Wonder Women
di Doralice Pezzola
È difficile, oggi, dire che cosa significhi essere femministe o femministi. Come accade per tutte le battaglie sociali di grandi proporzioni, il cui riverbero si propaga lungo i decenni come un gioco del telefono, i rischi di scivolare in stereotipi, fraintendimenti, banalizzazioni, sono elevatissimi. In un racconto che provi a dire cos’è il femminismo nel 2020, bisogna arrendersi all’idea che le conseguenze stesse del femminismo stanno annodate alle maglie del tempo, delle epoche e delle contingenze che l’hanno attraversato, più o meno facili da additare, frammentate nel meccanismo articolato di una civiltà, magari irrintracciabili nei circuiti ad alto voltaggio dell’evoluzione sociale.
Si può dire forse che il femminismo è un organismo complesso, una pratica di liberazione personale con aspirazioni collettive, che diventa la storia di uno scavalcamento di campo. Cioè quella tecnica cinematografica che concretizza il rovesciamento di prospettiva e disorienta lo spettatore, piazzandolo a vedere la scena da un’angolazione imprevista. L’angolazione, in questo caso, dell’altro femminile: il punto di vista di quella che nell’antica Grecia veniva percepita come la “razza delle donne” (génos guneikon). Le conquiste, le discussioni, le ore “peggiori” o “migliori” del femminismo – d’uguaglianza, della differenza, intersezionale… – diventano allora molto più che la storia di un movimento. Sono le radici di un albero cresciuto in una strada per la quale nessuno aveva previsto un albero, che hanno ribaltato i sanpietrini e ora si provano a riformulare la geografia di un pensiero.
Questo numero di 93% – Materiali per una politica non verbale racconta di quattro protagoniste della Storia che hanno operato questo ribaltamento in una corrispondenza vitale di pensiero e di prassi politica, viaggiando ostinate di battaglia in battaglia, con le loro convinzioni rivoluzionarie, fino ad arrivare nei luoghi più vivaci della discussione politica. In omaggio a quella caparbietà, ancora e sempre necessaria, questo numero vuole aprire uno spazio di memoria dove la loro esistenza possa circolare liberamente, magari, contagiosamente.
Quattro autrici contemporanee tracciano per noi i ritratti di queste vite formidabili, che assieme abbracciano il Novecento per intero: una linea immaginaria che parte dal 1845, anno di nascita della rivoluzionaria russa Olimpia Kutuzova, e arriva al 14 marzo 2018, data dell’assassinio dell’attivista per i diritti umani e politica brasiliana Marielle Franco. Al cuore di questo percorso, l’anarchica e filosofa Emma Goldman (1869-1940) e la scrittrice e critica Carla Lonzi (1931-1982). Quattro pensatrici che sono punti cardinali per l’esperienza di autodeterminazione femminile, ma anche per quella, più vasta, di un percorso di coscienza possibile per tutte le categorie della società.
Perché quattro e non quaranta o quattrocento? E perché proprio queste quattro? Nell’impossibilità di operare una sintesi davvero sensata nel mare vastissimo dell’attivismo politico dove le donne sono state protagoniste, abbiamo al contrario deciso di lavorare in modo rapsodico, saltando senza soluzione di continuità da un’epoca all’altra, da una nazione all’altra, da una prassi all’altra. Nella speranza che la disomogeneità si trasformi in un faro su una pluralità per sua natura frastagliata e non sintetizzabile.
Martina Guerrini ci porta dunque nella Russia del secondo Ottocento, in cui Olimpia Kutuzova si ritrova nel mezzo di una stazione con una cinta di dinamite legata in vita, terrorizzata da una strage non voluta che potrebbe essere accidentalmente innescata da una tempesta in corso.
Carlotta Pedrazzini racconta la vita rocambolesca di una delle figure centrali del movimento anarchico negli Stati Uniti, Emma Goldman, i cui argomenti risultano tristemente ancora attuali: «accusava il matrimonio di imprigionare le donne, si esponeva in favore della contraccezione e della maternità consapevole, della libertà sessuale e dell’autodeterminazione, del controllo delle nascite e del “diritto dei bambini a non nascere”».
La penna di Valentina Cipullo Callegarini dà vita a un saggio critico che coglie l’impressione particolare e il fondamentale contributo culturale di una donna come Carla Lonzi, per ribadire «che non basta organizzare una manifestazione al femminile per compiere un atto femminista. Che è obsoleto e mortificante continuare a parlare di artiste donne e non di artiste e basta. Che la questione della donna ha bisogno di luoghi e occasioni e che deve essere approfondita».
Infine, Valeria Ribeiro Corossacz scrive della vita e della battaglia di una delle figure-simbolo più forti dell’emancipazione dalle strutture normative: Marielle Franco, con la sua storia «nera, lesbica, favelada e con un profilo dichiaratamente femminista», che forse più di chiunque altro «ha incarnato questa pratica di resistenza portandola dentro uno spazio istituzionale e mediaticamente visibile, composto tradizionalmente da bianchi, uomini eterosessuali di classe media».
Perché, in un mondo in cui si è già detto tutto sul femminismo, in cui si è straparlato di femminismo, dedicare un numero a una costellazione di donne cara a questa lotta? Progettando questo approfondimento ci siamo chiesti se, e come, fosse possibile sfuggire quell’ottica che ha fatto del femminismo un trend, madre di quel fenomeno che è stato battezzato pinkwashing (da “whitewashing”) – dove il potere strizza l’occhio alle insorte, assorbendone le rivendicazioni in operazioni di facciata.
Non sappiamo se ci siamo riusciti, ma pensiamo che, ad ogni modo, tutti noi abbiamo ancora bisogno del femminismo. Ne abbiamo bisogno se i processi di rimozione dell’alterità e di introiezione delle dinamiche di potere rimangono all’opera, occulti e insidiosi, in tutti i Paesi del mondo, come dimostrano le statistiche fornite da Unicef all’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico, secondo cui 27% è la media mondiale delle donne (28% quella degli uomini) a ritenere giustificato un marito che, in alcune circostanze, picchi la moglie.
Ne abbiamo bisogno se, a Roma, un istituto come la Casa Internazionale delle Donne non vede riconosciuto il suo valore storico, pratico e simbolico e rischia di scomparire per uno sfratto del Comune; se, digitando sex robots in un motore di ricerca, i primi risultati sono siti per acquistare robot “sessuali”, dotati di intelligenza artificiale, dalle fattezze femminili grossolanamente stereotipate; e se uno fra i siti pornografici più utilizzati al mondo, quale è Pornhub, fa affari con la compagnia GirlsDoPorn, condannata al risarcimento di ventidue giovani donne convinte sotto intimidazione a prendere parte a filmati pornografici.
Per queste e per molte altre ragioni il femminismo vive oggi nella discussione politica, e non ha esaurito la sua missione. Anzi, quella missione si è moltiplicata e ha voluto nel tempo farsi carico di altre istanze a tutta prima diverse, eppure intimamente affini, di rimodulazione dei confini identitari, dei limiti – di genere, ma non solo – che ci definiscono come individui. Oggi, il femminismo prova a dare lotta alle diversificate declinazioni della violenza. Una violenza che si esprime, sul piano del pensiero, con le imposizioni e le pressioni sociali ed economiche che stanno alla base non soltanto delle disparità fra i sessi, ma della disuguaglianza nel suo senso più ampio. Il femminismo che vediamo dispiegarsi in questi anni non prende voce soltanto per/dal nutrito gruppo delle donne (e di alcuni uomini) votate alla causa, ma annovera fra le sue compagini tutte quelle nuove categorie di genere e orientamento sessuale nelle quali sempre più persone hanno avuto la possibilità di riconoscersi negli ultimi decenni – così accade, ad esempio, fra le fila del movimento italiano Nonunadimeno. Se il femminismo vive oggi, è perché le domande a cui risponde si modificano nel tempo, e perché si confronta con un mondo le cui dinamiche di potere sono in costante evoluzione.
Il titolo di questo numero è quello scelto da A.L.D.E.S. per la sua rassegna di danza, teatro, musica, cinema e incontri realizzata con il patrocinio e la collaborazione dei Comuni di Lucca e Capannori lo scorso autunno. La rassegna è dedicata alle «danzatrici, attrici, registe, coreografe, drammaturghe, studiose e pensatrici che, nella inevitabile parzialità delle scelte, intendono rappresentare la sterminata ricchezza dell’apporto femminile al mondo della cultura».
La redazione di 93% è attualmente composta da me e dal direttore Graziano Graziani. Vista la tematica del numero con piacere firmo questo (mio primo) editoriale, per far seguito al progetto comune di mantenere i contributi tutti di segno femminile.