Chi sono oggi gli sciamani?

di Paolo Pecere

Jacob Anthony Angeli Chansley, lo "Sciamano di QAnon", che nel gennaio 2021 fece irruzione a Capitol Hill
Jacob Anthony Angeli Chansley, lo “Sciamano di QAnon”, che nel gennaio 2021 fece irruzione a Capitol Hill. Fonte: Il Giornale

Visitando la Repubblica di Tuva, in Siberia, può capitare oggi di intravedere gruppi di giovani seduti intorno a uno sciamano, intenti a suonare dei tamburi. Quelle persone sedute possono essere abitanti del luogo che riscoprono una tradizione secolare, ma – come è capitato a una studiosa alcuni anni fa – possono anche rivelarsi una comitiva di turisti americani, venuti fin qui in cerca di esperienze straordinarie. La Siberia è la regione in cui ha avuto origine la diffusione moderna dello sciamanismo. Dopo il crollo dell’Unione Sovietica sono finite le persecuzioni antireligiose, che avevano fatto imprigionare molti sciamani in campi da lavoro, ed è iniziata una rinascita. Lo sciamanismo è divenuto anche motivo di orgoglio nazionale e obiettivo di viaggiatori che per lasciarsi dietro il disagio delle loro lontane città si dirigono senz’altro verso l’aspro clima della steppa. In una situazione del genere, oggi, in tutto il mondo gli sciamani affascinano e provocano un esercizio critico dello sguardo.
Cosa aspettarsi, infatti, quando si arriva al cospetto di uno sciamano? La reputazione degli sciamani è un tema controverso fin da quando, a fine Seicento, giunsero in Russia notizie di questi personaggi che si vestivano di pelli e sonagli, e andavano in trance battendo un tamburo, per incontrare gli spiriti degli animali, divinare, curare. La questione si è estesa insieme alla parola tungusa sciamano (saman), che è stata infine globalmente applicata a figure simili di altre e diversissime aree geografiche e culturali, al punto che alcuni studiosi preferiscono ormai evitarla. Chi sono dunque costoro? Ciarlatani, diceva il filosofo illuminista Diderot. Sapienti, replicava il romantico Herder. Malati di mente, affermavano diversi medici del secolo scorso; risolutori delle tensioni psichiche di un’intera comunità, replicò l’etnologo Shirokogoroff. Ancora oggi la figura dello sciamano assume abiti e valenze diversissime, dal difensore dell’ecologia e dell’autonomia indigena Davi Kopenawa allo statunitense Jake Angeli, complottista e sedicente sciamano che, credendo di lottare conto «le forze maligne e occulte» in nome di «Dio e dell’amore», si è lasciato ispirare dal miliardario negazionista Donald Trump nella sua battaglia contro le istituzioni democratiche.
In fondo queste ambivalenze segnalano che lo sciamano tocca una fragilità connaturata all’umano, che è ancora evidente nelle civiltà industriali: un profondo bisogno di orientamento e cura, a cui la razionalità e le tecnologie di una società sempre più frammentata non rispondono. Il bisogno implica anche il rischio che questa fragilità sia la faglia di una grave frattura: coltivare in sé illusioni senza beneficio, perfino essere ingannati e disorientati. Il mercato dell’industria turistica e della ricerca spirituale aumenta l’intensità di questo rischio, senza ridurre l’importanza e l’autenticità del problema, e del bisogno che lo muove.
Di fronte a questa situazione complessa, oggi, bisogna guardarsi da almeno tre rischi. Il primo è la rinuncia a un esame critico e privo di pregiudizi (sia negativi, sia positivi). La razionalità e la scienza non sono vie per la soluzione di tutti i problemi, ed è evidente che le società industriali contemporanee, benché profondamente innervate di razionalizzazione e tecnologia, hanno condotto a risultati negativi sul piano psicologico-sociale e distruttivi sul piano ambientale. D’altra parte, non liquidare lo sciamanismo con la sua pretesa di conoscenza e efficacia non vuol dire accoglierlo senza riserve e distinzioni. Bisogna svolgere un lavoro di esame e raccordo per far propria un’esperienza originata in altri mondi culturali e scenari. A questo scopo, si può ricordare che molteplici fili possono collegare le idee animiste e sciamaniche di popoli lontani con la nostra complessa tradizione filosofica, da Platone a Nietzsche. Senza dimenticare che l’etnologo Claude Lévi-Strauss, qualche decennio fa, colse una significativa analogia tra sciamani e psicoanalisti. Entrambi possono apparire – se sviluppiamo il provocatorio accostamento – persone esperte a cui ci si rivolge in cerca di soccorso e orientamento, di cui bisogna fidarsi senza una prova dell’efficacia dei rispettivi metodi.
Un secondo rischio è il tradizionalismo. Mircea Eliade, nello studio monumentale che riabilitò la dignità culturale dello sciamanismo – Lo sciamanismo e le tecniche dell’estasi (1951) – sostenne che gli antichi sciamani erano in fondo mistici, che con le loro trance e danze forsennate viaggiavano verso profondità e trascendenze metafisiche. Di quelle figure, nel mondo moderno, non sarebbero rimaste che tracce corrotte, figure decadute, che Eliade non esitava a disprezzare parlando di droghe come surrogato di una perduta capacità spirituale e imitazioni scimmiesche. Questo tipo di prospettiva esprime una nostalgia di una perduta esperienza arcaica, correndo il rischio di farne un mito. L’errore sta nel pensare che le tradizioni abbiano una fase di purezza aurorale poi perduta, come avveniva già secondo una credenza sulla sapienza superiore degli antichi che circolava in ambito cristiano molto prima di Eliade (ne erano persuasi Francis Bacon e Isaac Newton). In realtà, le idee e le pratiche sciamaniche si trasformano nella storia esattamente come gli altri tipi di complessi dottrinali e rituali. In mancanza di una chiesa e di codici scritti, anzi, quella variazione è ancora più rapida. Eliade consolidò il suo pregiudizio tradizionalistico col metodo: lavorava su testi, piuttosto che con incontri e indagini dal vivo. Come hanno chiarito sul campo Roberte Hamayon e altri etnologi, lo sciamanismo siberiano si occupava in molti casi di propiziare la caccia, e più in generale poi di divinare l’incerto e l’ignoto. Oggi la caccia è una pratica sempre meno diffusa tra i popoli con forti tradizioni sciamaniche, l’incertezza e l’ignoranza restano, ma rivolte soprattutto a altri campi. Tutto cambia, non degrada.
Il terzo rischio è l’esotismo. Si tratta di un esotismo primitivistico: l’errore di pensare ancora che queste civiltà, come i “selvaggi” di cui si parlava in etnologia ancora un secolo fa, posseggano mentalità irriducibilmente estranee alla nostra e alla nostra razionalità, come l’animismo. Questa contrapposizione un tempo giustificava un senso di superiorità imperialista, oggi spesso vuole significare all’opposto una rivalutazione di culture oppresse dalla colonizzazione rispetto a una civiltà industriale in crisi, che risultano preziose per la loro differente visione del mondo – un giudizio che si estende alle figure degli sciamani in esse riveriti. Ma questo modo di vedere le cose, a prescindere dalle intenzioni, nega un’evidenza: il fatto cioè che oggi gli sciamani, dall’Asia all’America meridionale, hanno spesso familiarità con idee e pratiche di origine europea, come l’economia, il diritto e la medicina, e sono molto interessati alla tecnologia industriale. Nelle mie esperienze di interazione, in Amazzonia e in Asia, questo è risultato evidente, e la dinamica storica che emerge dalle etnografie contemporanee tende a confermare questa tendenza. Certamente esistono ancora zone in cui il contatto e la trasformazione sociale sono ridotti, come tra i Dukha che ho visitato in Mongolia. Eppure, in prospettiva globale, stabilire una autenticità (o inautenticità) degli sciamani a seconda della loro distanza dal “mondo moderno” mi sembra il residuo di un pensiero di origine coloniale. Piuttosto, la soglia tra autentico e inautentico attraversa ciascuno di noi, sciamani e visitatori stranieri, e ci mette in gioco.
Al di là di questi errori, può esservi oggi un dialogo che tenga conto delle diverse tradizioni e lingue, di secoli di interazioni, degli interessi che le attraversano. È esemplare il caso delle popolazioni amazzoniche brasiliane, che in molti casi si richiamano alle proprie cosmologie e alle visioni sciamaniche per fronteggiare l’occupazione illegale e il genocidio. Così lo sciamano e portavoce indigeno Davi Kopenawa, reagendo all’invasione illecita del territorio del suo popolo Yanomami, costruisce un discorso “ecologico” di valore globale sulla protezione della foresta. Della sua sapienza sono parte integrante le visioni ottenute con le piante psicoattive, che attirano ormai un flusso costante di persone curiose o bisognose di cure ulteriori rispetto a quelle della propria medicina. Questo incontro può dar luogo a contraddizioni, come il fatto che Kopenawa biasima i valori del “popolo delle merci”, mentre le sue tradizioni diventano una nuova merce per l’industria turistica. Ma vi può essere anche un reciproco arricchimento: il rispetto per i viventi, tipico dell’animismo amazzonico, integra la scienza ecologica che prevede gli effetti del cambiamento climatico sulla sopravvivenza di diverse specie di animali e piante, e questo confronto ispira ricerche sociali e tecnologiche su modi di vita diversi. La stessa esperienza di dissoluzione transitoria dell’io, tipica della trance sciamanica, suggerisce una trasformazione dell’assetto ordinario dei soggetti umani, con le loro abitudini indotte dal sistema di vita ereditato nelle città moderne.
Il mutare del contesto, però, pone nuovi problemi. Gli sciamani ormai trafficano per le città, perfino in quelle di paesi diversi da quelli di origine, arrivano regolarmente anche in Italia. Questo per un verso è un mezzo per la rigenerazione di una tradizione altrimenti residuale e limitata alle aree rurali, per l’altro verso implica una ridefinizione profonda di compiti e metodi. Gli sciamani tradizionalmente hanno svolto i propri riti senza ricevere compenso, ma le regole della città sono diverse, e l’attrattiva economica ne modifica le motivazioni. Inoltre nelle società di massa la fragilità dell’individuo può produrre esiti straordinari. Lo intuì Ernesto de Martino, che si occupò di sciamani durante la Guerra, mentre lavorava al suo capolavoro Il mondo magico, e alcuni anni dopo paragonò Hitler a «un atroce sciamano». Anche il filosofo Ernst Cassirer, nel suo Il mito dello Stato (1946), rilevò che nella società di massa il totalitarismo e il ritorno al magico tendevano a intrecciarsi. Il riferimento a visioni e esperienze inaccessibili, l’espressione agitata del corpo, il carisma e i discorsi profetici fanno di quella faglia nascosta, e quindi incerta, tra autenticità e inautenticità dello sciamano un problema anche politico. Non deve stupire, allora, se nella Siberia di oggi la guerra sta condizionando anche le credenze popolari: la propaganda russa cerca di trasformare i rituali sciamanici in benedizioni delle truppe, invita a motivare i giovani, mentre il patriottismo è spesso di facciata, e alcuni sciamani hanno ripreso invece il ruolo di contestatori della potenza russa, finendo perseguitati.
Ecco il tipo di contesto e complessità in cui oggi dobbiamo esaminare questa figura ambivalente e multiforme, mettendo in gioco noi stessi. Prima di tutto non è sempre facile riconoscere il titolo di sciamano, e anche quando il suo investimento avviene in una comunità con una tradizione sciamanica, e perfino un riconoscimento istituzionale, il problema dell’autenticità non è del tutto esaurito. D’altra parte, come ha sottolineato Manuela Carneiro Da Cunha, lo sciamano è figura intrinsecamente polimorfa: un «traduttore», che «ricostruisce significati, stabilisce relazioni, tesse sottili connessioni». In ciò ha qualcosa del sacerdote, ma anche del poeta, dell’artista, dello psicologo, del politico carismatico; anche dell’antropologo: così si definì il payé che ho incontrato nella comunità Huni Kuin in Brasile, e che mi chiamò «collega», prima di officiare il rito in cui, bevendo il suo decotto psicoattivo, ho incontrato quella che lui chiama «la foresta incantata».
In questa complessa interazione tra gruppi sociali, bisogna riconoscere che lo sciamano interpreta bisogni profondi e valutarne le visioni e discorsi. Bisogna esaminarne pratiche e discorsi senza dotarli di assoluta verità, cosa che invece accade normalmente nei discorsi degli sciamani stessi («è così», è la clausola ricorrente nei discorsi di Kopenawa). Portiamo in noi l’esperienza della filosofia, del domandare: prendere per vera una rivelazione senza esercitare questa arte, nel mondo contemporaneo, è un rischio. La «paura della libertà» di cui parlava Carlo Levi – altro testimone della distruzione bellica verso cui si avviò l’Europa del secolo scorso – è ancora forte, e spinge ad affidarsi al fanatismo. Ciò che promette di salvarci, può perderci.
Al tempo stesso, gli esponenti di tradizioni che portano memoria di altre relazioni con l’ambiente meritano oggi di essere ascoltati con attenzione. Lo sciamano percepisce che apparteniamo a un mondo di agenti che non sono solo umani, spesso ha una sensibilità anomala e non è inserito pienamente nella vita sociale ordinaria. È figura di una crisi della civiltà, che può contribuire a costruire una visione futura, con nuovi abiti, oltrepassando immagini di repertorio dell’etnografia del passato. Connettendo con altri mondi, può aiutare a immaginarne uno futuro. In questo nuovo mondo, lo sciamano potrebbe apparire in vesti diverse dalle pelli sonanti che si indossano in Siberia: bisognerà saperlo riconoscere.

 

Paolo Pecere

Paolo Pecere insegna Storia della filosofia all’Università di Roma Tre. Si occupa dei rapporti tra filosofia, scienze della natura e psicologia nell’età moderna e contemporanea. Tra i suoi libri, La filosofia della natura in Kant (Pagina, 2009), Dalla parte di Alice. La coscienza e l’immaginario (Mimesis, 2015), Soul, Mind and Brain from Descartes to Cognitive Science. A Critical History (Springer, 2020) e i romanzi La vita lontana (LiberAria, 2018) e Risorgere (Chiarelettere, 2019).