Tradurre, trasportare, sconfinare
di Graziano Graziani
Dire che “tradurre” è “tradire”, seguendo un noto adagio che gioca sulla radice comune di questi termini e sottolinea l’impossibilità di una restituzione del tutto identica all’originale, non solo suona già un po’ come luogo comune, ma non tiene nemmeno conto di un’idea differente che può accompagnare l’idea di traduzione e che ha a che fare con il “consegnare qualcosa” restituendone il senso più profondo. D’altronde questa idea di consegna è davvero alla base dell’etimologia dei due termini: traducere, per l’azione del tradurre, ovvero trasportare; tradare, per l’azione di tradire, che in realtà significa consegnare – e da lì si capisce l’evoluzione del termine – ed è imparentato con la parola “tradizione”, come qualcosa del passato consegnato al presente. Ma, soprattutto, riporta a una dimensione che a che vedere con il tempo e che il teatro e la danza conoscono bene.
A prima vista potrebbe sembrare che il termine “traduzione”, per le arti sceniche, sia qualcosa di secondario nel processo creativo. Ad esempio, la traduzione di un testo straniero consegnata a un regista. Ma a ben vedere la pratica artistica teatrale – che è quasi sempre un’opera collettiva, una stratificazione di segni e intelletti, e che per sua costituzione deve porsi il problema dell’hic et nunc in cui si manifesta – ha molti punti di contatto con la traduzione come strumento che rende possibile quell’opera collettiva che è un’idea, per quanto difforme e plurale, di patrimonio culturale comune. E ciò avviene forse proprio grazie alla relazione non immediata tra la scena e l’arte del tradurre, perché, a differenza della letteratura, dove la tentazione (giustificata) di considerare un’opera come un oggetto “autentico” da preservare e la scrittura come l’opera di una sola autrice o autore al comando trova maggiore riscontro, in teatro e nella danza la questione si fa più complessa e l’ossessione per l’autenticità mostra i suoi (fecondi) limiti.
Andiamo con ordine e partiamo dal testo. Per quanto una certa visione del teatro legata al teatro di regia e alle sperimentazioni performative dell’avanguardia abbiano portato, soprattutto in Italia, ha una progressiva marginalizzazione del testo teatrale, esso è spesso l’unica traccia che ci rimane del teatro quando i suoi autori e i suoi interpreti non ci sono più. Shakespeare, Moliere, Pirandello li conosciamo soprattutto attraverso i loro testi. Oggi la questione è diversa, perché esiste il video, ma chi frequenta la scena sa bene che l’esperienza che si può fare del teatro in video è sempre un’esperienza monca. Questo è vero anche per il testo, e forse persino di più; ma il testo è in grado di lasciare spazio all’immaginazione, di suggerire ciò che non si vede senza imporre un modello, ed in questo assomiglia all’esperienza teatrale, dove parte di ciò che avviene in sala non avviene necessariamente sul palcoscenico (non solo, almeno) ma anche negli occhi e nella testa di chi guarda. Il video è invece, paradossalmente, un oggetto monco – manca l’esperienza live della performance, la prossemica, la vicinanza dei corpi – ma completo di tutta la grammatica dello spettacolo, e dunque non lascia spazio all’immaginazione.
Oggi c’è una nuova attenzione nei confronti della scrittura teatrale, segno di un panorama meno ideologico dove performance, testo e regia convivono tranquillamente; ma l’aspetto più interessante di questo rinnovato interesse sta nel fatto che, grazie all’opera dei traduttori, la scrittura teatrale è sempre più “europea”. Per la danza, invece, la questione è ancora differente, e la traduzione significa consegna di un oggetto del passato agli spettatori di oggi: ne sono un esempio delle coreografie di Pina Bausch che continuano ad andare in scena nonostante la morte della loro ideatrice (ma si potrebbe dire lo stesso dell’Arlecchino di Strehler). Ma questa operazione è stata compiuta anche da diversi artisti viventi su se stessi, ad esempio da Romeo Castellucci, da Mario Martone e dalla Gaia Scienza che, stimolati da differenti progetti, hanno riallestito loro spettacoli di venti, trenta, quarant’anni prima, ovviamente con diversi interpreti. Si tratta della stessa opera? Il discorso è complesso e ci porta al nodo dell’idea di traduzione.
Tradurre significa infrangere le barriere di un contesto culturale, siano esse linguistiche che temporali. Se abbandoniamo l’ossessione per l’autentico – ossessione feconda in alcuni campi del sapere, come gli studi filologici sui documenti letterari – l’operazione di traduzione “temporale” non è dissimile da quello che avviene in oriente, ad esempio in Giappone, con i templi antichi: il legno di pavimenti, colonne, tetti è sempre nuovo e lustro, non perché nel paese del Sol Levante abbiano scoperto un legno dalle proprietà miracolose, ma perché la struttura viene ciclicamente sostituita ogni venticinque, trenta, cinquant’anni. La forma resta identica, ma la materia muta, come avviene nei corpi dei viventi.
Ovviamente, come nei corpi dei viventi, tutto questo presuppone una dose importante di “creatività”: trovare parole, espressioni in una lingua diversa, o recuperare gli effetti che una performance è in grado di innescare, significa saper padroneggiare una grammatica artistica, che è anche chiave d’accesso. Tempo fa un amico scrittore rifletteva sul revival che negli Stati Uniti hanno avuto gli studi di autori italiani cinquecenteschi come Machiavelli, rilevando che un ruolo importante l’aveva giocato una nuova traduzione dei suoi testi, che li rendeva molto più comprensibile agli studiosi americani di quanto avvenga per gli studiosi italiani che, necessariamente, devono confrontarsi con gli originali, scritti in un italiano molto diverso da quello attuale. Trasportando lo stesso ragionamento in teatro potremmo domandarci: sarebbe lecito “ritradurre” Pirandello per una messa in scena del XXI secolo? È facile immaginare la levata di scudi, eppure leggendo gli articoli che compongono questo numero di 93% scopriamo che in Inghilterra ci si approccia al classico dei classici, Shakespeare, anche con delle “traduzioni di servizio”.
L’occasione di ragionare sulla traduzione, in questo ultimo numero del 2022 della nostra rivista, ce lo fornisce proprio un lavoro di A.L.D.E.S. e di Roberto Castello, che ha scelto di riallestire in italiano uno dei lavori di punta degli inglesi Forced Entertainment. Non solo tradurre il testo, ma anche i gesti, e facendolo nella consapevolezza che tempi e contesti sono diversi dall’originale. Roberto Castello, con la sua riflessione che è anche racconto di lavoro, ci porta dentro le questioni impreviste dell’idea di traduzione di un oggetto performativo. Monica Capuani, traduttrice editoriale consacrata al teatro, racconta un mestiere invisibile che però è alla base di molto teatro per come lo conosciamo. Se con lei affrontiamo alcune questioni della tradizione francese e soprattutto inglese, quella che maggiormente ha consacrato il ruolo dell’autore a differenza di quella italiana, Manuela Cherubini ci porta dentro la traduzione ispanica, europea e argentina, raccontando la traduzione teatrale dal punto di vista di una regista, che traduce e mette anche in scena, consapevole di quanto è sul palcoscenico che il teatro si dà. Infine Gaia Clotilde Chernetich fa una ricognizione sulla traduzione nel mondo della danza, una traduzione non di parola ma di gesto, ricordandoci come ogni grammatica e lessico siano in realtà frutto di un contesto, culturale e temporale, e come il superamento dei limiti di tale contesto possa essere una sfida altrettanto creativa che quella della creazione tout court.
Con questo numero 93% conclude un anno pieno di esplorazioni e sconfinamenti tra filosofia, biologia, architettura, scrittura, antropologia, ritornando alla scena teatrale e della danza, ma facendolo proprio con un focus sull’arte del trasportare altrove. Buone feste a chi legge, dunque, e un augurio per un nuovo anno ricco di sconfinamenti.