Una questione di prospettiva
di Graziano Graziani
Lo sciamanesimo, antica pratica di connessione col mondo degli spiriti attraverso stati di trance, è un termine “ombrello” che cerca di descrivere una serie di riti e pratiche diffuse in regioni del mondo diverse e lontane tra loro, che presentano una serie di caratteristiche comuni ma anche moltissime varianti specifiche di ogni cultura. A differenza delle pratiche nostrane, collocate nel tempo nella sfera stigmatizzante della superstizione a causa del processo di secolarizzazione, lo sciamanesimo gode tutt’oggi di un fascino e di una possibilità di interrogazione anche da parte di chi si colloca nella sfera del razionalismo più intransigente a causa della sua dimensione ancestrale, che lo inserisce in un contesto simbolico con il quale non possiamo non fare i conti. Quel contesto è quello della crisi ecologica, le cui dinamiche si intrecciano a quelle del pensiero occidentale che ha concepito l’essere umano come separato dalla natura, che può diventare oggetto di manipolazione, sfruttamento e arricchimento senza limiti. Quei limiti invece esistono e non soltanto perché, come recita uno slogan divenuto popolare, non è possibile consumare risorse all’infinito in un pianeta finito, ma anche perché uno studio più approfondito della biologia e degli ecosistemi suggerisce – questa volta da una prospettiva scientifica – che ogni vivente è parte di un tutto, l’ecosistema, da cui dipende, rispetto al cui si adatta, separato nettamente dal quale finisce pian piano per deperire. Questa rinnovata consapevolezza crea una convergenza tra il moderno pensiero scientifico e l’antico pensiero nativo che ha, per di più, un effetto politico: ridare voce alle popolazioni native, rimaste marginali rispetto ai processi produttivi e di globalizzazione, alle quali era stata tolta proprio in funzione di un’espropriazione delle terre su cui esse vivono, per meglio sfruttarne le risorse.
È così che in campo antropologico il pensiero nativo torna a essere indagato con prospettive non solo squisitamente etnografiche, ma anche alla luce di questo intreccio che ci fornisce strumenti concettuali per affrontare le crisi epistemologiche del presente, in una prospettiva che diventa immediatamente politica. D’altra parte però questo dialogo si porta appresso, volente o nolente, gli strascichi di un’altra forma di intreccio tra sciamanesimo e occidente che è quello intriso di new age già presente negli anni della controcultura e giunto, in chiave rinnovata, fino all’oggi – una prospettiva di appropriazione che è sempre dietro l’angolo quando si estrapolano pratiche e saperi dai propri contesti. Se della prima prospettiva parlano un antropologo come Andrea Staid e un ricercatore che indaga i rapporti tra filosofia e scienze della natura come Paolo Pecere, la seconda viene raccontata da un autore come Stefano De Matteis, che senza disconoscere l’importanza di questo processo prova a mettere in guardia sulle derive che riportano questo intreccio alle forme di consumo occidentale. Chiude questo numero di «93%» un’indagine di Martina Mantovan sull’intreccio tra letteratura e cosmologia amazzonica.
Questo numero della rivista, che è in diretta connessione con il numero di aprile 2023 sugli “animismi contemporanei”, prova quindi a interrogarsi su una prospettiva eco-antropologica – come la definisce Andrea Staid – cercando di fare i conti con un tempo che è allo stesso momento «sistematico e caotico» e ricco di storie «discordanti e sovrapposte», come dice nel suo pezzo Stefano De Matteis. Senza però tralasciare le applicazioni pratiche che una tale prospettiva può aprire anche nel nostro sistema di pensiero, a partire dal diritto: nel 2008, ad esempio, l’Ecuador è stato il primo a riconoscere la Pachamama – la madre natura venerata dai popoli andini – come soggetto di diritto, introducendo ben quattro articoli nella sua carta costituzionale a difesa dei suoi diritti. Tra questi il diritto al rispetto integrale della sua esistenza, al mantenimento e alla rigenerazione dei suoi cicli vitali.