L’abc del traduttore

di Monica Capuani

Sonia Bergamasco in "Chi ha paura di Virginia Woolf?" di Edward Albee, regia Antonio Latella_Capuano, traduzione del testo di Monica Capuani
Sonia Bergamasco in “Chi ha paura di Virginia Woolf?” di Edward Albee, regia Antonio Latella_Capuano, traduzione del testo di Monica Capuani

Ho cominciato a tradurre per il teatro e al teatro, molti anni dopo, sono tornata rinunciando a tutto il resto. Il “resto”, però, ha nutrito profondamente il modo che ho oggi di affrontare una traduzione. Di quel resto, per esempio, fa parte la mia esperienza di vent’anni nel giornalismo. Sono nata sulle pagine de «L’Espresso» sotto la direzione di Claudio Rinaldi e la vicedirezione di Enzo Golino, settimanale che negli anni Novanta vendeva centinaia di migliaia di copie. Un giorno la giornalista Stefania Rossini, che aveva notato i miei pezzi durante uno stage, mi chiese di andare a trovarla nella storica sede di via Po 12. «Qui si comincia dalla gavetta», mi disse. «Dalle ricerche d’archivio per i colleghi che devono scrivere». «L’Espresso» aveva un ricchissimo archivio nel sotterraneo e dopo qualche mese di su e giù per le scale a portare faldoni, la Rossini mi disse: «Voglio farti scrivere un box». I box erano i riquadri di approfondimento dei Dossier di una trentina di pagine che aprivano il settimanale. «Prendilo come un esame». Superai l’esame e cominciai a scrivere per il settimanale che in Italia leggevano tutti. La scrittura era il requisito fondamentale per «L’Espresso», se non avevi una scrittura brillante, non avresti mai visto la tua firma sulle sue pagine. Da quel trampolino di lancio ho viaggiato e scritto moltissimo, soprattutto di libri e di scrittori. Quindi non solo esercitavo una scrittura alta, ma leggevo un romanzo dietro l’altro, altro requisito fondamentale per chi vuole tradurre. Perché per riuscire a esercitare una lingua “da scrittori”, bisogna leggere, leggere, e ancora leggere.
Scrivere e leggere, dunque. Ecco l’abc del traduttore.
Tempo fa mi è venuto in mente, per definire noi traduttori, la formula “figli di un dio minore”: per questo nostro essere scrittori in piccolo, nel solco dell’opera dei “figli di un dio maggiore”, gli autori che traduciamo dei quali siamo a servizio, il più possibile invisibili.
Loro sono artisti dell’invenzione, noi siamo artisti dell’interpretazione e dell’umiltà.

È molto difficile per me parlare della traduzione perché sono partita dalla pratica, e non dallo studio della teoria. Scrivevo già per settimanali e mensili, ma grazie a una buona conoscenza dell’inglese e del francese cominciai a fare revisioni di traduzioni per la neonata casa editrice romana Fazi. Via via che lo facevo mi rendevo conto che riscrivere traduzioni mediocri era più difficile che tradurre direttamente dall’originale. E così, quando grazie a un’intervista a Thandie Newton, che stava girando a Roma L’assedio di Bernardo Bertolucci, mi capitarono per le mani I monologhi della vagina di Eve Ensler, chiesi all’autrice di tradurli. Richiesta incauta, visto che mi trovai a lavorare su un testo che esigeva una quota altissima di reinvenzione e un lavoro certosino sulla comicità. Fu una grande scuola tradurre quel testo teatrale e seguire la produzione dello spettacolo che girò tutta Italia per quattro anni. La traduzione era in perenne divenire perché il corpo, la voce, la personalità di ciascuna attrice esigevano aggiustamenti continui. I cast furono molti e vari, e ognuno si componeva di tre o quattro attici, e ogni anno dovevamo organizzare il V-Day, una grande serata con una ventina di attrici e cantanti molto note per devolvere l’incasso ad associazioni anti-violenza italiane. Ho imparato subito, dunque, che una traduzione per il teatro è un cantiere sempre aperto, sempre passibile di cambiamenti e miglioramenti. E anche oggi, se una mia traduzione che è già andata in scena torna in scena con altri attori e un altro regista, la mia pratica è fare una nuova revisione e andare qualche giorno alle prime prove per testarne la tenuta.

Ho cominciato in seguito a tradurre romanzi e ne ho tradotti una settantina. È un lavoro agonistico, perché in Italia è talmente mal pagato che bisogna acquistare grande velocità e produrre un’alta quantità di pagine al giorno, altrimenti economicamente non ha alcun senso. Ma l’esercizio della traduzione dei romanzi mi ha reso molto “atletica” e dunque estremamente veloce.
Mi piaceva molto tradurre più romanzi di una stessa autrice o autore, perché traducendo più di un libro cominciavo a riconoscere il gusto, lo stile, le scelte di lessico. Ma ho dovuto constatare che nelle case editrici italiane è abbastanza raro che uno scrittore abbia sempre la stessa “voce”, ossia lo stesso traduttore. A me è capitato con Amélie Nothomb, di cui ho tradotto una quindicina di romanzi. Sono stata candidata al premio Stendhal e mi è stato chiesto di fare una riflessione, forse per la prima volta, sulla traduzione dell’autrice belga. Che è la seguente:

«Conosco Amélie Nothomb da molti anni. Ho tradotto i suoi ultimi quattordici romanzi, qualche racconto e ho adattato il suo Mercurio per il teatro. Amélie è una persona squisita, estremamente generosa, fortemente elusiva, vagamente ossessiva. E di un’intelligenza smagliante. Difende con grazia le sue verità più intime nascondendosi dietro mille paraventi e ha un senso dell’umorismo spumeggiante. Tutte queste caratteristiche si riflettono direttamente nella sua scrittura. E costituiscono altrettante difficoltà di traduzione. I romanzi di Amélie Nothomb sono tersi, cristallini, capolavori di concisione. Ricreare quella perfetta economia di linguaggio in un’altra lingua è un’operazione complessa. Spesso Amélie nasconde, dietro l’apparente scorrevolezza di certi passaggi, citazioni alte, dissimulate, non confessate. Stanarle è un’impresa, bisogna stare all’erta. Amélie è maestra nel dialogo, un’arte che richiede una naturalezza della lingua quasi teatrale, convincente tanto alla lettura che all’ascolto. Quanto alla sua ironia, il traduttore deve fare atto di umiltà: ragionamenti e giochi di parole virtuosistici fanno dannare chi deve in un certo senso reinventarli, nel rigore e nel rispetto del senso, nella propria lingua madre. Nel solco di questa particolare difficoltà, a volte i titoli dei suoi romanzi costituiscono una sfida che continua a tormentare il traduttore nel corso di tutto il lavoro».

È evidente da questa riflessione che anche nel tradurre romanzi ho sempre avuto una deformazione teatrale. Cosa significa? Significa che ho sempre cercato una lingua convincente anche all’ascolto. Spesso rileggevo la prima bozza della mia traduzione di un romanzo a voce alta, perché l’orecchio – più dell’occhio – stana le incongruenze della lingua. In teatro, oggi, sono gli attori a farlo per me. Li ascolto, prendo nota, correggo. Alle prove a tavolino propongo un giro di frase diverso, se li sento esitare. O una scelta di lessico alternativa, se vedo che quella che avevo stabilito io non è organica con chi deve pronunciarla. A volte, continuo a correggere anche quando vado a vedere lo spettacolo e qualcosa mi stona. Piccole migliorie che serviranno alla prossima produzione del testo.

Quando qualche anno fa ho deciso di dedicare tutte le mie energie al teatro, la cosa che più mi interessava era la ricerca, lo scouting. Frequento i palcoscenici di Londra da moltissimi anni e mi ha sempre affascinato la vitalità del teatro inglese che da più di sessant’anni – grazie alla creazione di centri di produzione e sviluppo della drammaturgia contemporanea come il National Theatre, il Royal Court, l’Old Vic, lo Young Vic, il Donmar Warehouse, ma anche i più lontani dal centro Almeida, Hampstead Theatre e Bush Theatre – ha incoronato re del teatro il drammaturgo, e dunque ha dato grande lustro alla “parola”. Il mio interesse, nelle varie attività che ho attraversato nel mondo del lavoro, è sempre stato la scrittura e quindi ho cominciato a farmi ponte e a tradurre questi testi teatrali straordinari che vedevo a Londra, acclamati da un pubblico in cui è rappresentata tutta la società civile, e a promuoverli qui da noi, cercando di suscitarne delle produzioni. E via via che traducevo il teatro (ad oggi ho 155 testi teatrali al mio attivo) ho capito che la sua specificità è l’impossibilità di prescindere dal corpo e dalla voce dell’attore, e dal suo farsi personaggio. Il passaggio successivo è stato tentare di farmi personaggio anch’io, e prima di loro. Il teatro è scritto in prima persona. Il monologo è una prima persona con particolarità spesso originalissime. Un testo con tanti personaggi, visto al microscopio, è una pluralità di voci che devono suonare diversamente e coerentemente. Quindi oggi mi chiedo sempre, forse ormai addirittura inconsciamente, automaticamente e ossessivamente, se il personaggio direbbe quella frase in quel modo, o userebbe quel termine. Ho affinato molto questa pratica ritraducendo Chi ha paura di Virginia Woolf? di Edward Albee, che poi ha messo in scena Antonio Latella. Anche per questo lavoro mi è stato chiesto di riflettere sul lavoro fatto.

Facendo ricerche su Edward Albee mentre traducevo Chi ha paura di Virginia Woolf?, ho scoperto che il drammaturgo americano era un grande ammiratore del teatro di Pirandello. E via via che mi addentravo in questa, che è una delle traduzioni più difficili che mi sia capitato di fare finora, ho capito che Virginia Woolf è un testo di “maschere”. Ogni personaggio ha una maschera costituita dal suo personale linguaggio, scudo e arma contundente al tempo stesso. In una società evoluta, il linguaggio – elemento nodale nel teatro di Albee – è la maschera sociale per eccellenza. E in quest’arte affabulatoria, Martha e George sono dei virtuosi: giocolieri delle parole che mantengono fitta la cortina di fumo che per vent’anni ha avvolto il loro matrimonio e l’illusione del figlio (non “cambiato” ma) inventato.

«George è un manipolatore, e maneggia le parole come il prestidigitatore le carte: costruisce frasi articolate, labirintiche, pregne di un sarcasmo che manda su tutte le furie la moglie. Martha, dal canto suo, impreca, attacca, si abbandona alla volgarità, affila il suo gergo più basico e sconnesso in modo che il suo eloquio ferisca il marito (e non solo lui) a ogni affondo. Nick si gioca la carta linguistica della giovane professionalità rampante, distaccata e disinvolta. Gli ci vorrà poco a finire triturato tra i due caterpillar che sono i padroni di casa. La povera Honey, tra un’intelligenza non proprio all’altezza e l’alcol che scorre a fiumi, arranca, sempre più a corto di parole. Trovare queste voci diversissime, queste “maschere”, è stata l’impresa più ardua.

Ho deciso poi che in questa notte di riti e giochi infernali i personaggi non potessero che darsi del tu. In ambito accademico, del resto, è un uso comune, fa un po’ “aristocrazia dello spirito”.

Quando il testo si avvia a conclusione, prima del finale scarno, beckettiano, che è un colpo di scena – anche stilistico – assoluto, emerge una grande compassione per la disperazione dei personaggi. L’ho sentita molto forte in Albee, e ho cercato di restituirla. Quando Martha racconta del figlio, o dei sentimenti che nutre per George, il suo storytelling diventa dolorosamente struggente. E ci rivela che Chi ha paura di Virginia Woolf?, contrariamente a quanto si crede, è una grande storia d’amore».

Avevo visto il capolavoro di Albee a Londra e subito dopo, per caso, ero incappata in una nuova produzione italiana. Sono rimasta colpita da quanto fosse invecchiato il linguaggio della traduzione, che risaliva agli anni Sessanta, rispetto a quello del testo originale. Questo è un altro mistero della traduzione: invecchia. Specie in teatro. Di lì, quella cosmetica della traduzione di cui parlavo prima, che mi impone continue revisioni, anche quando alcuni testi vengono rimessi in scena in una mia traduzione di qualche anno prima. Ritradurre i classici sarebbe molto salutare per il nostro teatro. Restituirebbe smalto ai capolavori del teatro di tutti i tempi. In Inghilterra, l’attenzione per la lingua del teatro è tale che quando si mette in scena un testo classico, si commissiona una cosiddetta “traduzione di servizio”, ossia quella che faccio anch’io, e poi si mette quella stesura nelle mani di un drammaturgo inglese che la riscrive secondo i dettami della sua arte.

Recentemente ho tradotto Chef, un bellissimo monologo dell’anglo-egiziana Sabrina Mahfouz, una delle voci più interessanti degli ultimi anni. Serena Sinigaglia ha diretto magistralmente Viola Marietti in una cavalcata senza freni. Anche la traduzione è stata un’impresa molto ardua. Una lingua complessa, elaborata, che mi ha costretto a un giro sulle montagne russe di una costruzione vertiginosa. Una lingua virtuosistica, lirica a tratti, che all’improvviso diventa street, volgare, estremamente bassa. Anche sulla traduzione di Chef ho scritto qualche nota.

«La protagonista è giovane, è piena di vita, ha la voglia di emergere di chi nasce in una condizione disagiata ma scopre dentro di sé un talento che ha la forza di traghettarla fuori da mondi che odia. Per Chef è cucinare. E questa passione trasuda dal suo modo di parlare del cibo e della cucina del ristorante in cui lavorava, dal lessico che sceglie, dalle metafore elaborate che costruisce per descrivere nei dettagli il suo mondo d’elezione, pieno di sapori, odori, colori. Un tripudio dei sensi che la lingua che usa ci restituisce con entusiasmo. […]

La prima difficoltà è stata cercare di trovare una mia musica in italiano, una lingua estremamente lontana dall’andamento jazz dell’inglese. Mentre cercavo di fare i conti con la costruzione di un ritmo, ho dovuto cercare di traghettare il significato, la gittata di certe frasi virtuosisticamente lunghissime, la scelta accurata di un lessico a volte “street” a volte alto. Ho fatto molte revisioni, leggendo a voce alta la traduzione pensando sia all’attrice che avrebbe dovuto pronunciare fluidamente quelle frasi sia al pubblico che non avrebbe dovuto perdersi ascoltandole. […]

Un altro elemento di cui è stato determinante tenere conto nella traduzione di Chef. La rabbia. La rabbia è un motore, un agente corrosivo della lingua di questo personaggio che spesso scende nella volgarità più disperata. Perché per Chef non c’è giustizia, e lei lo sa. E allora si sfoga, come succede, con esplosioni di turpiloquio, organizzato però in architetture ardite, come dire “so imprecare, ma so anche costruire giri di frase complessi ed eleganti”. A tratti, poi, tutto si distende. La tempesta si placa. Il cibo torna al centro dei pensieri di Chef, la distrae, la fa volare, la fa evadere da quel carcere dove è costretta a cucinare con pochi ingredienti scadenti. E allora il lirismo di Mahfouz poeta sale in superficie, e Chef dice cose che ci fanno piangere. Per la bellezza. Per il coraggio di resistere. Per la passione che può salvarci da qualsiasi inferno».

Tradurre è una passione. È un mestiere sottovalutato, trascurato, ignorato. Noi traduttori siamo degli invisibili, e questo fa parte della natura del nostro mestiere, ma spesso siamo dimenticati, se non addirittura cancellati. In teatro, succede spesso perfino nelle locandine. Come se l’autore straniero fosse recitato nella lingua originale. Fino a oggi non esiste, per esempio, nessun premio teatrale – Ubu o Hystrio che sia – che abbia espresso la categoria “migliore traduzione”. Eppure la lingua in teatro è un elemento cruciale.
Quindi tradurre è decisamente una passione. Bruciante. Invincibile. Nel mio caso, visto che ho capito fin dall’infanzia che il teatro mi avrebbe salvato la vita, tradurre è il vettore che mi fa continuare a esistere nell’universo per me irrinunciabile della parola sovrana.

 

Monica Capuani

Monica Capuani è nata a Roma e ha collaborato per vent’anni come giornalista freelance per L’Epresso, L’europeo, Il Mondo, Il Venerdì e per le maggiori testate femminili periodiche, oltre a condurre per cinque anni la trasmissione Il Libro Oggetto per Radio2. Ha sempre affiancato al giornalismo un’attività di traduzione letteraria dall’inglese e dal francese, e ha al suo attivo la traduzione di una settantina di romanzi. Negli ultimi anni ha scelto il teatro a tempo pieno, come scout, traduttrice e dramaturg. Perché i testi li sceglie, li traduce e cerca di suscitarne la messa in scena, in Italia e all’estero. Ad oggi ha tradotto 155 testi teatrali.