Visioni sciamaniche nella letteratura del cosmo amazzonico

di Martina Mantovan

Donna indios dell'Amazzonia. Fonte: https://ilbolive.unipd.it
Donna indios dell’Amazzonia. Fonte: https://ilbolive.unipd.it

Esta es la luz de la vida yace en el centro
Del espacio del universo
Viaja a través de los cuerpos sin poder
De los entes que no dejan ver

(Cumbia de la fuente,
Meridian Brothers)

«Il bambino si confonde con la boscaglia, già lontano dalla riva e da noi, camminando senza rumore. Lo seguiamo in fretta, César e Insapillo si arrampicano davanti a noi aprendo il cammino con il machete. Io mi giro verso Ivan che si attarda: i suoi occhi mi confermano che il bambino è un inviato dello stregone degli stregoni. Stento a crederlo, poi mi convinco: l’inaccessibile, il leggendario Ino Moxo, Pantera Nera degli amawaka, ha acconsentito a riceverci» (1).

Seguire le tracce della letteratura sciamanica può sembrare, a un primo sguardo, un’inebriante avventura fatta di chiaroscuri, in cui potersi immergere per ritrovare un desiderio di autenticità originaria, nella ricerca solipsistica del godimento di una spiritualità occasionale e turistica.
Cosmogonie ctonie, riti ancestrali e misterici, mitologie e figure dalla religiosità opaca e multiforme, fanno sì che dello sciamanesimo si abbia spesso un ritratto parziale, sbiadito; di fatto più vicino alle filosofie new age che allo spessore ontologico e alla ricchezza e alla complessa radicalità della sua filosofia.
Nell’approcciarmi alla mia indagine, parziale e necessariamente limitata, ho cercato di circoscrivere il campo di studio e di mantenere sempre ben visibili all’interno della mia visuale le lenti con cui mi stavo affacciando sulla soglia di una dimora familiare, ma di cui mai potrei rivendicare l’appartenenza. Tenterò quindi di ricordarmi, e di ricordare al lettore, come monito, che tutto ciò che leggerà sarà frutto di tradimento, o di un sogno. Che le storie che indagheremo saranno storie figlie di una violenza, colonialista, suprematista e capitalista; ma saranno anche storie di vita, di morte, di sogni e di fantasmi. E d’amore; perché ogni storia d’amore è sempre anche una storia di fantasmi.

«Vista dal di fuori la foresta amazzonica sembra un ammasso di ribollimenti solidificati, un cumulo verticale di rigonfiamenti verdi; si direbbe che un ordine patologico abbia ovunque afflitto il paesaggio fluviale. Ma quando si rompe l’involucro e si penetra al di dentro, tutto cambia; vista dall’interno questa massa confusa diventa un universo monumentale. La foresta cessa d’essere un disordine terrestre; si potrebbe considerarla un nuovo mondo planetario, ricco come il nostro e che dovesse sostituirlo» (2).

Per seguire i romanzi sciamanici dell’Amazzonia dovremmo avventurarci lungo i corsi delle sue acque, affondando i piedi nei suoi fondali melmosi, per poi lasciarci trasportare dalle visioni, fumose e cangianti ai nostri occhi miopi e dualistici.
Il primo ad accoglierci, mentre ancora gli sciamani si nascondono tra il fogliame di queste parole, è Fitzcarraldo, che avanza verso di noi inondandoci con le note di Caruso e sovrastando il frinire degli insetti della selva.
Nel 1979, nell’Amazzonia peruviana, Werner Herzog decise di iniziare le riprese di Fitzcarraldo (3) (posticipate fino al 1981 a causa di un gruppo politico legato alla popolazione aguaruna – i cui antenati avevano respinto l’invasione inca prima e quella spagnola di Pizzaro poi – che ne impedì inizialmente le riprese). Nello stesso anno e nella medesima Iquitos – teatro dei sogni di grandezza del visionario protagonista herzoghiano – César Calvo dava alla luce un testo ibrido, sfuggente e fluido, come la materia che andava narrando: Les tres mitades de Ino Moxo (pubblicato in Italia da Feltrinelli con il titolo Le tre metà di Ino Moxo e altri maghi verdi (4) ).
Racconta Herzog che, anni prima, un amico che l’aveva aiutato a finanziare la produzione di Aguirre, furore di dio, gli propose di tornare nella giungla per girare un altro film. Al regista la prospettiva di tornare in quelle terre per replicare l’impresa non sembrava una condizione sufficiente: serviva una storia solida, uno spessore epico che potesse giustificarne la realizzazione. Venuto a conoscenza della vicenda personale di Carlos Fermín Fitzcarrald, un ricco cauchero vissuto a cavallo tra Ottocento e Novecento, a stimolare la fantasia del regista fu un dettaglio apparentemente irrisorio: Fitzcarrald una volta aveva smontato una barca, per trasportarla via terra da un fiume all’altro e rimontarla, successivamente, sull’affluente parallelo.
A conquistare Herzog fu dunque questa brama di sublime: il sogno, improbabile e immenso, di portare una nave sopra una montagna – impresa con cui il regista stesso dovette misurarsi. Conquistador moderno, Fitzcarraldo immagina di portare la Grande Opera nel paese sognante: un sogno, una visione, all’interno di un sogno partorito dalla mente di Dio in persona.

«[…] come è vero che sono qui, un giorno porterò la Grande Opera a Iquitos. Io sono l’Eccesso e il Soprannumero. Io sono l’Ultima Battaglia. Io sono i Miliardi. Io sono lo Spettacolo nella foresta vergine. Io sono l’Inventore del caucciù. Solo attraverso me il caucciù diventa Verbo» (5).

Di sciamani nell’opera di Herzog non se ne vede neanche l’ombra, o forse è proprio e solo quella che intravediamo, nascosta e dispersa dalla prepotenza valchiria: sono i flutti amazzonici a occultarne le fattezze, a custodirne lo spirito e a confonderne i tratti. Ma tra le righe e i fotogrammi di Fitzcarraldo avvertiamo non solo la presunzione mistica dell’impresa del predatore bianco, ma anche l’incommensurabile potenza dell’Essere amazzonico:

«Gli indios sono ossessionati quanto Fitzcarraldo. Mentre il suo sogno è di costruire un teatro dell’opera, loro vogliono liberarsi degli spiriti malvagi che abitano nelle rapide. È questa la ragione per cui lasciano andare la barca, facendola finire nelle rapide. Sono impegnati in una missione mitica, una missione che Fitzcarraldo stesso non capisce fino in fondo. Allo stesso modo, noi spettatori rimaniamo all’oscuro delle loro reali motivazioni e non comprendiamo mai davvero perché stiano lavorando così duramente e perché sopportino tutte le difficoltà legate al trasporto della barca sulla montagna. Solo quando tagliano le corde e la lanciano tra le rapide capiamo davvero. Sacrificando la barca, vogliono calmare gli spiriti malvagi che dimorano nelle rapide. Alla fine gli indios sono gli unici a realizzare il loro sogno. Loro vincono e Fitzcarraldo perde, sebbene lui in definitiva trasformi la sua sconfitta in un trionfo attraverso la potenza della sua immaginazione e del suo spirito creativo» (6).

Quando César Calvo decise di narrare la storia di Ino Moxo, sciamano amawaka, non si limitò a tratteggiare un ritratto, una testimonianza biografica, o un resoconto di viaggio spirituale, ma prestò la sua esperienza e capacità di scrittore per raccontare, attraverso le visioni provocate dall’ayawaskha a cui si affidò, le radici profonde dell’identità indigena e amazzonica. E per farlo si immerse nel fluire della storia, dei secoli e dei ricorsi vissuti e subiti dalle popolazioni indigene. Sovvertendo la linearità temporale per mostrare la compresenza delle epoche e degli eventi, César Calvo ci restituisce nella sua trattazione il verdadero Fitzcarraldo grazie a una realistica e tragica descrizione:

«Il giorno dopo, era il 9 luglio – commenta con amarezza Zacarías Valdez in un opuscolo pubblicato nel 1944, intitolato Il vero Fitzacarrald di fronte alla Storia – Fitzcarrald partì a bordo dell’‘Adolfito’. Dopo varie ore di navigazione, raggiunse le rapide del Mapilja, nel fiume Urumbamba. L’imbarcazione, che aveva la chiglia molto bassa, procedeva lungo la riva, a tutta velocità. Fu così che in prossimità di un gomito del fiume, invece di aprirsi a prua per seguire la corrente, continuò a navigare accostata alla riva e fu investita di fianco dall’impeto del fiume che le fece deviare la rotta. Il timoniere, un vecchietto che si chiamava Perla, manovrò in modo da raddrizzare l’imbarcazione, ma il timone sotto lo sforzo eccessivo si ruppe. Gli uomini dell’equipaggio rendendosi conto che il timoniere aveva perso il controllo della lancia, si tuffarono in acqua e si salvarono tutti ad eccezione di Fitzcarrald e del magnate del caucciù, il boliviano Vaca-Diez, che si trovavano nella cabina, ignari di quanto stava succedendo fuori, festeggiando il patto di unione delle loro società per sfruttare l’intera Amazzonia» (7).

La storia di Ino Moxo prende forma, procedendo per visioni, alle quali il narratore ci invita a prendere parte, in un percorso che mescola storia autobiografica e storia universale; una storia rizomatica che mette in discussione le coordinate dicotomiche e lineari del pensiero occidentale. Perché negli insegnamenti di Ino Moxo e degli altri sciamani verdi tutto è connesso e compartecipe del medesimo destino: il microscopico come l’incommensurabile sono parte di un unico corpo senziente, una natura comune regolata da un equilibrio fondato su principi di scambio e trasformazione. E in questa dinamica eterna lo sciamano ha un ruolo cardine:

«A differenza del “sacerdote” propriamente detto (kumú) che, al di là dei piccoli problemi magico-religiosi dell’individuo, si occupa di una sfera forse più vicina alle divinità che agli uomini, il payé è un uomo d’azione, perennemente in contatto con gli accadimenti della vita quotidiana del suo gruppo, che cerca di proteggere e di guidare. Egli è l’interprete della società, il suo rappresentante e portavoce di fronte alle forze soprannaturali. Nel sottile equilibrio tra produzione e consumo, tra ciò che la natura offre e ciò che la natura chiede, è il payé a disimpegnare continuamente il ruolo di mediatore» (8).

Qualità imprescindibile dello sciamano è quella di avere allucinazioni e visioni nitide e pregne di significato per la comunità tutta. Lo sciamano deve saper interpretare e comprendere il senso profondo del dialogo che intrattiene con la selva e tutte le entità che la popolano; così da poter perpetuare l’eterno ciclo vitale e alimentare il perdurare delle genealogie e dei miti fondativi.
In queste visioni Calvo si confronta con un mondo caleidoscopico di personaggi: dalle personalità storiche come Manko Inca, ultimo re quechua assassinato dagli invasori spagnoli, all’indomito Tupac Amaru, dal padre artista pittore al gigante bianco Julio Cortázar:

«Aníbal Tupayachi prese Julio Cortázar per mano e sorridendo se lo portò in mezzo alle rocce e lo condusse ai piedi dell’altare del Dio Puma, un impossibile fallo di pietra che divideva i cieli del Cusco. Colpito dalle storie di Aníbal Tupayachi, Cortázar passò vicino al semicerchio di sedili scolpiti nella pietra dove un tempo si riposavano i sacerdoti inka, le persone del Sole. Ugné Karvelis rimase al mio fianco, entrambi guardavano con gli stessi occhi l’immagine tenera del bambino quechua che guidava quel gigante bianco sotto il poncho nero, come se si trattasse di un fratello più fragile e più piccolo. Poco dopo, sula roccia rotonda, in cima al Tempio, ci apparvero i profili di Aníbal e di Julio, i loro lineamenti di bronzo radianti sotto la pace del sole» (9).

La reazione di Cortázar e Karvelis di fronte alla Fortezza Sasqsawmax (10), testa del Dio Puma, fondamenta di pietra della prima città di Cuzco, è quella dello stupore, lo sconcerto per l’inconcepibile, l’indicibile: come era stato possibile il trasporto, ma pure il movimento di quelle pietre maestose?

«Lo facevano cantando, gli disse Aníbal Tupayachi. I nostri antenati le muovevano con le canzoni, signore, con icaro, le canzoni magiche. Così, cantando, facevano viaggiare queste pietre gigantesche…» (11).

Questa prerogativa per il canto e l’oralità appare comune a tutte le comunità indigene del territorio amazzonico: dai Desana del Vaupés colombiano (raccontati da Gerardo Reichel-Dolmatoff in Il cosmo amazzonico (12) ) agli Yanomami del Brasile settentrionale di Davi Kopenawa e Bruce Albert (ne La caduta del cielo (12) ), tutti i discendenti del Serpente-Dio di ieri e di domani conoscono il potere reale delle parole, di quelle vive e tonanti, di quelle che dopo quattro secoli riportano il Cuzco nella selva, pietra dopo pietra, silenzio dopo silenzio, con icaros (14), i canti magici che smuovono l’impossibile. In entrambe le testimonianze sopracitate emerge la centralità della parola orale rispetto alla parola scritta, fissata e morta nei libri, definiti da Kopenawa pelli di immagini:

«Le parole degli xapiri sono fissate nel mio pensiero, nel profondo di me stesso. Sono le parole di Omama. Sono molto antiche e tuttavia gli sciamani le rinnovano senza sosta. Da sempre hanno protetto la foresta e i suoi abitanti. Oggi tocca a me possederle» (15).

«Le parole di Omama non possono essere distrutte né dall’acqua né dal fuoco. Non invecchieranno come quelle che rimangono attaccate su pelli di immagini fatte di alberi morti. Quando ormai non sarò più in vita da tempo, saranno sempre nuove e forti come lo sono adesso» (16).

Ma il canto che tutto comprende e tutto può è anche quello dell’utopia tradita, della rivalsa sempre rimandata della visione finale della Auxilio Lacouture di Amuleto di Bolaño:

«Ma io li sentii cantare, li sento cantare ancora adesso che non sono più nella valle, sottovoce, appena un sussurro quasi impercettibile, i bambini più belli di tutta l’America Latina, i bambini malnutriti e quelli ben nutriti, quelli che avevano avuto tutto e quelli che non avevano avuto niente, un canto delizioso esce dalle loro labbra, e deliziosi erano anche loro, una bellezza, anche se stavano marciando spalla a spalla verso la morte, li sentii cantare e mi sembrò di impazzire, li sentii cantare e non potei fare niente per fermarli, io ero troppo lontana e non avevo le forze per scendere a valle, per piazzarmi in mezzo a quel prato e dire a tutti loro di fermarsi, che stavano marciando verso una morte sicura. L’unica cosa che riuscii a fare fu alzarmi in piedi, tremante, e ascoltare fino all’ultimo respiro il loro canto, ascoltare il loro canto sempre, perché anche se loro finirono ingoiati dall’abisso, il loro canto rimase vivo nell’aria della valle, nella nebbiolina della valle che all’imbrunire saliva verso dirupi e pendii. E fu così che i ragazzi-fantasma attraversarono la valle e precipitarono nell’abisso. Un transito breve. E il loro canto-fantasma o l’eco del loro canto-fantasma, che è come dire l’eco del nulla, nelle mie orecchie continuò a marciare al loro stesso passo, che era il passo del coraggio e della generosità» (17).

Canti di xapiri, di animali e antenati, canti di spiriti, di fantasmi; essi sono la memoria e la connessione viscerale con la madre giungla. Ed è lo sciamano che si pone in ascolto di questi antenati animali (xapiri) divenuti spiriti quando richiama a sé le loro immagini e li invita a danzare; ed è sempre lo sciamano il potenziale creatore di spiriti dalle fattezze umane, un essere conosciuto come chullachaki:

«è apparenza di persona, ma di persona completa, perfetta. Soltanto gli occhi accorti capiscono che il suo corpo non è unico e che più persone, più vite vivono in esso. Come se ciascuna parte del suo corpo avesse un’esistenza che solo agli occhi degli altri il chullachaki armonizza in una sola. Sono chullachaki che ignorano il male, incapaci di odiare persone e cose. Finché esistono, esistono soltanto per amare, per contribuire al bene» (18).

Infatti sarà un chullachaki, un’apparenza di persona, un’ombra al servizio dello sciamano a condurci davanti a Ino Moxo in persona, e pure a introdurci nel mondo del regista Ciro Guerra, il quale ne El abrazo de la serpiente (19) pone al centro della sua narrazione uno sciamano. Il film, girato nel 2015 nella giungla amazzonica colombiana, si snoda su due linee temporali: l’incontro dello sciamano Karamakate nel 1909 con l’etnologo Theo von Martius (Theodor Koch-Grünberg) e l’incontro, a distanza di quarant’anni, con l’etnobotanico Richard Evans Schultes (co-autore nel 1979 insieme ad Albert Hofmann del testo fondamentale The Plants of the Gods: Their Sacred, Healing, and Hallucinogenic Powers (20) ).
L’incontro con von Martius sarà mediato dalla presenza dell’indigeno Manduca, che rappresenta un atteggiamento di apertura e speranza nei confronti dell’uomo bianco alla ricerca della yakruna, la pianta sacra dai potenti poteri allucinogeni, necessaria all’uomo per guarire dal male che lo affligge. Guidato dalla testimonianza post mortem dell’etnologo, Schultes, anni dopo, viene in contatto con il medesimo sciamano, a cui chiede di condurlo attraverso la selva alla ricerca della pianta sacra che gli insegni ciò che finora gli è stato precluso: la capacità di sognare.
Ma Karamakate non è più se stesso, ha perso i ricordi e la sua propria identità, ho scordato il legame profondo con la Madre Giungla e smarrito il senso della sua missione: trasmettere la conoscenza al suo popolo, distrutta dall’arrivo dei signori del caucciù e dai colombiani. Non è più un uomo, ciò che resta è un chullachaki:

«Una volta le rocce mi parlavano. La linea si è spezzata, i miei ricordi rispondevano alle mie domande. Sono svaniti. le rocce, gli alberi, gli animali sono diventati silenziosi. Adesso sono solo figure sulla roccia. Adesso sono vuoto: sono un chullachaqui» (21).

Affrontando il viaggio insieme allo sciamano e all’etnologo veniamo a conoscenza delle realtà allogene che infestano, con le loro etiche del profitto e del genocidio, il territorio: i due protagonisti incapperanno in una delle tante missioni di evangelizzazione incistate tra le anse del fiume, e vedranno le estreme conseguenze del delirio psicotico di un messia cristiano, autoproclamatosi cristo redentore degli indigeni, nella convinzione dell’identificazione della giungla con l’Eden originario e dell’avvento di una nuova umanità da cui ricominciare per l’edificazione del regno dei cieli cattolico.
Ciro Guerra tonerà a trattare trasversalmente il tema dello sciamanesimo nel 2019 con la serie tv Frontera verde (22), ambientata nell’estrema porzione meridionale del dipartimento di Amazonas, dove una detective verrà inviata per indagare su dei casi di femminicidio di alcune suore dedite a uno strano culto e sulla morte violenta di una donna indigena, appartenente alla stirpe ormai estinta degli Eterni, ultimi detentori del sapere ancestrale della foresta.
La minaccia in questo caso deriva sempre dall’avidità e dagli obiettivi speculatori dell’uomo bianco, incarnato da uno scienziato di matrice nazista, alla ricerca del sacro Graal alcaloide che lo porti al potere spropositato e funesto della vita oltre la morte, propria dei guardiani degli alberi che camminano, ovvero gli Eterni.

«Il folto del bosco, la canzone degli animali, lo scorrere del fiume pieno di vita. Madre giungla, tu sei casa mia. Non importa quanto io fugga, benché l’uomo non voglia vedere, tu sei la casa del mondo. Madre Giungla, tu sei l’origine di tutto quanto. La spirale, il seme, e il teschio. L’eternità è tua. Madre giungla, un demone bianco ha messo piede nelle tue viscere. Uno che non appartiene a questo posto, alla tua natura. Io sono stato con la luna, il sole, i giaguari e i camminatori. La loro saggezza mi ha accompagnato per duecento anni. E benché io ti abbia abbandonata, concedimi di liberarti dal demone bianco che ti fa marcire» (23).

Lasciamo il demone bianco, lasciamo le storture e le degenerazioni etiche che da quel fatale sbarco non ebbero più tregua; lasciamole da parte per tornare alle parole dei maghi verdi di Ino Moxo, per comprendere la portata reale delle visioni, e conseguentemente del valore mistico degli stati estatici connessi a esse:

«Ayawaskha, che per noi non è un piacere fugace, felicità o avventura senza seme, come i virokocha (24). L’ayawaskha è una porta, non per fuggire ma per entrare nell’eterno, per entrare in altri mondi, per vivere in questa natura e allo stesso tempo nelle altre, per rincorrere i confini irraggiungibili della notte che non ha distanza. È per questo che la luce dell’oni xuma è nera. Non spiega. Non rivela. Invece di svelare i misteri, li rispetta, li fa diventare sempre più misteriosi, più fertili e prodighi. L’oni xuma (25) irriga la terra sconosciuta: questo è il suo modo di illuminare» (26).

Dalla luce nera dell’ayawaskha (o ayahuasca) emerge il volto di Ino Moxo: è dalla sua stessa voce che veniamo a conoscenza della sua genesi come sciamano, della sua trasformazione da giovane meticcio a capo degli Huni Kui.
Perché Ino Moxo altri non è che Manuel Córdova-Rios, di cui Buce Lamb raccolse nel 1971 la straordinaria testimonianza. Rapito a quindici anni su ordine dello sciamano Xumu da un campo di estrazione del caucciù, venne addestrato ed educato da questo come suo successore.
Wizard of the upper Amazon (tradotto in Italia con il titolo di Lo sciamano del Rio delle Amazzoni. La storia di Manuel Córdova-Rios (27) ) è un testo fondamentale per comprendere appieno il rapporto fra visioni e piante psicotrope: l’accento viene posto sul rapporto tra sostanze allucinogene e le cadenze ritmiche nell’induzione degli stati di coscienza favorevoli alla possibilità di condividere l’esperienza di visione. Per questo motivo diventa centrale problematizzare l’approccio consumistico proprio del “popolo della merce” (28) occidentale nei confronti delle culture sapienziali delle popolazioni amazzoniche.
Emblematiche in questo senso sono Le lettere dello yage (29) di William Burroughs e Allen Ginsberg, un carteggio iniziato nel 1953 e protrattosi, con intervalli anche lunghi, per molti anni a venire, in cui i due autori si confrontarono principalmente sulla ricerca della Liana dell’Anima, mossi dall’impulso irrefrenabile di esperire in prima persona “un viaggio spazio-temporale”.
Si può dire quindi che il valore di questa raccolta epistolare risieda dunque non solo nell’attestazione di un incremento massivo di interesse sviluppatosi nei confronti del tema dello sciamanesimo da parte di un’ampia fetta della controcultura degli anni Settanta, ma ci fornisce anche una chiave di lettura significativa delle culture sciamaniche nella fondazione concettuale della poetica letteraria di tutta l’opera di Burroughs, in particolare:

«Nel riscrivere la realtà geografica del Sud America come una realtà immaginaria, Burroughs qui ridefinisce se stesso come il cartografo dell’ignoto – una parola chiave nella visione della Città Composita – “un creatore di mappe, un esploratore di aree psichiche”, come avrebbe dichiarato nel 1962. Lungi dall’essere marginale, il suo brevissimo diario di viaggio epistolare è essenziale per la sua produzione futura: la sua scrittura del futuro» (30).

L’orizzonte ontologico della cosmologia amazzonica è affollato, è gravido dell’essere, di ogni essere ed ente, ha l’inclusività della prospettiva ribaltata: l’uomo, l’anthropos oggetto dell’antropologia non decade, ma rientra – come in un ritorno dalle sembianze necessariamente cicliche – in un orizzonte più ampio, meno asfittico della dicotomia cartesiana, per immergersi in un orizzonte onnicomprensivo, molto più simile alle rotondità dell’essere parmenideo.
Sotto questa luce l’Amazzonia diviene allora una foresta-cosmo, un complesso armonico e perfetto nella sua interezza, perché oltre la completezza e la coerenza; lontanissimo dal deserto oltre cui David Foster Wallace vedeva «il vuoto che bordeggia il pieno, l’Altro che bordeggia l’io» ne La scopa del sistema (31): all’interno dei confini urbani l’uomo si erge al centro e nel linguaggio dà i nomi alle cose, in una posizione centripeta che volge tutto verso di sé, mentre fuori di esso vi è D.I.O., quel deserto di senso che gli pone i limiti, la finitezza con cui l’uomo si è fatto immagine e figlio prediletto, arrogandosi il diritto di essere primo tra le creature del mondo creato.


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1. César Calvo, Le tre metà di Ino Moxo e altri maghi verdi, Feltrinelli, Milano, 1982, pag. 108
2. Claude Lévi-Strauss, Tristi tropici, Il Saggiatore, Milano 1960, cap. 32 Nella foresta
3. Werner Herzog, Fitzcarraldo, Germania 1982
4. César Calvo, Le tre metà di Ino Moxo e altri maghi verdi, trad. di Angiolina Zucconi e Luisa Pranzetti, Feltrinelli, Milano, 1982
5. Werner Herzog, Fitzcarraldo, trad. Bruno e Claudio Graff, Guanda, 2018, pag.35
6. Werner Herzog, Incontri alla fine del mondo. Conversazioni tra cinema e vita, trad. Francesco Cattaneo, minimum fax 2009, pag. 242
7. César Calvo, Le tre metà di Ino Moxo e altri maghi verdi, Feltrinelli, Milano, 1982, pag. 209
8. Gerardo Reichel-Dolmatoff, Il cosmo amazzonico, a cura di Antonino Colajanni, Adelphi, Milano 2014, pag. 159
9. Gerardo Reichel-Dolmatoff, Il cosmo amazzonico, a cura di Antonino Colajanni, Adelphi, Milano 2014, pag. 159
10. Sito archeologico inca nella regione di Cuzco
11. César Calvo, Le tre metà di Ino Moxo e altri maghi verdi, Feltrinelli, Milano, 1982, pag. 64
12. Gerardo Reichel-Dolmatoff, Il cosmo amazzonico, a cura di Antonino Colajanni, Adelphi, Milano 2014
13. Davi Kopenawa, Bruce Albert, La caduta del cielo. Parole di uno sciamano yanomami, trad. Alessandro palmieri e Alessandro Lucera, Nottetempo, Milano 2018
14. Canzone magica
15. Davi Kopenawa, Bruce Albert, La caduta del cielo. Parole di uno sciamano yanomami, trad. Alessandro palmieri e Alessandro Lucera, Nottetempo, Milano 2018, pag.38
16. Davi Kopenawa, Bruce Albert, La caduta del cielo. Parole di uno sciamano yanomami, trad. Alessandro palmieri e Alessandro Lucera, Nottetempo, Milano 2018, pag. 39
17. Roberto Bolaño, Amuleto, trad. Ilide Carmignani, Adelphi, Milano 2010, pag. 235
18. César Calvo, Le tre metà di Ino Moxo e altri maghi verdi, Feltrinelli, Milano, 1982, pag. 180
19. Ciro Guerra, El abrazo de la serpiente, Colombia 2015
20. Richard Evans Schultes e Albert Hofmann, Plants of the Gods: Origins of Hallucinogenic Use, McGraw-Hill, New York 1979
21. Ciro Guerra, El abrazo de la serpiente, Colombia 2015
22. Ciro Guerra, Diego Ramírez Schrempp, Andrés Calderón, Jorge Dorado, Cristian Conti, Frontera verde, Colombia 2019
23. Ibidem
24. Termine amawaka per indicare l’uomo bianco
25. Sinonimo di ayawaskha
26. César Calvo, Le tre metà di Ino Moxo e altri maghi verdi, Feltrinelli, Milano, 1982, pag. 217
27. Bruce Lamb, Lo sciamano del Rio delle Amazzoni. La storia di Manuel Córdova-Rios, trad.?, L’età dell’acquario, Torino 2007
28. Definizione di Kopenawa per l’uomo bianco occidentale
29. William S. Burroughs., Allen Ginsberg, Le lettere dello yage, trad. Andrew Tanzi, Adelphi, Milano 2010
30. Ivi, pag. 23
31. David Foster Wallace, La scopa del sistema, trad. Sergio Claudio Perroni, Einaudi, Torino 2008

 

 

Martina Mantovan

Martina Mantovan nasce a Venezia, e vive a Roma. Si interessa di filosofia e letteratura contemporanea, con un’attenzione particolare al rapporto tra letteratura e antropologia.
Ha collaborato in passato con alcune riviste letterarie, tra cui Not e Flanerì.