L’Alzheimer è una metafora
di Graziano Graziani
La vita è un processo di trasformazione continua, che passa dall’agilità dell’infanzia alla rigidità della vecchiaia, un processo così mirabolante di mutazione che è difficile credere che sia davvero lo stesso soggetto ad attraversare l’uno e l’altro stadio, ad “essere” ed “essere stato” la stessa persona. E in effetti l’individualità, intesa come identità costante di un soggetto, è da tempo al vaglio di una serrata critica di carattere filosofico, psicologico e perfino artistico, se è vero che già nel 1871 Rimbaud affermava che “io è un altro”. Il collante di questa incessante mutazione, prima ancora di qualcosa che potremmo chiamare “io”, è il racconto di ciò che questo io è stato, la concatenazione consequenziale di episodi della vita, in una parola il ricordo. La memoria. È la memoria di ciascuno e ciascuna a creare l’io, o per lo meno a renderlo visibile, pensabile, grazie a un processo di racconto che dà senso al flusso, di per sé assai meno ricco di significato, dell’esistenza. Già Pasolini, nell’accostare il montaggio alla morte in un celebre saggio sul cinema, cercava di evidenziare quanto fosse l’intellegibilità, il racconto – che è anche selezione e sintesi – a creare in un certo senso l’esperienza umana, riducendola ad un fatto narrabile. Se è pur vero che il culmine di questo costante processo di trasformazione è l’«abisso orrido, immenso» di cui parla Leopardi nel Canto notturno di un pastore errante dell’Asia, è pur vero, tuttavia, che finché è possibile raccontare la propria storia, trasmetterla a qualcuno, esiste una speranza di continuazione e di sopravvivenza che va oltre il corpo e la sua fisicità, oltre quel destino dove «il tutto oblia».
In uno dei passaggi più emotivi del romanzo storico I tamburi nella pioggia, Ismail Kadare racconta di un soldato ottomano intrappolato in un tunnel crollato assieme a dei commilitoni, inghiottiti dal buio e in attesa della morte; in una simile terribile condizione tutto quello che desidera fare quel soldato è cercare, invano, qualcuno che sia disposto ad ascoltare la sua storia. Quel desiderio, così umano e tuttavia inutile, poiché chiunque avrebbe ascoltato sarebbe comunque poi morto con lui, ci racconta di quanto insopprimibile sia il desiderio di operare questa ricapitolazione della propria esistenza.
Non stupisce allora che in una società come la nostra – che dà un lato ha edificato un vero e proprio culto della memoria collettiva e personale, e dall’altro si trova ad affrontare la condizione inedita di invecchiare sempre di più, di sperimentare la sproporzione tra giovani e vecchi a vantaggio di questi ultimi – si rifletta sempre di più sull’identità in chiave della sua disgregazione, non più secondo il topos della follia, caro ai secoli passati, ma seguendo il tracciato del decadimento fisico. Decadimento che, in questo tipo di società sempre più anziana, diventa materia tangibile, esperienza quotidiana, e che interessa il corpo quanto la mente.
L’Alzhaimer, oltre che essere una malattia, è una metafora. È il simbolo dell’impotenza di una società che crede di poter dominare ogni aspetto della vita; è il segnale tangibile dell’illusione a cui la memoria ci espone. Buco narrativo nel racconto del sé, ma anche lo sguardo impudico sulla disgregazione di un io, è uno strappo che non riguarda soltanto chi affronta la malattia, ma anche chi è vicino al malato, perché l’ambiente affettivo di ciascuno di noi, che è parte di noi stessi, ne viene investito e travolto.
Diversi artisti, negli ultimi anni, hanno scelto di indagare questa frattura, spesso partendo da questioni biografiche, come è intuibile, ma non solo, cercando di affrontare la malattia nelle sue implicazioni che travalicano la dimensione privata, quella sorta di “lutto anticipato” che è il disgregarsi di una mente che ha fatto parte, spesso in modo intimo, del nostro mondo. Questo numero di «93%» sceglie allora di indagare la malattia, il decadimento, come materia di riflessione artistica oltre che filosofica, dando spazio alle riflessioni di quattro artisti che hanno lavorato su questo tema. Quattro diversi approcci che però hanno moltissimi punti di connessione tra loro.
Adrian Bravi, da scrittore e romanziere, riflette sulle parole che scompaiono. Scompaiono le parole, come strumento della comunicazione con l’altro, ma con esse scompare anche la relazione. Non dissimile è il ragionamento di Andrea Cosentino, che nel suo spettacolo evoca anche l’illusione che abbiamo del tempo come moto lineare, tirando in ballo persino la fisica quantistica. Se scompaiono il senso e persino il tempo, da questa scossa tellurica sembrerebbe emergere nient’altro che il caos della nuda esistenza, eppure entrambi gli autori intravedono qualcosa che riconnette gli esseri umani a un elemento trascurato, quando non perfino negato, dell’esistenza: la sua leggerezza, la sua consistenza effimera. Sullo stesso procedimento di racconto, ma di segno opposto, si snoda il lavoro teatrale di Fabiana Iacozzilli, che evoca un quadro familiare dove la tensione si concentra sul tentativo, destinato inevitabilmente alla sconfitta, di trattenere la memoria, di arrestare la scomparsa e l’oblio. È questo, in parte, un compito affidato all’arte stessa, compito a sua volta effimero, ma che nell’allungare oltre i limiti fisici l’esperienza di una persona disegna comunque la possibilità di una dimensione ulteriore, collettiva, intergenerazionale, che ha a che vedere con il lascito, con l’eredità. Jacopo Giacomoni ricorre invece – come anche Cosentino – alla musica, una musica “slogata” che si interfaccia con un loop testuale, dove la decadenza diventa tangibile esperienza della dissipazione del significato. Un’esperienza che, seguendo la lezione di Mark Fisher, Giacomoni allarga dal particolare della mente individuale, soggetta a decadimento, al generale di una società “infestata” dal passato, galleggiante in un presente immutabile dove frammenti di codici retrò riaffiorano periodicamente, sconnessi dai propri significati originali.