Sono, quindi traduco

di Manuela Cherubini

"Breve racconto domenicale", di Matias Feldman. Tradotto e diretto da Manuela Cherubini. Nella foto: Luisa Merloni, Marco Quaglia, Alessandro Riceci e in primo piano Patrizia Romeo
“Breve racconto domenicale”, di Matias Feldman. Tradotto e diretto da Manuela Cherubini. Nella foto: Luisa Merloni, Marco Quaglia, Alessandro Riceci e in primo piano Patrizia Romeo

«Faccio un lavoro assurdo.
Ho indizi da tutte le parti, indizi che non significano niente.
È proprio vero: soffriamo di un eccesso di significazione».

Rafael Spregelburd, Bizarra

 

Da bambina mi volevano far suonare uno strumento, a tutti i costi: pianoforte, violino. Io ho opposto una strenua resistenza fisica, mostrando da subito buone attitudini psicosomatiche in grado di produrre tendiniti a tutto spiano, fra i 5 o 6 anni, giù di lì. Oggi me ne pento, come di non aver studiato la matematica come si deve. Qualche anno dopo – pochi, la mia prima regia l’ho fatta a 8 o 9 anni – ho annunciato alla famiglia riunita che avrei fatto teatro: apriti cielo. Soprattutto mio zio, compositore, che forse vagheggiava di mettere in piedi un’orchestra composta dai suoi tredici nipoti, commentò con mestizia: hai scelto un’arte minore.
Storia simile con la matematica, che non ho studiato come si deve per un paio d’incidenti di percorso: professore inadeguato al liceo classico, fratello fisico onnisciente.
Queste informazioni sono importanti per provare a raccontare il mio rapporto con la traduzione: musica e matematica sono lingue che mi mancano, che desidererei poter leggere, direttamente, senza “traduttori”. Leggere direttamente, senza traduzione, senza intermediari: questo desiderio mi ha trasformata in traduttrice, intermediaria, medium: un canale di comunicazione vivente.


Lingua e realtà

Ancora infanzia. L’incontro con la lingua, l’apprendimento delle parole con la conseguente creazione di mondi, sono stati i miei giochi: inversione delle sillabe, rovesciamento delle parole, le “correggevo”, le ricreavo seguendo un impulso che più tardi avrei scoperto chiamarsi sinestetico. Le cose e gli esseri viventi hanno sapori, odori, consistenze tattili e di conseguenza battezzavo tutto secondo gusti e sensibilità personalissimi, inventavo storie in questa lingua tutta mia che poi mi sforzavo di tradurre per familiari e amici: un po’ dea – dare nome alle cose è dar loro esistenza, lo dice anche la Bibbia – un po’ medium.
Al liceo le lingue le ho cominciate a studiare e a tradurre, quelle morte: il greco e il latino. Perché ci fanno studiare le lingue morte? Perché è più facile, una simulazione in vitro: stanno lì, ferme, cristallizzate nei testi classici e tu le devi dissezionare. I meccanismi di funzionamento stanno lì anche loro, fermi, a lasciarsi frugare. Un’esplorazione affascinante, indubbiamente, durante la quale però nessuno ti avvisa che si tratta di una simulazione, che le lingue vive ferme non ci stanno neppure un secondo. E forse allora ho sviluppato la convinzione – quanto mai sbagliata – che conoscere le lingue significasse conoscere la realtà, come se la realtà fosse qualcosa di fermo, afferrabile, traducibile.
Eduardo Del Estal, amico e filosofo argentino scomparso da poco, ha scritto in un bellissimo saggio (1) che «La realtà è la resistenza delle cose a ogni ordine simbolico, sarebbe a dire, la resistenza delle cose a ciò che si dice di esse», la resistenza del mondo ad essere “nominato”.
Nonostante il linguaggio sia il più rilevante fra gli strumenti che hanno reso sapiens (demens) la specie dominante (distruttiva), non è in grado di tradurre la realtà se non per approssimazioni, da negoziare continuamente fra tutti gli idiomi – vivi, accidenti a loro, che sguisciano da tutte le parti! – che abitano il mondo.


Questioni amorose

Il teatro, che non è arte minore – dissento, amato zio – ma arte impura, si nutre di tutti i linguaggi, tutti li porta a scontrarsi col corpo, questo pezzo di realtà in cui abitiamo, che ci ospita e che ci ostiniamo a chiamare “nostro”, anche se lo conosciamo, lo traduciamo, lo possediamo in minima parte. In teatro c’è la lingua di carne e la lingua di parole. Il teatro è la scatola magica in cui posso mettere tutto, è il mio campo di traduzione più vasto e dagli esiti più incerti.
Il teatro mi ha iniziato anche alla traduzione da una lingua a un’altra, con la ricerca di testi che si avvicinassero al mio desiderio scenico. Il primo testo che ho tradotto integralmente da sola è stato Hamelin, di Juan Mayorga. L’ho tradotto a penna, su un quaderno pieno di cancellazioni, asterischi, numeri, frecce, illeggibile per chiunque altro. Ho imparato lo spagnolo – anzi, prima ho imparato l’argentino – perché a vent’anni volevo leggere Il gioco del mondo di Julio Cortázar senza intermediari. Ho letto il libro in italiano, l’ho comprato in lingua originale e mi sono messa a rileggere: una pagina in italiano, la stessa pagina in originale, così per tutto il libro. Qualche mese dopo sono partita per la Spagna e lì ho scoperto che quella lettura si era sedimentata nel mio corpo e ho cominciato a parlare in spagnolo-argentino e, a forza di correzioni amorevoli della mia amica Marta (catalana), in spagnolo di Spagna. Il mio metodo d’apprendimento delle lingue è tuttora la lettura: così col francese e adesso col portoghese. Ho provato anche col tedesco, ma non è andata bene. Perché il tedesco no? Certo, è più ostico, più “mentale” nella struttura della frase, come se dovessi sapere già dall’inizio tutto quello che vuoi dire con estrema precisione, cosa che a me non capita mai e che mi suscita una certa diffidenza istintiva. Però penso che la ragione più autentica sia amorosa. Avvicinare una lingua per me è una questione amorosa: per lo spagnolo-argentino è stato Cortázar; per il francese è stato Queneau; per il portoghese Lispector. Libri che ho amato visceralmente, letto e riletto in varie traduzioni e in originale. Col tedesco sono andata un po’ a caso: avevo trovato fra i libri di un altro mio zio – che non parla e non legge tedesco – una versione originale di La morte a Venezia di Thomas Mann, che avevo già letto in italiano senza particolari entusiasmi. Forse devo trovare il libro giusto, mi dico per lasciarmi qualche speranza, ma il tedesco, per ora, resta fra i desiderata, come imparare a suonare la tromba.
Il teatro è arrivato da me insieme all’amore per la lingua, forse per questo la parola ha molto spazio nei miei lavori, ma io non riesco a scindere parola da movimento, suono, azione, immagine, danza. Il problema è che il significato, molto spesso, si mangia tutto. Il significato è la mia trappola innata, il teatro la ricerca di vie di fuga.


Eccesso di significazione

La condizione permanente d’incertezza in cui vivo mi spinge a tradurre ciò che ascolto, vedo, percepisco, a cercare di afferrare non tanto la realtà, quanto cosa sia in realtà ciò che ascolto, vedo, percepisco. Uno sforzo costante di decifrare l’indecifrabile. Sono una macchina per leggere significati, non ho controllo su questa mia voracità di significato e neppure sulla mia facoltà di produrne: anche quando mi sforzo di non produrne, qualcuno vi legge significati, qualcuno traduce.
Di nuovo Eduardo Del Estal, nello stesso bellissimo saggio già citato, ipotizza che il cervello – quello che traduce la realtà – segua un movimento simile a quello dell’occhio, e che si regga su leggi molto simili a quelle del vedere, come quella di Figura e Sfondo. Vedere è scegliere cosa smettere di vedere (lo sfondo), per leggere la figura. Del Estal realizza una trappola poetica e chiama Significato la Figura e Senso lo Sfondo: quello che ascolto, vedo, percepisco, quello che capisco sono Significati, e li riesco a vedere proprio perché hanno una forma, mentre smetto di vedere il Senso; ma è nel Senso-Sfondo che stanno le cose che rincorro con più ingordigia, quelle che bramo tradurre! Le cose più affascinanti: il desiderio, l’infinito, il tempo, la morte, per esempio.
Tradurre – da una lingua a un’altra, dalla pagina alla scena, da uno scritto a un’immagine – è per me questo movimento inane ma irrinunciabile, commovente e patetico: maneggiare i significati per intravedere lo Sfondo, cercando di non trasformarlo in significato.


Lingua-corpo

«Penso nella mia lingua. Penso grazie alla mia lingua, con la mia lingua? È la mia lingua che mi pensa, che mi parla, che mi detta e mi traduce. La lingua, organo del corpo. L’amata lingua che produce la parola, però è, anche, un organo del gusto. Ed è anche – che bella notizia – organo di piacere».
Ecco qui, ho tradotto. Questo è l’inizio di un bellissimo scritto di un caro amico traduttore, Ariel Dilon: traduttore di Queneau in Argentina e ideatore, fra le altre cose, di un ciclo di video dal titolo Alta traición – Bitácoras de traducción (Alto tradimento – Diari di traduzione). Tralascio commenti sul concetto di traduzione-tradimento, perché penso che implichi l’esistenza di una fedeltà che non riconosco neppure alla scrittura, già di per sé traduzione (così come la traduzione è scrittura, riscrittura, invenzione, etc.); ma i diari di traduzione sono affascinanti. Si tratta di un ciclo di performance incentrate sulla traduzione letteraria e la sua interazione con altre arti, reperibili su YouTube. Tanto le performance – con la presenza fisica dei traduttori, il loro masticare, suonare, cantare, camminare lingue d’origine e d’approdo dei testi – tanto il testo di Ariel con cui ho iniziato il paragrafo, mettono a fuoco la carnalità, la corporeità della lingua e della traduzione, così come le vivo io. La letteratura è per me qualcosa di corporeo, un insieme di segni che attraversa il mio corpo, le parole sono corpo, perché prodotte dal mio corpo, perché il suono ha corpo, perché sempre le ho concepite come corpi vivi. Quando traduco un testo da una lingua a un’altra, quando pratico questo tipo di traduzione, parlo ad alta voce, leggo originale e traduzione ad alta voce: ho bisogno dell’attraversamento fisico delle parole, della loro versione in movimenti, suoni, sapori, odori e consistenze, come quando ero bambina. E poi il corpo, quando traduci, si fa presente anche come dolore: sto molto seduta e ciò non mi fa bene; chiedete a traduttrici e a traduttori: come va la cervicale? La tendinite?
In alcuni casi pratico anche la traduzione estrema: m’inchiodo alla scrivania e traduco un testo, senza prima leggerlo, tutto d’un fiato. Una pratica sadomasochistica che applico solo ad alcuni testi teatrali e che ho scoperto essere praticata anche da altri traduttori e traduttrici. Questo tipo di traduzione, che anchilosa il corpo in una tensione unica, la utilizzo come bozza di verifica con cui confrontare la traduzione vera e propria che si svolge in tempi più lunghi e in diverse fasi. Questa traduzione estrema all’impronta mi regala la possibilità di tradurre/scrivere senza sapere cosa c’è dopo, disinnesca il meccanismo di “spiegazione” che a volte induce a scegliere una parola o una costruzione piuttosto che un’altra perché si ha già una visione d’insieme. Mi rende spettatrice ignara del dispiegarsi dell’opera: una condizione essenziale per il testo teatrale. Sottopongo le traduzioni successive al confronto con quella all’impronta per controllare di non aver anticipato, spiegato, piegato la scrittura a esigenze già note al momento della traduzione approfondita. Non voglio però, né saprei, dare suggerimenti che potrebbero rivelarsi catastrofici per la resa delle traduzioni – la traduzione estrema serve solo come strumento di lavoro per chi traduce – e pericolosi per la salute. È un terno al lotto: il testo potrebbe anche non valere la pena – nel senso letterale di dolore fisico – di una pratica tanto estrema.
Non esistono moti intellettuali che non siano moti del corpo, della lingua. La traduzione è un viaggio fisico fra lingua d’origine e lingua di destinazione, un percorso fra corpi:
«è come il bacio: il desiderio di una lingua per un’altra lingua – scrive Ariel Dilon – Ogni scrittura è traduzione di un processo mentale che obbedisce alla danza della lingua, e questa scrittura si estende alle protesi – di carta, di pietra, di cristalli liquidi. Ma è la scrittura quella che insegna alla lingua il pensiero. Danza della lingua fuori dal corpo, la scrittura – e la traduzione è scrittura – è maître à penser della lingua che la pensa».

Post Scriptum:
Ho appena ricevuto l’invito ad un convegno che avrà luogo a Città del Messico: CONGRESO INTERNACIONAL PLURICULTURAL AFRICA EN LA SANGRE. Così, tutto maiuscolo, i saluti in fondo all’email sono: BENDICIONES. Sempre tutto maiuscolo.

Sto cercando da circa un’ora di tradurre. Lo so, il titolo è facile: Convegno internazionale multiculturale Africa nel sangue. Non altrettanto facile capire perché mi stanno invitando. La prima cosa che mi viene in mente è d’informarli che non ho ascendenze africane, ma, pensandoci bene, non è così. Certo che ce le ho, come chiunque. Poi mi ricordo che da quattro anni sto lavorando, cercando di tradurre in forma scenica un testo “irrappresentabile” di Nawal Al Saadawi, scrittrice egiziana, ed ecco perché. Rimane il dubbio sulle benedizioni.

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1. Eduardo Del Estal, Historia de la mirada, Atuel, Buenos Aires, 2013.

 

Manuela Cherubini

Manuela Cherubini è regista, autrice e traduttrice.
Si dedica alla ricerca, alla creazione, alla traduzione e alla promozione della drammaturgia contemporanea, con una predilezione per un teatro d’attore e di parola e per il connubio fra arte e scienza.
Due volte Premio Ubu, per Hamelin di Juan Mayorga e per Bizarra di Rafael Spregelburd.
Con Elisa Casseri e Giorgina Pi idea e dirige la rassegna CO(N)SCIENZA, dialoghi fra arte e scienza.