La traduzione quinquis

di Roberto Castello

Prove della versione italiana di Tomorrow's Parties dei Forced Enterteinment a Villa Manin - Udine, 2022. In foto: Roberto Castello e Robin Arthur con Caterina Simonelli e Marco Cavalcoli. Foto di Deniz Ozdogan
Prove della versione italiana di Tomorrow’s Parties dei Forced Enterteinment a Villa Manin – Udine, 2022. In foto: Roberto Castello e Robin Arthur con Caterina Simonelli e Marco Cavalcoli. Foto di Deniz Ozdogan

Quello della traduzione dei testi di scena, per chi si occupa di danza, è un problema che si pone raramente, un po’ perché di solito i testi negli spettacoli di danza non abbondano, un po’ perché molte volte nascono già in lingue franche come l’inglese; una cosa che può far sembrare i coreografi degli snob ma che discende solo dal fatto che è normale per i danzatori studiare e lavorare anche fuori dall’Italia e i loro lavori spesso sono pensati per un pubblico internazionale.
In quasi quarant’anni di carriera mi si è posto seriamente il problema della traduzione giusto un paio di volte, la prima delle quali svariati decenni fa, quando, facendomi tradurre i titoli delle innumerevoli piccole danze che componevano uno spettacolo, ho scoperto che in tedesco non esiste un vocabolo equivalente a “trapasso”; che in tedesco insomma, senza usare perifrasi, o si è vivi o si è morti, una cosa che per me in quel momento rappresentava un problema. È stato lì che per la prima volta mi sono misurato con i problemi della traduzione di un testo teatrale.
Se comunque in generale uno spettacolo di danza può essere programmato ovunque senza traduzioni, lo stesso non è evidentemente per la prosa, e non è solo un problema di lingua. Ne ho avuto conferma lavorando alla versione italiana di Tomorrow’s Parties dei Forced Entertainment, uno dei pochi, o forse l’unico, collettivo europeo di teatro di ricerca sopravvissuto dagli anni Ottanta, e certamente una delle compagnie teatrali che ha saputo scegliersi il nome più efficace.
Tomorrow’s Parties mi ha folgorato come può capitare solo di fronte a un’opera d’arte. L’ho trovato un’operazione perfetta, il prototipo di quello che dovrebbe essere il teatro contemporaneo, una combinazione di semplicità, rigore e originalità, e la cosa mi ha scatenato un’invidia assassina: avrei voluto averlo fatto io, ma i Forced Entertainment mi avevano rubato l’idea che io non avevo ancora avuto. Tutto ciò che mi rimaneva era fare il possibile affinché anche il pubblico italiano potesse godere di questo lavoro. Una pièce teatrale fatta di null’altro che una donna e un uomo in piedi, immobili, per settanta minuti a scambiarsi ipotesi più o meno sensate e verosimili su cosa accadrà in futuro. Settanta minuti di serratissimo testo in un inglese limpido e colloquiale. Un testo nato nel 2011, non dalla fantasia di uno scrittore e imparato a memoria dagli attori, ma dalla trascrizione di improvvisazioni di un gruppo di attori bravi, colti e intelligenti. Uno spettacolo talmente fittamente parlato da rendere impensabile qualsiasi ipotesi di sovratitoli, che avrebbero finito per trasformare uno spettacolo teatrale in un tour de force di lettura. Nessuna alternativa quindi alla traduzione del testo e alla sua interpretazione da parte di una coppia di interpreti italiani, entrambe cose che non avevo mai fatto prima.
L’idea era quella di limitarsi a portare in scena lo spettacolo originale, con la sola differenza dei parlati in italiano. Un’operazione che a priori sembrava abbastanza semplice e veloce, ma che invece, nel passaggio da una lingua all’altra, da una cultura all’altra, da uno stile di recitazione all’altro, da un tipo di pubblico all’altro, si è rivelata meno facile del previsto. Il teatro è fatto di segni di ogni tipo: fisionomie, abiti, scenografie, suoni, tempi, intonazioni, timbri e modulazioni della voce e della gestualità, e in tutto questo la parola, il testo scritto, anche in un lavoro esasperatamente verbale come Tomorrow’s Parties, è solo uno degli elementi. Per creare le stesse condizioni dello spettacolo originale, interpretato dagli attori che lo hanno creato con le loro improvvisazioni e che tutt’ora, a undici anni di distanza dal debutto, per preservarne la dimensione orale, si riservano sempre un certo margine di libertà, si è posto il problema di se e quanto ampio dovesse essere il margine da lasciare agli attori italiani per restituire non solo le parole ma anche l’idea di teatro dei Forced Entertainment.
Molti mi avevano raccontato dei deludenti risultati di versioni in lingue romanze di opere della drammaturgia inglese contemporanea, anche quando erano state realizzate dagli autori e registi originali; ma se non c’è rischio non c’è divertimento. Detesto la guida sportiva, non faccio parapendio o bungee jumping ma il rischio in arte mi appassiona. Ho deciso quindi, in un momento di euforia, confortato anche da Marco Cavalcoli, di realizzare io stesso la traduzione. Per quanto modesta potesse risultare, avrebbe comunque avuto il pregio, non secondario, di poter essere rimaneggiata all’infinito senza dovere ogni volta discuterne con un traduttore autorevole, che comprensibilmente avrebbe potuto non gradire che un testo a sua firma finisse per andare in scena completamente stravolto. Una traduzione non si può impunemente manomettere, cosa che con assoluta certezza ci saremmo trovati nella necessità di fare. La correzione della correzione è l’unico modo in cui riesco a lavorare, non riesco a procedere altrimenti che per ritocchi continui, ricorreggendo ciò che è stato già corretto fino allo sfinimento.
Mi sono quindi messo a tradurre il testo: fitto, denso, metaforico, e spesso genialmente ambiguo. Vorrei poter raccontare che, come Vittorio Alfieri, mi sono fatto legare alla sedia e ho trascorso notti insonni fra pile di antichi vocabolari, ma non è andata così: ho usato un paio di piattaforme online di traduzione, ho verificato che non avessero travisato il senso del testo originale e poi ho rivisto minuziosamente il risultato, frase per frase, parola per parola per cercare di rendere le scelte lessicali coerenti con il linguaggio orale, ricco ed evocativo, del testo inglese. In uno spettacolo come Tomorrow’s Parties, del tutto privo di intreccio narrativo, l’identità dei personaggi è fondamentale ed è definita unicamente dal modo in cui parlano; un lavoro di coloritura linguistica che non avevo mai fatto ma che è stato davvero molto divertente fare.
Il passaggio successivo è stato il lavoro con gli interpreti – Caterina Simonelli, Deniz Ozdogan e Marco Cavalcoli – che, per le ragioni più diverse, ha prodotto ulteriori innumerevoli correzioni. Numerose altre sono venute da Robin Arthur, cofondatore dei Forced Entertainment, interprete e coautore di Tomorrow’s Parties, che è stato con noi per le tre settimane di prova che abbiamo avuto la possibilità di fare finora. Pur non parlando italiano, ma comprendendolo piuttosto bene, Robin ha infatti aiutato ad individuare quelle parti di testo in cui la traduzione, per quanto magari non proprio sbagliata, era inesatta quel tanto che bastava a perdere il sottile, e spesso veramente flebile, filo di consequenzialità che attraversa senza soluzione di continuità il testo da cima a fondo. Un contributo insostituibile soprattutto nelle parti in cui il testo fa implicito riferimento a fatti accaduti nel Regno Unito prima del 2011, espressioni idiomatiche inconsuete o metafore.
Il fatto che io abbia deciso di qualificarmi come traduttore del testo è insomma la misura della mia mancanza di scrupoli, dal momento che il testo italiano è in realtà un’opera collettiva cui hanno collaborato due piattaforme di traduzione online e cinque teste, e non c’è stata una sola delle circa cinquanta fra letture e prove filate, effettuate nelle tre settimane di lavoro, che non abbia portato qualche correzione.
All’ultima prova aperta prima di una lunga sospensione delle prove, i due interpreti sembravano davvero il corrispettivo dell’originale inglese: una coppia di spaesati progressisti italiani che chiacchierano e divagano in una situazione rilassatamente privata. Una cosa che chiude il cerchio di un processo creativo nato da improvvisazioni in inglese trascritte in un copione, a sua volta tradotto in italiano e rielaborato in modo da sembrare, ed in parte essere davvero, improvvisato dagli attori in scena. Un’operazione insensatamente laboriosa, ma decisamente divertente.

 

Roberto Castello

Roberto Castello (1960) danzatore, coreografo e insegnante, è tra gli iniziatori della danza contemporanea in Italia.
Con ALDES, l’associazione che dirige, produce spettacoli e cura il progetto SPAM! – rete per le arti contemporanee, che ospita residenze artistiche, progetti didattici e programmazioni multidisciplinari di danza, musica e teatro in provincia di Lucca.
Ha insegnato per 10 anni coreografia digitale presso l’Accademia di Belle Arti di Brera a Milano ed è l’ideatore di “93% – materiali per una politica non verbale”, una piattaforma di riflessione, confronto, e scambio di materiali sul linguaggio non verbale.
Nel 2021 Altreconomia pubblica “Trattato di economia – Riflessioni semiserie sulla dimensione economica dell’esistenza”, scritto con Andrea Cosentino e partecipa alla pubblicazione del volume “Nel migliore dei mondi possibili. Intorno all’opera di Roberto Castello” curato da Valentina Valentini insieme a Chiara Pirri e Valeria Vannucci edizioni Ephemeria.
Si è sempre battuto per il riconoscimento della danza contemporanea e per un sistema dello spettacolo equo, efficiente e sostenibile.
Ha ricevuto il Premio UBU nel 1985, 2003, 2018 e 2022.

www.aldesweb.org