Moltiplicare le prospettive da cui guardare il mondo

di Graziano Graziani

Rovine antiche del tempio di Angkor Thom, Cambogia
Rovine antiche del tempio di Angkor Thom, Cambogia

Proviamo a raccontare il mondo da una prospettiva non umana. Anche se può apparire una contraddizione in termini – chi scrive, pensa, descrive e interagisce intellettualmente col mondo è pur sempre un uomo o una donna – questo esercizio di ricollocazione dell’esperienza umana al di fuori della tradizionale prospettiva antropocentrica è oramai, e da diversi anni, parte integrante della ricerca filosofica, biologica, scientifica. Quello che caratterizza l’ultimo decennio, invece, è il progressivo favore con cui questa narrazione del mondo viene accolta dal sentire comune, dai media, dai dibattiti pubblici, evidentemente incalzati dalla crisi globale che investe l’ambiente, l’economia, l’idea stessa di un futuro di cui l’uomo (utilizzo volutamente qui un maschile sovraesteso) è il solo artefice del proprio destino. Il fiorire della divulgazione scientifica che procede in questa direzione ci racconta di una domanda di senso che chiede una forte messa in discussione dei presupposti positivisti e del pensiero progressivo dell’Otto-Novecento, in favore di un’idea di ecosistema dove gli elementi sono interconnessi, sensienti, dotati di agentività più di quanto il pensiero umano non voglia istintivamente credere. D’altronde, potremmo aggiungere, c’è assai poco di “istintuale” nel modo in cui concepiamo l’ambiente attorno a noi, sia esso composto di piante, animali, formazioni minerali, che cerchiamo di modellare e conformare alle esigenze della specie umana, soprattutto nella sua delineazione urbana (nel 2009 si è verificato lo storico sorpasso della popolazione cittadina mondiale rispetto a quella rurale). Anche quel pensiero che ancora avvertiamo come istintivo è frutto in realtà di domesticazione, di modellamento, di costruzione e, come tale, è integralmente “politico”.
Per questo motivo abbiamo deciso di approfondire le “prospettive non umane” che sono al centro del tentativo di ripensare il mondo, e con esso l’essere umano, in chiave diversa e secondo una diversa collocazione nel grande meccanismo della vita sul pianeta. È una prospettiva che sempre più mostra il suo lato politico nella contestazione del modello produttivo che ha impattato sul pianeta e che non è più, soltanto, una questione di accumulazione capitalistica, di ricchi contro poveri, di giustizia sociale. Sempre più si sta delineando invece come un ecocidio, una forma di soppressione della vita che nel breve termine riguarda la biodiversità, ma nel lungo termine potrebbe mettere a rischio la permanenza della specie umana sul pianeta.
Arrivare a questa visione politica – c’è chi la contesta, ma i dati scientifici parlano sempre più chiaro – ha comportato un salto logico nel pensiero politico dell’occidente, legato a un’idea di progresso inesauribile, mito tanto della sinistra più radicale quanto di quella riformista, in grado per la prima di innescare le contraddizioni propizie alla rivoluzione (o di conquistare lo spazio e perfino scongiurare la fine della vita individuale, secondo un peculiare mito transumanista di stampo sovietico), per la seconda meccanismo di progressiva redistribuzione delle risorse in chiave riformista. Che tale idea di progresso sia consustanziale all’idea di sfruttamento capitalista, è invece quasi una tautologia.
Passare all’idea di un mondo dalle risorse finite, dunque, ha comportato una rivoluzione del pensiero di notevole importanza (in pochi, ad esempio, avevano davvero capito la portata delle posizioni di Alex Langer). Gli effetti di questo moto di rivoluzione sono ancora tutti da comprendere. Non mancano questioni controverse, come alcune derive verso l’irrazionalismo e il pensiero magico di nuove forme di pensiero olistico, ma sicuramente nuove prospettive di senso si stanno disegnando con grande forza immaginifica. Una forza che innerva anche la creazione artistica, da sempre sismografo degli sconquassi del pensiero.

In questo primo numero dedicato alle “prospettive non umane” – ne seguiranno altri due – ci dedichiamo al mondo vegetale. Le piante sono tra i più antichi e ricchi dispositivi biologici del pianeta, se è vero che la comparsa della fotosintesi segna un punto di svolta nell’evoluzione degli organismi unicellulari. E anche se sempre più autori se ne stanno occupando, restando una “ferita aperta” nello snobismo metafisico di homo sapiens, secondo quanto ne scrive Emanuele Coccia in La vita delle piante; un “tumore cosmico dell’umanesimo”.
Noi ci avviciniamo ad esso – e alle prospettive che apre, in senso artistico e di pensiero – con la consapevolezza che «tutto ciò che delle piante […] è stato detto dall’uomo è per sé, dunque come non detto per le altre specie», come ci dice Marcello Sambati, poeta e performer che da anni indaga il mondo vegetale, seguendo una fascinazione che non è autoinganno, perché segue la consapevolezza di fondo che riguarda il rapporto tra mondo vegetale e specie umana: «ci è data la grazia di poterlo abitare e la maledizione di non poterlo capire». È pur vero, come ci ricorda Mali Weil, che la tecnologia oggi aiuta a “vedere” cose che prima erano invisibili, moltiplicando così le prospettive di osservazione che riguardano le piante, sì, ma anche noi stessi. E ricostruire questo rapporto, a partire dalle parole come “foresta”, significa ripercorre un rapporto che è da sempre pensato come “politico”. Lo stesso si può dire per lo sguardo di OHT, che a partire da un albero spezzato e allestito come oggetto/soggetto della scena, apre riflessioni inedite a partire da una storia tragica di sfruttamento del territorio: il disastro della Valle di Stava del 1985. Mentre Alessandra Cristiani, danzatrice che affonda nel butoh giapponese le radici della propria ricerca, ci ricorda come performer (e dunque l’essere umano) possa “trasudare” assieme al mondo vegetale, “respirare” insieme ad esso (come ci ricorda anche Coccia); e tutto questo trasforma i fenomeni naturali in “partner creativi” paritari, anziché esseri oggettivizzati da sfruttare. Un processo che ci porta – per tornare a Sambati – a mettere in discussione l’io, per ricordarci quanto esso sia una prospettiva tutto sommato ridotta da cui osservare il mondo.