Un presente sistematico e caotico

di Stefano De Matteis

Davi Kopenawa Yanomami viene sollevato nel centro del villaggio Xihopi, Terra indigena Yanomami, nello Stato di Amazonas. Foto di Christian Braga/ISA. Fonte: https://www.socioambiental.org
Davi Kopenawa Yanomami viene sollevato nel centro del villaggio Xihopi, Terra indigena Yanomami, nello Stato di Amazonas. Foto di Christian Braga/ISA. Fonte: https://www.socioambiental.org

«I bei vecchi tempi di vedove bruciate e di cannibalismo se ne sono andati per sempre», scriveva sornione anni fa Clifford Geertz. E la lista potremmo aggiornarla con la sparizione dei tagliatori di teste e con le tarantate che non sono più quelle di una volta… tempi grami per gli antropologi.
Con il passaggio da una modernità, durata fino agli anni Settanta del secolo scorso, al suo mondo post, tutto è cambiato: le culture tradizionali sono cadute in disuso e questo, almeno in Italia, ci ha spinti nell’era della scienza, della medicina e dell’economia del benessere con produzioni dislocate in paesi lontani grazie ad accordi istituzionali lì dove le popolazioni sono più immediatamente sfruttabili. Si è aperta così un’era di nuove illusioni che ha governato gli ultimi decenni dello scorso secolo. Un sogno che si è rivelato un incubo con l’11 settembre, quando ci si è resi conto che l’idea di un mondo interamente omologato e piallato sulle ragioni della prosperità occidentale, così come la vulgata della globalizzazione diffondeva, era una fandonia. Solo che subito dopo ci siamo accorti che quella ricchezza così tanto decantata e aspirata si poteva sgonfiare come un palloncino, esattamente come è avvenuto con l’effetto a cascata dei subprime che dagli Usa hanno innescato l’ultima grande recessione occidentale. Come se non bastasse si è aggiunta poco dopo la pandemia ad aprire il terzo decennio di un secolo che non faceva che stupirci: quando – addirittura! – toccati con mano i limiti della medicina e della scienza, più di uno – a cominciare da un acuto scienziato sociale come Tim Ingold – ha auspicato il ritorno degli sciamani come nuova e alternativa ratio per sistemare le cose.
Certo la sanità nostrana, sempre più spinta verso il privato, ha fatto fatica a reagire a un evento parzialmente inaspettato e globale, le cui colpe in ogni caso non possono essere date al pangolino o al pipistrello: lo spillover è dipeso principalmente da noi che abbiamo invaso e devastato l’intero mondo ficcandoci negli angoli più sperduti della terra non lasciando tranquilli né l’uno né l’altro.
Nonostante tutti gli avanzamenti messi in atto della riflessione che mira ad abbattere la dicotomia tra natura e cultura, incentrata sulla profondità del prospettivismo e sul finalmente riconosciuto pensiero delle piante e della filosofia delle foreste, pur riscuotendo grande fascino, si sono rivelate troppo d’avanguardia e quindi ancora poco ascoltate (cfr. Staid, Essere natura, Utet). D’altro canto, sulla scorta della decolonizzazione e utilizzando il megafono della postmodernità, l’unica consolazione che ricaviamo da questo trambusto è il maggior rispetto che stanno meritando le voci dei nativi. Perché la loro voce si fa sentire. In un crescendo significativo.
Di quest’ultimo importante evento potremmo anche individuare la data di nascita che fonda «l’antropologia del “nativo” universale»: e la troviamo nello scontro – credo noto solo agli antropologi – tra la ricostruzione della storia del capitano Cook alle Hawaii elaborata da Marshall Sahlins (cfr. Isole di storia, Cortina) e la feroce opposizione di un antropologo nativo Gananath Obeseyekere (The Apotheosis of Capitan Cook, Princeton).
Siamo nel 1992 e il motivo del successo del libro di Obeseyekere, premiato anche con un importante riconoscimento, sta nel fatto che la voce del nativo è più “consapevole” di quella di uno studioso. Non perché fosse presente agli avvenimenti ma perché, in quanto nativo, respira un’aria di famiglia con gli hawaiani, pur essendo originario dello Sri Lanka. In quell’ultimo scampolo di secolo gli “indigeni” prendono la parola, si narrano, si rappresentano, si filmano… Una pratica che si diffonde e diventa capillare con il nuovo secolo.
Il postcolonialismo ha avviato e favorito la creazione di una sorta di movimento nativo, facendo sì che paradigmi di umanità un tempo costretti in angoli di mondo separarti e dislocati potessero affermare la loro presenza e la loro diversità, anche ricorrendo alle tecnologie digitali, in modo da mostrarsi, esprimersi, esporsi… innescando così uno slancio di autorappresentazione che grazie alla rete ha diffuso vari tipi di produzione artistica: letteratura, poesia, teatro, fotografia. E soprattutto cinema. Non è un caso, ad esempio, che la Mostra del cinema di Venezia abbia dedicato un evento speciale agli Yanomami, gruppo di nativi dell’Amazzonia che vanta una corposa cinematografia, nell’ultima edizione.
Ed è stato lo sciamano Davi Kopenawa, noto soprattutto per il suo impegno ecologista, a motivare e ispirare Morzaniel Iramari in film come Mãri Hi. The Tree of Dream, l’albero dei sogni. In quell’occasione il regista tiene a precisare il suo debito verso lo sciamano e, nello schema classico della voce indigena all’interno del più generale clima di rivendicazionismo, a puntualizzare che «quando i bianchi girano i loro film… lo fanno con la testa e non con il cuore: il risultato è debole, solo il nostro lavoro è forte e immediato». Un’affermazione simbolicamente significativa.
Se è vero che, come ci ha insegnato Sahlins, siamo in un’era “postologica”, veniamo dopo tutto e tutti e anche noi occidentali ci aggrappiamo all’io e al me senza spesso accorgerci di cadere nel ridicolo. Come nell’incontro con l’altro non si parla di lui, ma di cosa il ricercatore ha provato, delle sue sensazioni, impressioni e emozioni… E questo senza rendersi conto che la prima violenza che si compie nei confronti delle persone con cui facciamo etnografia è di deprivarli della loro specificità, molteplicità e varietà culturale. Della loro polifonica espressività.
E il lavoro dell’etnologo e dell’antropologia che ne deriva – nonostante la nostalgia tutta di testa di un passato glorioso fatto di popolazioni “selvagge” e di mondi cannibali – è sempre importante che produca (anche) la conoscenza dei nostri limiti, la comprensione del confine dei nostri saperi (cfr. Guidieri, Il cammino dei morti, Adelphi).
Dal terzo decennio del nuovo secolo ricaviamo la conferma che la globalizzazione si è realizzata solo sul piano economico e finanziario, mentre per quanto riguarda la sua vulgata e le sue idee dominanti si è constatato il quasi totale fallimento. D’altro canto abbiamo avuto la prova della resistenza e della perseveranza delle culture native: tanto nell’affermazione identitaria di mondi dislocati, quanto il rafforzamento grazie alle rimesse di coloro che lavorano in giro per il mondo. Assistiamo continuamente a come il potere del lì si accresce spesso mettendo in atto anche processi di indigenizzazione.
Sebbene sia ancora possibile trovare, nelle aule affollate da studenti ai primi anni di studi antropologici, chi ha la nonna o la zia che fa ancora «gli occhi», cioè conosce le regole tradizionali per far scomparire il mal di testa o per togliere il malocchio con tanto di piattino con l’acqua e le gocce d’olio così come viene descritto sessantacinque anni fa da de Martino in Sud e magia, oggi i più non ricorrono alle fattucchiere, altra merce rara, ma vanno dall’erborista, e cercano strade alternative che li guidino verso la natura, purché sia bio. La soluzione dei nostri mali è meglio cercarla in mondi esotici e “incontaminati”.
Ciò che viene particolarmente rivalutato è il lontano da noi, tanto nello spazio quanto nel tempo. La passione per il mondo arcaico è alla moda al punto che in una realtà piccolo borghese del benessere medio dell’italiano medio, ricco di sommelier e di masterchef, anche il vino più gettonato è quello di fattura «ancestrale», un prodotto che, come spiegano gli esperti, è stato immesso sul mercato neanche una decina di anni fa, proprio per dare un’ulteriore risposta alla domanda di mondi atavici e primordiali.
E in questa ripresa della soggettività esoterica non può mancare il personal coach in spiritualità: e proprio su questo tema la pandemia ha avuto la sua determinante influenza e così, indipendentemente da Tim Ingold, gli sciamani hanno conquistato un ruolo centrale.
Ma non mi riferisco di certo ai modelli classici siberiani o alto Uralici, che troviamo nei trattati di antropologia, e neanche quelli bistrattati da Diderot ne l’Encyclopédie. L’ultima ondata mescola il turismo esotico con l’aspirazione verso una natura che può accudirci e salvarci grazie alla sua capacità purificatoria. Se agli sgoccioli degli anni Settanta, dominati dalla solitudine postpolitica, si cercavano vie alternative nell’India di Siddharta, oggi si vive ancora nell’ombra lunga di Carlos Castaneda e dei suoi sciamani di carta. Infatti quelli che circolano in Italia si ispirano, si rifanno o hanno frequentato il vasto e variegato territorio amazzonico, tanto da prendere il sopravvento nella gestione delle esigenze spirituali attuali.
Se il lancio di queste pratiche risale alla metà degli anni Novanta ed è sostenuto inizialmente anche dal consumo di ayahuasca, dal 2022 questa sostanza è stata riconosciuta come allucinogeno, quindi i rituali sciamanici attuali hanno tutt’altra configurazione e nuovo pubblico (cfr. De Matteis, Gli sciamani non ci salveranno, Elèuthera).
L’importante comunque non sta in questi dati presi singolarmente, ma nell’interrogarsi sulle convergenze che nascono nel metterli assieme e che riguardano un problema più ampio e generale: i modi in cui l’Occidente si misura e si relaziona con un’alterità, in modo da individuare quella varietà di sintomi apparentemente indipendenti ma che l’antropologia classica ci insegna a mettere assieme, realizzando connessioni.
Se è vero che gli elementi di superficie permettono di capire la profondità delle cose, potremmo partire dal diffuso interesse per Tolkien e il Signore degli anelli nelle sue molteplici declinazioni, fino alla saga del maghetto Harry Potter che dalla seconda metà degli anni Novanta ha invaso l’immaginario collettivo. Che vanno a riempire quel portafogli di esperienze ricco, fatto di un tessuto di pratiche che in molti casi convivono e che prevedono il classico yoga, la cura dell’aura, le capanne sudatorie, la metapsichica, le percezioni extracorporee… fino alle forme di purificazione e di cura dove gli sciamani hanno un ruolo assolutamente centrale.
Il tutto costruisce un panorama e una strategia più ampia e articolata, con cui dobbiamo fare i conti.
Ho ricostruito di recente la storia di Alce nero, famoso sciamano Lakota che assisté alla battaglia di Little Big Horn, girò il mondo con Buffalo Bill spettacolarizzando i rituali indigeni, sopravvisse al massacro di Wounded Knee, fu pagato dai gesuiti per effettuare conversioni, dettò la sua biografia che alla pubblicazione ebbe scarso successo ma ristampata alla fine degli anni Sessanta impattò con i movimenti di liberazione, con l’opposizione alla guerra in Vietnam, con i movimenti nativi diventando un best seller internazionale. Oggi le montagne sacre del Dakota portano il suo nome. Ma in parallelo è stato anche avviato un processo di beatificazione per quanto ha fatto per la diffusione del cattolicesimo nelle sue terre. Intanto se lo cercate, lo trovate sugli scaffali dei supermercati perché è un noto marchio bio-naturista.
James Clifford qualche anno fa ha ricostruito la storia di Ishi, un «uomo selvaggio» che il 29 agosto del 1911 apparve alla civiltà. Il suo popolo, gli Yahi, era stato sterminato alla fine dell’Ottocento e lui come una sorta di Kaspar Hauser, era rimasto nascosto per quaranta anni. Il nome gli fu dato dall’antropologo cui fu affidato. Visse cinque anni, stroncato poi dalla tubercolosi che infestava la California. Ha lasciato registrazioni in una lingua ancora non del tutto comprensibile; è stato fotografato come “selvaggio” e come occidentalizzato. Dopo la morte fu fatto a pezzi e misurato. Il suo cervello finì alla Smithsonian Institution. La moglie dell’antropologo che l’aveva in cura ne narrò le gesta in un libro molto famoso.
È solo di recente che il suo corpo è stato ricomposto e seppellito nel suo territorio. Ma non è stato l’unico caso. La sua ricomposizione rientra in un movimento che prevedeva la richiesta delle spoglie di tutti coloro che la scienza aveva preso, sarebbe più giusto dire sottratto, per motivi di studio.
Alla storia di Alce nero e di Ishi, se ne potrebbe aggiungere un’altra: nel 1983 Frank Westerman, autore di ricerche non fiction, visitando un museo in un piccolo villaggio spagnolo, scopre in una bacheca di vetro un singolare pezzo d’esposizione: il corpo imbalsamato di un africano senza nome. È possibile dargli un’identità? L’autore ricostruisce una storia che parla di Europa, di razzismo e di uso simbolico degli sconfitti (cfr. El negro e io, Iperborea).
Tre storie molto diverse, tre epoche, tre sensibilità “culturali”. Oggi si dice che il nostro mondo sia nello stesso tempo “sistematico e caotico” e ricco di storie che sono al tempo “sovrapposte e discordanti”, esattamente come quelle di cui abbiamo fatto cenno.
Ad Alce nero la storia ha assegnato nel tempo un’identità multipla. El negro, diventa un monumento-monimento della storia europea. «La storia di Ishi non sarebbe mai stata riaperta – dice Clifford – e il suo corpo non sarebbe mai stato ricomposto, senza l’agency e la tormentata continuità degli indiani californiani» (cfr. Ritorni. Diventare indigeni nel XXI secolo). Le storie di questi personaggi, fino ad arrivare agli sciamani di casa nostra, ci mettono a confronto con un movimento molto più ampio, esteso e complessivo che costruisce un vero e proprio mercato delle identità locali e di cui non possiamo ignorare il ruolo che in questo hanno gli investimenti economici che spingono, motivano e incentivano alla “scelta” identitaria.
Arrivando all’oggi, ciò che rende possibili certe affermazioni (come quella yanomami), ma anche molti dei casi di restituzione materiale (come il cervello di Ishi), è il fatto che queste “etnografie” si inseriscono in un contesto in cui convivono le nuove forme dell’agency e le lotte “identitarie” degli indiani delle periferie più disparate del mondo, percorsi inediti di riconoscimenti collettivi e “pratiche della sopravvivenza” che prevedono capanne sudatorie transnazionali, danze del sole riambientate nella pianura padana, combinate a installazioni dove si scopre l’aspetto sciamanico di artisti come Joseph Beuys, unitamente a progetti in cui si finanziano programmi di rivalutazione dell’uncinetto su motivi tradizionali assieme all’affermazione dell’hip-hop più radicale e delle pratiche della burocrazia tribale…

 

Stefano De Matteis

Stefano De Matteis insegna Antropologia culturale all’Università degli Studi Roma Tre ed è professore invitato alla Pontificia Università Gregoriana. Ha fondato la casa editrice L’ancora del Mediterraneo dove ha pubblicato saggi e racconti di Gustaw Herling; ed è presidente dell’Associazione Gustaw Herling. Un mondo a parte, centro studi. Fra le sue recenti pubblicazioni: Le false libertà. Verso la post¬globalizzazione e Il dilemma dell’aragosta. La forza della vulnerabilità (2017, 2021).