratifica anche chi ci ha fatto ridere, che a sua volta probabilmente riderà con noi del nostro divertimento. E non sarebbe improbabile che qualcuno che ci stesse guardando si metta a sua volta a ridere per il solo fatto che ci vede ridere, e così via. Perché l’ilarità, fortunatamente, è abbastanza contagiosa. Ci sono però anche situazioni in cui una risata viene ad assumere significati poco chiari, ad esempio quando, e capita spesso, uno spettatore, nel silenzio di una sala teatrale, ride o ridacchia solitario cogliendo umorismo dove nessun altro sembra coglierlo. Perché non ride silenziosamente fra sé e sé? Sta dando feedback di intesa e incoraggiamento agli attori? Sta dando sfogo a un irrefrenabile impulso nervoso? Si è autonominato capo claque? Sta cercando di attirare un po’ di attenzione o sta solo cercando di rovinare la serata?

Il ridere, la risata, l’umorismo, il comico, l’allegria, la gioia, l’euforia sono un intero universo della comunicazione e della socialità che chi fa teatro conosce bene, perché il teatro, prima che luogo di rappresentazione, è uno spazio di relazione. Dal palco si sentono sempre le reazioni del pubblico e ciascuno spettatore sente le reazioni di tutti gli altri. Ci sono autori teatrali che scelgono di non considerare questo aspetto e concepiscono i loro lavori come macchine e altri che invece basano il loro lavoro sulla relazione con la platea. Per questi il comico ha evidentemente un ruolo tutt’altro che marginale. Nulla più di una risata infatti può trasformare attori e spettatori, da somma di estranei, in un’estemporanea comunità. Chi ride delle stesse cose di cui rido io mi somiglia, e ridendo insieme sprigioniamo fiotti di serotonina, dopamina, a volte anche estrogeni, che contribuiscono concretamente, chimicamente, alla creazione di un clima sociale un po’ meno depresso, ingrugnito e paranoico. Far ridere insomma, nella sua apparente innocenza, è una scelta estetica ma anche politica, anche perché una risata, per quanto bonaria, definisce sempre fatalmente anche un noi, una comunità di persone che si capiscono, e di conseguenza anche un loro, fatto di chi non capirebbe perché si sta ridendo. Basti pensare a quanto è deprimente trovarsi in mezzo a gente che ride per cose che non si capiscono o si ritengono idiozie, o a quanto possa ingelosire, e fare sentire dolorosamente esclusi, vedere la persona amata ridere felice con un, o una, potenziale rivale.

Si ride solo quando ci si capisce. È impossibile ridere della più esilarante delle barzellette se viene raccontata in una lingua sconosciuta e, anche quando non esistesse barriera linguistica, non è affatto detto che un cinese, un camerunense e io troveremmo altrettanto buffe le stesse cose. O che io, un ebreo o un africano potremmo trovare comiche le battute che circolano negli ambienti naziskin. La comicità è rivolta a chi si somiglia ed esclude gli altri. A maggior ragione esprime una visione del mondo, e quindi ha un valore politico, la comicità ostile, il ridere di o in faccia a qualcuno. Uno dei modi più brutali per umiliare e isolare chi è preso di mira o per demolirne, come nella satira, qualsiasi alone di sacralità. In questo la risata ha molto a che fare con la festa e la sostanziale differenza che intercorre fra fare festa con qualcuno e fare la festa a qualcuno.

Sta di fatto comunque che, in linea di principio, la risata è sempre un atto amichevole, gioioso e inclusivo. Chi non è disposto a fare lo stupido per far ridere un bambino cui vuol bene o un amico che ne ha bisogno? Perché ridere fa stare bene, rasserena e aiuta a guardare con disincanto ai travagli della vita. L’opposto dell’approccio all’esistenza meschino, bilioso e paranoico che ci restituiscono spesso i social media e sempre i politici in perenne campagna elettorale.

Una risata esplode quando improvvisamente diventano evidenti nessi che fino a un attimo prima non era possibile cogliere e un quadro di senso viene improvvisamente ribaltato, o portato oltre il limite del verosimile. Occorre insomma sempre un quadro di qualche tipo, narrativo, logico, sintattico, o altro, da smontare. In sua assenza non c’è verso. Il che significa che, se stiamo ridendo di qualcosa, quella cosa aveva per forza una sua logica, fatto per nulla scontato quando si tratta di danza, che per la natura del suo linguaggio, raramente tende a costruire architetture di senso.

Comunque un conto è una risata con gli amici, un altro è decidere di far ridere tutte le sere un pubblico di sconosciuti. Ogni sera e ogni pubblico sono storia a sé, non basta essere simpatici, empatici e affidarsi all’istinto. Il terreno per l’eventuale auspicabile risata va preparato e i tempi, i modi e i toni delle gag devono essere provati e riprovati. Perché la risata, a differenza del sorriso, è un meccanismo che scatta in un momento preciso e solo a precise condizioni.

È inutile negarlo, per far ridere si strizza sempre l’occhio al pubblico, e se l’intesa e la complicità su cui si conta non ci sono, il risultato è catastrofico. Per questo è bene avere le idee ragionevolmente chiare su chi effettivamente si ha davanti perché a nessuno piace essere trattato come un bambino stupido e neppure non sentirsi abbastanza intelligente da capire ciò di cui si sta parlando. Bisogna riuscire a sfidare l’intelligenza dei presenti muovendosi nello spazio di questa forbice. Mi riferisco ovviamente alle situazioni in cui si ride, non a quelle in cui c’è qualcuno che si sta giocando dignità e amor proprio elemosinando qualche segno di apprezzamento. Gli ammiccamenti, il dar di gomito, le chiamate più o meno esplicite, potranno anche ottenere qualche tipo di reazione dagli spettatori più ben disposti ma si tratta comunque sempre di risposte che valgono quanto gli applausi a comando di una trasmissione televisiva. Chi fa questo sta solo chiedendo di fingere di apprezzare la sua presenza su un palcoscenico.

Va detto comunque che far ridere con intelligenza è davvero difficile in una società nebulizzata in infinite micro tribù culturali definite da censo, età, professione, religione, etnia, genere, livello culturale, nazionalità, regione, provincia, comune, quartiere, condominio, scala, piano, etc. etc. La comicità si fonda sempre su qualcosa che si condivide e, tanto è più ampia la platea, tanto maggiore è il rischio, o di essere capiti solo da alcuni, o di dire solo banalità. Il che spiega perché in televisione la comicità spesso è scadente e capita invece più facilmente di ridere di cose intelligenti nei sottoscala dei teatri underground.

In questo senso la danza e il teatro contemporaneo sono in qualche modo facilitati, dal momento che i sottoscala sono i loro luoghi abituali e i loro pubblici sono così limitati da permettere agli autori di prevedere con buona approssimazione cosa li accomuni. Non per questo però, soprattutto nella danza, sono in molti a fare uso della comicità. Sono rarissimi i tentativi di umorismo non pantomimico nell’ambito del balletto, e non mi viene comunque in mente nessun caso in cui non andasse di pari passo con la struttura di una musica, in cui insomma a questa non fosse demandata la maggior parte del lavoro. Meno raro invece è l’uso del comico nell’ambito della danza contemporanea, almeno di quella italiana, soprattutto fra gli artisti che in qualche modo si rifanno alla lezione dell’espressionismo tedesco, per formazione più aperti a meticciati con il mimo, il clown, l’improvvisazione e con il teatro est europeo degli anni Settanta. Non è un caso infatti che gli artisti italiani conosciuti per il loro humor provengano in maggioranza dall’area torinese e fiorentina, dove forte è stata l’influenza di Bella Hutter e Traut Faggioni, formatesi entrambe alla scuola dell’ausdruckstanz che ha sempre avuto l’uomo, l’essere umano, e non le magnificenti architetture dell’opera, al centro della sua poetica.

Nel XX secolo, per innumerevoli ragioni, l’arte ha finito a volte per assumere forme così complesse da essere percepite come, e quindi di fatto diventare, elitarie ed escludenti al punto da indurre alcuni a considerare la propria incapacità di comunicare come un titolo di merito. Quante volte è capitato di sentire artisti e curatori affermare con finto rammarico che l’arte è per pochi, ovvero per loro, abbastanza benestanti, istruiti, colti, cosmopoliti e raffinati da poterla apprezzare? Non stupisce che a un certo punto ci sia stato chi ha iniziato ad additare al pubblico ludibrio come snobistico elitarismo radical chic tutto ciò che si differenziava da Alvaro Vitali, Paolo Villaggio, Sandra Milo. Una clamorosa vittoria culturale della destra pecoreccia e dell’estetica da estetisti di Sgarbi e Frassica di cui stiamo ancora pagando i danni.

Forse è venuto il momento di tentare di riguadagnare all’arte il ruolo critico e dialettico che dovrebbe contraddistinguerla. Un’inversione di tendenza che non parta dall’aspettativa degli artisti ingiustamente incompresi di vedere riconosciuta la loro eccezionalità, ma dalla loro disponibilità a porsi in dialettica con tutti, smettendo ad esempio di cercare di sembrare più intelligenti utilizzando citazioni di Levi Strauss, Lacan e Baumann per spiegare opere seriose e poco comprensibili e dimostrando invece nei fatti che li si è davvero letti e capiti, e che magari si sono lette e capite anche le opere di altri autori dai nomi non abbastanza noti o altisonanti da meritare di essere citati. Per far ridere e sorridere occorre apprezzare la leggerezza del pensiero e soprattutto non usare il palco come una cattedra, un altare, un pulpito, ma considerare il teatro una festa. Se fosse accaduto più spesso, a nessuno sarebbero venute in mente stupidaggini come la formazione del pubblico o il public engagement perché a teatro la gente ci sarebbe andata spontaneamente.

La comicità, è vero, è una captatio benevolentiae, è un modo per rendersi il pubblico, se non proprio amico e complice, quanto meno non troppo distante e giudicante. Il punto è: deve essere un fine o un mezzo, e se è un mezzo, per arrivare a cosa? L’unica cosa che mi sento di dire è che non mi piace quando a teatro ho l’impressione che ottenere una risata sia tutto ciò cui l’autore aspira, quando mi viene da pensare che qualsiasi pernacchia o barzelletta sui mariti cornuti andrebbe altrettanto bene. A teatro mi aspetto qualcosa di meglio di quello che potrei trovare allo Zelig. Tutt’altra cosa è invece la comicità che riflette su sé stessa e sui suoi fragili e umanissimi meccanismi. Un tipo di operazione che può anche non far ridere ma che ha il grande merito di provare a utilizzare il linguaggio teatrale per fare ciò che gli è proprio: ragionare sugli umani. Quello che mi suscita vero amore però è incontrare autori che riescono a muoversi con leggerezza nel territorio dell’assurdo giocando con i nonsense e inanellando con intelligenza cose strampalate e perché no, anche vertiginosamente stupide. Mi vengono in mente comici stranieri, le improvvisazioni di Alessandro Certini e i “Minions” che evidentemente con Alessandro Certini e il teatro non c’entrano affatto ma, come molti personaggi di animazione, parlano un linguaggio che è pura coreografia. Mi vengono in mente anche due autori di area romana come Ciccalè e Rezza che affrontano il comico con autolesionistica ferocia e riescono sempre con grazia e levità, in definitiva, a uscirne con onore. E cito Rezza a fianco di un coreografo, non per errore, ma perché Rezza pensa e scrive i suoi spettacoli come un coreografo e la sua comicità si basa su meccanismi squisitamente compositivi. Il suo lavoro ha più a che vedere con quello di Pina Bausch, Adrienn Hód e Philippe Decoufflé che con quello di molti che vengono usualmente ritenuti suoi colleghi. E cito anche Pina Bausch come autrice comica perché, anche lei, anche se molti non sembrano ricordarlo, utilizzava il comico con un sense of humor che a ripensarci mi dà ancora gioia a decenni di distanza.

Per quanto riguarda il mio lavoro, mi piace la comicità ma non mi interessa fare ridere. Mi piace a volte fare o dire cose potenzialmente comiche ma non mi aspetto mai, e non do mai per scontata, alcuna reazione. Tendo anzi a non lasciare mai al pubblico il tempo della risata, non voglio che nessuno si senta in dovere di manifestarmi il suo consenso. Divertire mi pare un modo rispettoso per evitare la seriosità e rendere più fruibili lavori per altri versi magari serissimi e complessi. Qualcosa che, pur nella siderale differenza delle poetiche, mi sembra di riconoscere anche nei lavori di Jonathan Burrows e Matteo Fargion, autori concettuali quanto pochi altri, che usano un comico garbato e surreale che, complice anche il rapporto umano che li lega, a tratti scaturisce dalle loro serissime, ferree e algide strutture compositive; un tipo di comicità che si incontra di rado. Non è un caso infatti se quando si pensa al comico, si pensa a qualcuno che racconta qualcosa. La comicità è un meccanismo di critica dei comportamenti e della natura umana. La danza, e ancor più la musica, sono invece linguaggi non descrittivi sostanzialmente astratti, i più capaci di creare all’occorrenza gioia ed euforia ma che si prestano poco a creare le strutture logiche complesse che la comicità richiede. È solo quando la partitura musicale e/o la coreografia creano qualche sorta di successione logica e prevedibile, qualcosa insomma che assomigli a una narrazione e crei in qualche modo delle aspettative, che si apre la possibilità di una risata, che resta comunque sempre e solo legata alla capacità di guardare con divertito distacco alle debolezze umane.

 

 

Roberto Castello

(1960) Danzatore, coreografo e insegnante.
Nei primi anni ‘80 danza a Venezia nel “Teatro e danza La Fenice di Carolyn Carlson”, dove realizza le sue prime coreografie.
Nel 1984, è tra i fondatori di Sosta Palmizi.
Nel 1993 fonda ALDES.
Premio UBU nel 1986, nel 2003 e nel 2018 (“Il Cortile” / “Il migliore dei mondi possibili” / progetto ALDES).
Dal 1996 è curatore di varie manifestazioni e rassegne e, dal 2005 al 2015, è stato docente di coreografia digitale presso l’Accademia di Belle Arti di Brera a Milano.
A partire dal 2008, con ALDES, cura il progetto “SPAM! rete per le arti contemporanee” nella provincia di Lucca, ospitando residenze, una programmazione multidisciplinare di spettacoli, workshop, attività didattiche, incontri.
Nel 2017 crea e cura il blog “93% – materiali per una politica non verbale”.
Durante la sua carriera, collabora, tra gli altri, con Peter Greenaway, Eugène Durif, Rai3 / Fabio Fazio e Roberto Saviano, Studio Azzurro.

www.aldesweb.org