Tornare a parlare di Carla Lonzi

di Valentina Cipullo Callegarini

Carla Lonzi, Fondo Carla Lonzi – Galleria Nazionale d Arte Moderna e Contemporanea di Roma

Parlare di Carla Lonzi (1931-1982) oggi è necessario e complicato. Necessario perché le sue riflessioni, ancora troppo poco indagate, sono, a distanza di quarant’anni, un luogo prezioso in cui fermarsi per elaborarne di nuove. Complicato perché la sua vita, divisa a metà tra mondo dell’arte e femminismo, ha prodotto giudizi che separano in due il suo percorso. Come se il 1970, anno dell’abbandono della professione di critica d’arte e fondazione del gruppo femminista Rivolta Femminile, avesse delimitato entro confini geografici e temporali due esperienze e due pensieri inconciliabili. Come se un’esistenza potesse essere divisa in due. Doppiamente complicato perché il suo percorso è pieno di contraddizioni, è incerto, è continuamente alla ricerca di un’autenticità, in sé e negli altri, intrinsecamente impossibile da raggiungere. Ma è proprio grazie a questa incessante ricerca che non teme il fallimento, tesa allo scardinamento di modelli dominanti, aggressivi o banalmente stanchi, che Lonzi ci ha lasciato in eredità una delle posture teoriche più interessanti del secolo scorso.
Nata a Firenze nel 1931, e laureata in Storia dell’arte con Roberto Longhi con una tesi sui rapporti tra la scena teatrale e le arti figurative, Carla Lonzi «è stata critica d’arte nel senso della scoperta, della selezione e del rapporto personale», come lei stessa volle presentarsi nella nota biografica ad uno dei suoi ultimi contributi scritti. Costantemente in viaggio tra Roma, Milano e Torino, segue quell’insegnamento longhiano che definisce “il viaggio” come prima metodologia di lavoro. Ed è nella città sabauda che nascerà la collaborazione fondamentale con la Galleria Notizie di Luciano Pistoi – tra 1960 e 1969 – per la quale inizialmente elaborerà i testi dei cataloghi per poi contribuire alla costruzione del programma. Si consolida così una frequentazione diretta con gli artisti che sarà cruciale nel suo percorso intellettuale.
Nell’articolo La solitudine del critico, pubblicato nel dicembre del 1963 sulla terza pagina dell’«Avanti!», definisce quella del critico «un’attività tutta da inventare» gettando le basi per l’elaborazione di un nuovo modo di pensare la critica d’arte che maturerà in quel gesto radicale, e apparentemente definitivo, dell’abbandono della professione nel 1970.

«Nella misura in cui il critico, abituato ai privilegi istituzionali, si illude di una veggenza e di una facoltà particolare di coordinamento dei dati della realtà, che lo immunizzino dalla continua perdita di controllo della situazione […] compie un gesto angosciato e angosciante. Se è vero che proprio nella scienza il metodo dell’incertezza, reso necessario dall’indefinito moltiplicarsi delle variabili, ha sostituito i postulati dogmatici di un tempo […], la critica d’arte ha mantenuto, e esteso alla contemporaneità, criteri di assolutezza idealistica veramente controtempo. […] La fortuna del critico militante appare ormai interamente affidata alle risorse di un ambito e di una vicenda personale di sforzo e di penetrazione in vista di una verità personale da raggiungere».

Un ripensamento della critica fondato sull’incertezza e sull’esperienza individuale che porta delle eco vertiginose in quelle Istruzioni sulla critica letteraria formulate in forma epistolare da Emanuele Trevi, trent’anni più tardi. Una prospettiva che si allontana dai metodi interpretativi e operativi tradizionali e che conduce necessariamente a un ripensamento dei linguaggi. A partire da questo momento, infatti, Carla Lonzi sperimenta e mette in pratica nuove forme di articolazione di discorso attraverso la scrittura, il silenzio e l’immagine. Contributi discreti, a volte invisibili, coerenti con quella volontà di ridefinizione dei rapporti di potere tra critico e artista. Un tentativo di sottrazione di autorità che compie in primo luogo su se stessa. Per la mostra Accardi Castellani Paolini Pistoletto Twombly del 1965, alla Galleria Notizie di Torino, il suo intervento è circoscritto a un’immagine che la ritrae in uno degli specchi di Michelangelo Pistoletto e che riflette altre tre figure: l’artista, il gallerista e la fotografa che sta scattando l’immagine. Una scelta che elude la scrittura e che rende esplicita e centrale l’invisibile rete di relazioni alla base di quel progetto creativo. Nel 1970, anno della fondazione del gruppo Rivolta Femminile, viene invitata da Luciano Fabro a intervenire nelle pagine di due importanti cataloghi: quello per la mostra Amore mio, curata da Achille Bonito Oliva, in cui Lonzi firmerà la riproduzione fotografica delle pagine del Dictionnaire de sociologie fouriérienne, un catalogo della questione femminile illustrata secondo il filosofo francese Charles Fourier. Mentre per Processi di pensiero visualizzati, mostra al Kunstmuseum di Lucerna, fa stampare, a margine delle riproduzioni delle opere di Fabro, alcuni estratti del Manifesto di Rivolta Femminile, redatto nel luglio dello stesso anno assieme a Carla Accardi ed Elvira Banotti. Sono anche gli anni in cui abbandona carta e penna e accende il registratore. Un gesto che sottende un implicito fondamentale, quello di una relazione costruita nel rapporto e nella prossimità con l’altro. Per i famosi Discorsi, comparsi sulle pagine di «Marcatré», prima trascrive le conversazioni avvenute con alcuni artisti, poi decide di non intervenire, o meglio di obliterare la sua presenza. Nei Discorsi con Pino Pascali, pubblicati sulla rivista nel 1967, il suo spazio d’intervento è eloquentemente riempito da silenziosi puntini di sospensione. Al 1969 risale Autoritratto, il suo lascito più noto. Un libro che prende la forma di un “convivio” costruito a partire dalle trascrizioni delle conversazioni tra Lonzi e quattordici artisti tra i più noti nella scena artistica italiana degli anni’60: Carla Accardi, Getulio Alviani, Enrico Castellani, Consagra, Luciano Fabro, Lucio Fontana, Jannis Kounellis, Mario Nigro, Giulio Paolini, Pino Pascali, Mimmo Rotella, Salvatore Scarpitta, Giulio Turcato, Cy Twombly.

«A me personalmente cosa mi attrae nel registrare? Mi attrae proprio un fatto elementare: poter passare da dei suoni a una punteggiatura, a uno scritto, trovare una pagina che non sia una pagina scritta, ma sia una pagina che… Insomma, come nei processi chimici, quando c’è la condensazione… che da un suono si condensa in segno, ecco, come da un gas va in liquido».

I dialoghi sono assemblati in una struttura apparentemente libera e non lineare e conservano tutte le caratteristiche del linguaggio orale. Un montaggio serrato che privilegia una forma incerta, che sfugge parzialmente al controllo. Un concerto a più voci che abbraccia suoni, incertezze ed errori. Che incarna tutta la bellezza e la pericolosità dell’estemporaneità, tanto che Getulio Alviani, riferendosi a questa esperienza, dichiarerà di conservarne un ricordo traumatico. A differenza dei Discorsi, infatti, le trascrizioni che confluiscono in Autoritratto non sembrano essere state alterate e trattengono del linguaggio parlato tutta una serie di «scorie», per impiegare il termine usato che Germano Celant che, con l’articolo Per una critica acritica, comparso sulla rivista «NAC» nel 1970, fa tacitamente di Autoritratto una delle recensioni più entusiaste. Per evidenziare il processo di allontanamento da un linguaggio tradizionale, Lonzi include all’interno del libro anche il non-intervento dell’artista americano Cy Twombly:

«Le domande rivolte a Twombly sono del ’62: erano scritte, e risentono ancora di un mio precedente atteggiamento verso l’artista. Per una casualità, forse, Twombly non rispose, ma mi è venuto in mente di metterle nel libro sia perché il suo silenzio mi aveva fatto, comunque, riflettere, sia perché portano un’eco, anche graziosa, di linguaggio accademico».

Azioni che nascono dalla volontà di infrangere l’asimmetria implicita nei rapporti di potere tra critico e artista. La destituzione dell’autorità del critico prende forma nella volontà di sottrarsi al compito di mediare l’opera per conto dell’artista attraverso un’interpretazione che ne proponga e imponga un senso. È l’artista stesso il solo a poterla intraprendere riunendo così, in un’ideale comunione, il momento artistico e critico insieme.

«In questi anni ho sentito crescere la mia perplessità sul ruolo critico, in cui avvertivo una codificazione di estraneità al fatto artistico insieme all’esercizio di un potere discriminante sugli artisti. Anche se non è automatico che la tecnica della registrazione, di per sé, basti a produrre una trasformazione nel critico, per cui molte interviste non sono altro che giudizi in forma di dialogo, mi pare che da questi discorsi venga fuori una constatazione: l’atto critico completo e verificabile è quello che fa parte della creazione artistica».

La sospensione di un giudizio è il nucleo attorno al quale si irradiano le speculazioni di Carla Lonzi in questi anni e dal quale partire per formulare nuove ipotesi operative. Una preoccupazione che in Italia ritroviamo nelle pagine di Italo Calvino, dal suo saggio Il midollo del leone, apparso sulla rivista «Paragone» nel 1955, fino a Lezioni americane lasciato incompiuto per la scomparsa dello scrittore nel 1984. Tema che Susan Sontag svilupperà criticamente in Contro l’interpretazione. Una silloge di testi, tradotti e pubblicati in Italia nel 1967, in cui la filosofa americana sosteneva che «in una cultura dove il problema ormai endemico è l’ipertrofia dell’intelletto a scapito dell’energia e della capacità sessuale, l’interpretazione è la vendetta dell’intelletto sull’arte».

Nel 1970 Carla Lonzi abbandona la professione di critica d’arte per dedicarsi al femminismo e al gruppo di Rivolta Femminile che si vuole fin da subito progetto culturale più che politico. Con Scritti di Rivolta Femminile, la casa editrice collegata al gruppo, Lonzi pubblica il primo titolo, Sputiamo su Hegel, seguito l’anno dopo da La donna clitoridea e la donna vaginale, «due momenti teorici di contestazione della cultura maschile» che circoleranno tra i gruppi femministi, non solo italiani ma anche europei. Ma lo sguardo verso il mondo dell’arte non è affatto sopito. Lo scritto Assenza della donna nei momenti celebrativi della manifestazione creativa maschile, del 1971, documenta proprio «questo passaggio alla ricerca di contenuti propri» centrati sulla questione dei rapporti di potere nell’ambito artistico. E le riflessioni rivolte all’arte, alla cultura, e ai suoi protagonisti saranno numerosissime all’interno delle milletrecento pagine di Taci, anzi parla. Diario di una femminista, pubblicato nel 1978. Diario che documenta gli anni tra il ’72 e il ’77 e in cui Carla Lonzi tocca i numerosi punti della propria vita, sviscerati e ricomposti all’interno della pratica dell’autocoscienza. E se da un lato Taci, anzi parla si presenta come racconto del percorso di scoperta e liberazione all’interno del movimento femminista, Lonzi non teme di omettere criticità e insoddisfazioni rivolte proprio al gruppo che lei stessa aveva contribuito a fondare.

«Mi ha telefonato Nicola da Roma. Le ho detto che sono pronta a spiattellare che il femminismo è sfociato in una bolgia di rivalità. Perché la facciata edificante che cerchiamo di mantenere con l’esterno è una menzogna insostenibile [22 novembre 1974]».

In nome di quella inarrestabile ricerca di autenticità, Carla Lonzi testimonia, ancora una volta, quella volontà di non cedere al compromesso di negoziare una verità personale che non teme il conflitto e la polemica. Non teme neanche la contraddizione. Il femminismo, così come il mondo dell’arte, può essere allora difeso e poi criticato. Addirittura abbandonato. Ma più che di abbandoni si tratta di allontanamenti. Prese di distanza per continuare ad aderire. Per continuare a riflettere, ma da una prospettiva diversa. Così può essere letta la scelta di lasciare la professione di critica d’arte nel 1970; quella di allontanarsi per qualche mese da Rivolta Femminile nel 1973; o quella di separarsi per un’estate intera dal suo compagno e artista Pietro Consagra nel 1980, dopo vent’anni di relazione.

«Sono stato attratto dal magnetismo di Carla. La polemica, gli attacchi, le difese, i sensi di colpa, la curiosità intellettuale, l’affetto, la stima, la paura, la rabbia, il rigetto, il legame, si avvoltolano in tutti gli angoli della nostra vita».

Nel 1980, anno in cui Pietro Consagra pubblicherà la sua autobiografia, Vita mia, edita da Feltrinelli, Carla Lonzi risponderà con Vai pure. Dialogo con Pietro Consagra, la trascrizione delle conversazioni svoltesi nell’arco di quattro giornate tra lei e il compagno e che Lonzi definirà come «riepilogo di una relazione sui punti inconciliabili di due individui che sono due culture». Un riepilogo che segnerà un epilogo, ma solo temporaneo. D’altra parte Vai pure non è solo la scelta di rendere pubbliche le divergenze di una coppia, di un uomo e una donna, di compiere «un gesto d’intervento che rompe l’omertà del rapporto tra i due», ma segna anche quella «ripresa del desiderio» nel voler tornare all’arte e nell’indagare l’artista. Un artista. Pietro Consagra. Un ritorno al passato che si materializza nel gesto di riaccendere il registratore dopo dieci anni. Dopo quell’ultima volta, cioè, in cui lo aveva usato per Autoritratto (1969). E non è un caso se sulla copertina di Vai pure ci sarà una foto che ritrae la coppia assieme a Mario Nigro, Giulio Paolini e Saverio Vertone, tutti protagonisti di quell’esperienza così fondamentale.

«E il fatto che questa attività che svolgo io [nel femminismo] in definitiva si basa sul rapporto umano, sulla conoscenza reciproca, sulla demolizione proprio del mito culturale del protagonista. Si basa sul far vedere che le cose si svolgono sempre attraverso un dialogo, che le verità sono sempre in un rapporto».

Quella di Carla Lonzi è stata una figura a lungo ignorata. Il suo abbandono della professione, a lungo percepito dal mondo dell’arte come un tradimento. Le criticità mosse nei confronti di Rivolta Femminile, taciute per tramandare un’immagine senza macchia di una delle capofila del movimento femminista in Italia. Il fatto che Lonzi, durante la sua carriera di critica d’arte si fosse occupata di una sola artista donna, Carla Accardi, continua a creare imbarazzo in chi porta avanti una ricerca e una pratica in chiave sessuata. Forse perché le posizioni di Carla Lonzi non sono state comprese in profondità. Forse perché si commette l’errore di volerle forzare dentro nuovi schemi, rigidi quanto quelli che Lonzi aveva cercato di infrangere a tutti i costi in passato. Ma quello su cui Carla Lonzi può aiutarci a far riflettere è che non basta organizzare una manifestazione al femminile per compiere un atto femminista. Che è obsoleto e mortificante continuare a parlare di artiste donne e non di artiste e basta. Che la questione della donna ha bisogno di luoghi e occasioni e che deve essere approfondita. Che l’arte e la cultura possono essere i luoghi privilegiati per compiere questa operazione, ma non necessariamente. Che si può decidere di farlo in altri luoghi o di non farlo affatto se questa verità non è la nostra. Che il rifiuto, la contestazione e la critica possono diventare un momento costruttivo e creativo e devono essere esercitati e pretesi.

L’esiguità degli studi su Carla Lonzi ha sicuramente favorito una semplificazione nell’analisi del suo articolato percorso e pensiero. Tra i motivi di un mancato approfondimento, ha giocato un ruolo fondamentale la difficile accessibilità e reperibilità dei testi, molti dei quali sono stati resi nuovamente disponibili – con un lodevolissimo lavoro da parte della casa editrice Et al./ di Milano – solo a partire dal 2010, a seguito di quel convengo tenutosi a Roma alla Casa Internazionale delle Donne, nel marzo dello stesso anno. Per la stessa casa editrice, Laura Conte, Laura Iamurri e Vanessa Martini hanno compiuto un’incredibile iniziativa editoriale che ha portato alla costruzione di Scritti sull’arte. Un volume che mette insieme tutti quegli interventi firmati da Lonzi di difficile accessibilità, e comparsi principalmente su cataloghi, riviste, quotidiani e periodici, che costituiscono il corpus principale della sua produzione, a partire da quel primo articolo comparso su «Paragone» nel 1955 e scritto a quattro mani con la collega Marisa Volpi.
È triste constatare come oggi anche queste edizioni siano quasi introvabili, ad eccezione di Autoritratto, ripubblicato in Italia nel 2017 dalla casa editrice Abscondita. Il pericolo è che la riscoperta di Carla Lonzi venga presto risucchiata da un secondo oblio. Si rischia di dimenticare, così, il suo importante contributo nel dibattito culturale, il cui apporto è ancora attuale e fecondo per indagini future e in divenire. L’apertura del suo archivio, acquisito dalla Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma nel 2018, porta con sé l’auspicio che gli studi su Carla Lonzi continuino e si moltiplichino. Il suo ultimo intervento scritto comparirà nel prestigioso catalogo della mostra Identité italienne curata da Germano Celant al Centre Pompidou di Parigi nel 1981. Chissà quante altre cose avrebbe potuto dirci se non si fosse spenta appena un anno più tardi, lasciando in eredità un breve ma densissimo sguardo.

 

Valentina Cipullo Callegarini

Valentina Cipullo Callegarini è laureata in Storia dell’Arte alla Sapienza di Roma, e sta conseguendo una seconda laurea specialistica in Italianistica presso l’università Sorbonne Nouvelle di Parigi con una una ricerca su Carla Lonzi e, più precisamente, sull’opera Vai pure. È la curatrice del project space La Plage, co-fondato a Parigi nel 2015, che fino ad oggi ha ospitato una ventina di mostre con artisti internazionali nati tra gli anni ’80 e ’90. Altri progetti sono stati presentati presso Komplot a Bruxelles, ZKM a Karlsrhue, Material a Città del Messico e Paris Internationale, Parigi. La sua ricerca gravita attorno a pratiche artistiche che impiegano discorsi e linguaggi liminali e non ufficiali. 

laplage.org