Danza e traduzione

di Gaia Clotilde Chernetich

Dominique Mercy in “Bandoneon”, Tanztheater Wuppertal-Pina Bausch. Fonte: https://danzon2008.blogspot.com
Dominique Mercy in “Bandoneon”, Tanztheater Wuppertal-Pina Bausch. Fonte: https://danzon2008.blogspot.com

L’accostamento dei due termini – “danza” e “traduzione” – apre le porte a una serie piuttosto ampia di possibilità di discorso, analisi e riflessione. Poiché le questioni in ballo, tra danza e traduzione, sono numerose, è necessario operare un approfondimento e allo stesso tempo un allargamento della prospettiva che sia utile per osservare, raccolte nello stesso campo di indagine, queste due nozioni.
Dall’analisi dell’evoluzione dei formati coreografici di natura narrativa, alla rimediazione che avviene nei casi in cui la danza è creata a partire, per esempio, da un’opera letteraria, fino all’ipotesi che la danza stessa possa essere, o meno, concepita ed esperita come un vero e proprio linguaggio del corpo, stando a quanto è possibile osservare nel settore della danza contemporanea e nel più ampio ambito delle performing arts, la traduzione rappresenta non solo uno dei termini potenzialmente più attuali nella critica, ma anche nella prassi della ricerca e nei processi di trasmissione.
In questo senso, poiché la trasmissione della danza attiene alla sfera della corporeità – e i progetti che originano da essa hanno come “obiettivo” e campo d’azione il corpo stesso – si tratta soprattutto di trasmissione delle cosiddette conoscenze incorporate che sono formalizzate a partire da e nei repertori coreografici stessi, i quali sono, in numerosi casi, parte integrante e fondamento dei processi creativi del contemporaneo.
La scena della danza, nella sua eterogeneità, mostra un carattere rizomatico che le consente di evolvere pur rimanendo connessa alle memorie di cui si compone e alle sue storie, che sono continuamente rimesse in circolo come linfa e nutrimento di nuovi progetti di ricerca e creazione. In effetti, è proprio quando si manifesta per esempio la necessità di pensare la “riedizione” di una coreografia – oppure quando diventa necessario organizzare la sopravvivenza nel corso del tempo di una determinata opera performativa che non si vuole consegnare all’oblio – che, allora, emerge chiaramente l’opportunità di riconoscere e quindi di selezionare, seppur nella transitorietà materiale della danza, la possibilità di una sua forma autentica cui fare riferimento per le future elaborazioni che ad essa possono essere riferite. Per quanto possa sembra controverso parlare di “autenticità” in un contesto che è fluido e mutevole per sua stessa natura, questo tipo di processi promuove la distinzione tra un “originale” di riferimento – per esempio, la versione originaria di una coreografia, portata in scena dagli interpreti con cui è stata creata – e le sue successive elaborazioni, trasmissioni, derivazioni. Tutte probabilmente, quest’ultime, espressioni diverse di processi dinamici di traduzione, realizzate a partire da e in relazione con lo stesso “oggetto” originario di riferimento, o con l’insieme delle pratiche corporee e coreografiche che esso esprime.
Il tipo di relazione che si instaura tra l’originale e le sue versioni successive è, nella danza, oggetto di una complessa negoziazione che dipende da diversi fattori e che non è molto dissimile da quanto avviene per un testo letterario. Il processo di trasmissione-traduzione mette in tensione passato (la versione originale) e presente (la nuova opera) e spesso permette, inoltre, che la versione “secondaria” di una coreografia possa essere dotata, in realtà, di una trasparenza tale da permettere il ravvivamento, la rilettura o a volte anche il rilancio dell’opera d’origine stessa.
In linea con quanto scritto da Walter Benjamin nel saggio Il compito del traduttore (1920), è proprio nell’attraversamento del processo di traduzione che l’opera d’origine può rinnovarsi e rivelare così nuovi significati. Ciò che è interessante considerare, a partire da quanto accade nell’ambito della danza e alla luce del saggio di Benjamin sulla traduzione, è come la traduzione rappresenti un processo d’apertura in grado di attivare una sorta di capacità prismatica delle opere artistiche di rifrangere la propria essenza e di rivelarsi nuovamente “altrove”, anche a distanza di tempo. Non secondaria è la possibilità che attraverso i processi di traduzione-trasmissione si possano sovvertire le gerarchie tra i diversi oggetti del discorso – l’originale e le sue versioni – di modo che la forza e il significato dell’opera non siano costretti a dividersi nelle sue declinazioni successive, ma al contrario possano moltiplicarsi attraverso di esse.
Negli ultimi anni studiosi di danza, tra cui Gabriele Klein, hanno affrontato la questione della “traduzione” proprio a partire dall’approccio pluridisciplinare che caratterizza gli studi sulla danza. In particolare, la studiosa tedesca ha formulato una vera e propria prasseologia della traduzione. Il suo intento è stato quello di concentrarsi sugli aspetti corporei della traduzione e lo ha fatto, nello specifico, attraverso un suo ampio focus sulla danza del Tanztheater Wuppertal Pina Bausch che è stato pubblicato nel 2020 nel volume Pina Bausch’s Dance Theatre. Company, Artistic Practices and Reception (il libro raccoglie un’ampia ricerca condotta dall’autrice ed è edito dalla casa editrice tedesca Transcript Verlag nella collana dedicata ai dance studies diretta dalla stessa Gabriele Klein insieme a Gabriele Brandstetter).

«La prasseologia della traduzione si preoccupa meno del cosa o del perché e maggiormente del come della traduzione. Così, tradurre non significa trasmettere o attribuire sensazioni, emozioni, percezioni, pensieri, idee o storie attraverso, con o sotto forma di danza. Opposto a una tale concezione rappresentativa della danza, il concetto di traduzione in questo caso mira a comprendere come abbiano luogo atti di trasmissione, trasferimento e adozione. Infatti, processi di traduzione di questo tipo possono essere trovati nella danza in generale e, in particolare, nel lavoro del Tanztheater Wuppertal sotto forma di atti di trasmissione delle conoscenze e delle competenze, di atti di trasmissione corporea di materiale tra danzatori, e inoltre mettendo insieme vari tipi di culture di danza, ma anche traducendo la danza sia in una lingua sia in media di diverso tipo, e viceversa, oppure traducendo dalla pratica artistica a quella accademica e tra la teoria e la metodologia» (Klein 2020, p. 335).

Ciò che è possibile riscontrare, nella prasseologia della traduzione di Gabriele Klein è come non vi sia mai, nella danza, la possibilità di stabilizzare o sistematizzare fino in fondo questi processi. Al contrario, ci sono alcuni processi di traduzione che, di fatto, lasciano emergere una sorta di impossibilità della traduzione stessa, come accade a volte per alcuni termini che sono impossibili da tradurre in altre lingue se non in maniera imprecisa o attraverso parafrasi.
Dunque, non potendo inquadrare un univoco come ma “solo” una serie di modalità specifiche di traduzione create sulla base delle caratteristiche di ogni specifico caso, il cosa e il perché perdono centralità a favore degli effetti performativi della traduzione stessa, a prescindere dalla forma assunta dai risultati in scena. Sono le espressioni del come, infatti, gli elementi su cui, spesso, fa perno la creatività della ricerca in danza: non punti fermi, ma temporanei piani d’appoggio e continui slittamenti sensuali – ovvero dei sensi – e temporali che danno luogo a nuove manifestazioni dell’opera.

Spostando il punto di vista di questo articolo dalla teoria all’interno della sala prove di danza, è possibile vedere da un altro punto di vista il modo in cui è possibile considerare e percepire la traduzione in relazione alla danza. In particolare, lascio emergere le riflessioni che seguono tenendo presente, in filigrana, la mia passata esperienza di danzatrice e, più direttamente, il mio lavoro come dramaturg accanto a coreografi, danzatori, attori e registi.

È dunque già a partire dai primi esperimenti creativi in sala prove che il termine “traduzione” fa implicitamente irruzione nel lavoro e nelle metodologie di ricerca, studio e composizione. Inoltre, non bisogna dimenticare che di traduzione si può parlare anche nell’ambito della pedagogia della danza, dove la parola e il corpo del didatta e quello di chi impara compartecipano, di fatto, a formulare una nuova versione del movimento, che rappresenta una forma di mediazione di volta in volta diversa tra le differenti competenze in gioco. Si pensi quindi al momento canonico della lezione di danza, quello in cui un insegnante trasmette – per lo più oralmente – una serie di conoscenze incorporate attraverso la propria voce, ovvero attraverso la verbalizzazione della propria propriocezione, e la progressiva trasmissione di un vocabolario di movimento riconoscibile e condiviso.
Una domanda che potrebbe permettere di osservare con ulteriore chiarezza come la traduzione è parte del processo creativo in danza è: come nasce un movimento che entra nella partitura di una coreografia? Ovvero, come nasce una coreografia?
Chiaramente, non c’è un modo univoco, stabile, definito e condiviso di pensare, comporre, creare e scrivere partiture coreografiche e di movimento. Ogni artista instaura, innanzitutto, un rapporto con il proprio corpo, sede e strumento della propria creatività, in connessione alla propria poetica e alle capacità tecnico-espressive. In seconda battuta, si sviluppa un particolare rapporto di co-creatività con i propri interpreti o con il doppio ruolo di autore-interprete. A prescindere da questo distinguo riguardante le diverse forme della co-creatività e della co-autorialità, che meriterebbe un discorso a sé per essere affrontato, è necessario chiamare in causa immediatamente il piano percettivo, che consente a chi danza e a chi la progetta (coreografi, dramaturg, in alcuni casi anche gli interpreti) di entrare in contatto con il proprio corpo e le proprie sensazioni per metterle di volta in volta al servizio del movimento tecnico, di una specifica prassi del movimento, dell’esercizio della presenza, dell’espressività, della struttura drammaturgica, ecc. In tutti questi casi, quello che viene a formarsi è una particolare forma di comunicazione che, a partire dai vari sé coinvolti nel processo, si dirige verso l’esterno e verso l’altro andando incontro a una sua specifica forma di traduzione.
Sia nella didattica sia nella creazione coreografica, ma anche nelle pratiche di danza che non hanno un obiettivo immediato di composizione o studio, accade che attraverso la compartecipazione di diversi livelli di percezione e di comunicazione la traduzione sia, di fatto, un processo in atto in maniera imprescindibile nella danza stessa che avviene in real time e costantemente durante tutta la sua durata. Quello di cui sono testimone, a partire dalla prospettiva del ruolo che ricopro nel corso dei processi creativi che attraverso insieme agli autori e alle autrici con cui collaboro, è quanto i processi di traduzione da corpo a corpo che si muovono tra percezione e genesi del movimento, sensibilità, comunicazione e verbalizzazione, siano in grado di connettersi direttamente agli immaginari profondi di ciascuno e porsi a fondamento delle poetiche artistiche. In questo senso, vi è una connessione ulteriore e più profonda – tra traduzione, vocazione artistica e talento – che connette gli immaginari alla concretezza corporea e all’articolazione dei processi creativi che sarebbe senza dubbio interessante indagare ulteriormente.

 

Gaia Clotilde Chernetich

Gaia Clotilde Chernetich è un’autrice, studiosa e drammaturga per la danza. Come autrice scrive di danza e teatro per Doppiozero, Teatro e Critica, 93% e Springback Magazine. Come ricercatrice post-doc dell’Università Ca’ Foscari di Venezia ha lavorato al progetto europeo “Dancing Museums 2. The Democracy of beings”. Dopo gli studi in Scienze sociali (EHESS – Parigi) e Studi teatrali (Université Paris 3 / Ecole Normale Supérieure, Parigi), nel 2017 ha conseguito con lode un dottorato europeo in Arte con una specializzazione in Danza all’Université Côte d’Azur (Francia) e in Scienze umanistiche all’Università di Parma. Il testo Architetture della memoria. L’eredità di Pina Bausch tra archivio e scena è il suo primo libro pubblicato (in corso di stampa per Accademia University Press, Italia). Le sue ricerche e i suoi studi pubblicati riguardano la danza contemporanea, l’epistemologia e la drammaturgia. Collabora con il progetto Ormete – Oralità, Memoria, Teatro, un progetto di ricerca che coniuga la metodologia della storia orale e della storia delle arti dello spettacolo. Ha curato il progetto “Archivio Anno Zero” per l’Associazione Culturale VAN. Ha curato e collaborato a diversi progetti educativi / di sviluppo del pubblico e di coinvolgimento riguardanti la cultura internazionale delle arti dal vivo.