Veduta di paesaggio con albero

di Veronica Franchi / OHT

Fondalino “Incantevole posizione” con veduta del bacino superiore, dallo spettacolo "19 Luglio 1985" di OHT
Fondalino “Incantevole posizione” con veduta del bacino superiore, dallo spettacolo “19 Luglio 1985” di OHT

Nell’agosto del 2019 ho iniziato a collaborare con OHT, studio di ricerca del theatre-maker Filippo Andreatta. Lavoravamo alla messa in scena di 19 Luglio 1985 e abbiamo sospeso un albero a pochi metri da terra.
Era un abete rosso ricco di resina, abbattuto nella zona colpita dalla tempesta Vaia l’anno precedente, un evento metereologico estremo – di quelli che sempre più fatichiamo a definire come disastri “naturali”. L’albero era convocato in scena come testimone di un altro disastro, avvenuto sempre in Trentino nella data che presta il nome al lavoro, quando un’enorme valanga di fango e detriti spazzò via la valle abitata di Stava. In questo caso a provocare il disastro non fu un evento naturale, ma il cedimento di due bacini di decantazione della miniera del monte Prestavel che causarono la fuoriuscita di migliaia di metri cubi di fango biancastro. La colata di fango e detriti, grazie all’accelerazione data dal pendio del monte, travolse l’abitato ad una velocità di 90 km/h per un tratto lungo oltre 4 chilometri, provocando centinaia di vittime umane e cancellando l’intero paesaggio. La Commissione ministeriale d’inchiesta successivamente accertò che i bacini non erano mai stati sottoposti al controllo di stabilità e che tutto l’impianto di decantazione, collocato sopra la valle, costituiva una minaccia incombente.
Incantevole posizione – titolo del singolo che il musicista Davide Tomat ha composto per lo spettacolo (1) – è anche il termine con cui, nei carteggi dell’epoca, viene definito il sito concesso alla ditta per la costruzione dei due bacini.

E incantevole, in qualche modo, ci è apparsa all’inizio anche la posizione assunta dall’abete al centro della scena bianca: orizzontalmente sospeso nel vuoto, in lento movimento rotatorio.

Nello spettacolo l’albero resta in questa posizione per una decina di minuti; la scena si bagna piano di luce calda, quasi un’alba montana accompagnata da lievi refoli sonori, mentre un coro alpino giunge a cullare questa sospensione vegetale.
In scena non vi è alcun accadimento degno di nota; chiamato a posarsi sull’immagine, lo sguardo si quieta per un breve tempo, nel placido rallentare del movimento rotatorio che si esaurisce piano come la carica manuale di un carillon.
Ma è una quiete che ben presto lascia spazio all’inquietudine nell’osservare l’innaturale posizione del fusto, ben più avvezzo alla postura verticale. È lì, in quel cambio di posizione che l’immagine inizia a stridere.

Georges Didi-Huberman attribuisce alle immagini la stessa funzione divinatoria che avevano un tempo i canarini in gabbia portati nelle miniere per sondare il livello di gas grisou nell’aria. Incolore e inodore ma altamente infiammabile, il grisou non era facilmente percepibile dai minatori ed era uso comune ritenere che i canarini gonfiassero le piume, dando segni di soffocamento, in caso di aria satura di pericolo.
Saper guardare il canarino era quindi necessario per svelare la presenza della minaccia incombente e l’indicazione è quella di guardare all’immagine cercandone il sintomo, lo scarto, quel piccolo fremito d’ali che permette l’aprirsi di una crepa e uno svelamento.

Con la sua trasversalità sospesa che devia dal sistema ordinario, l’albero che appare pacificante nel suo ricordare un carillon, porta invece il segnale di un inciampo, l’allerta per una catastrofe già avvenuta e ripetibile.

Poco dopo, nel buio improvviso, cadrà a terra con boato fortissimo.

Seguendo la riflessione ed interrogando in questo senso l’immagine, tra le fronde orizzontali dell’albero possiamo individuare anche il segnale di un altro tipo di “catastrofe”, letteralmente un rovesciamento – come vuole l’etimologia greca della parola – dell’assetto antropocentrico della scena.
Un cambio di posizione che permette di guardare a ciò che solitamente resta sullo sfondo e ripartire da tale residuo; così un albero, elemento spesso considerato margine irrilevante del nostro spazio cognitivo occupa invece il centro, esponendosi al fuoco dello sguardo.
Allo stesso modo il campanile del sommerso paese di Curon, nell’omonimo spettacolo, mostra questo spostamento e la possibilità che al centro della scena possano essere chiamati, come testimoni e attori, quegli elementi spesso ridotti a sfondo inerte delle vicende umane.

Il paesaggio si stacca dalla tela piatta della veduta panoramica e avanza nel suo farsi materico e determinante, non più statico ma mutevole, provvisorio, molteplice.

Da qualche anno ho avuto più occasioni di abitare, seppur per brevi periodi, il territorio trentino. Nel breve scarto di tempo tra l’euforico stupore turistico della prima volta e la disattenzione dell’abitudine di quelle successive, ho percepito in modo un po’ naïf una distanza da quel paesaggio: orizzonti profilati diversamente, diverse temperature e geografie hanno informato i miei anni di vita. Una tiepida intuizione che però è stata abbrivio per comprendere l’affondo di un principio estetico e politico. Radicato a Rovereto, Filippo (e con lui OHT) non può prescindere dall’incombente paesaggio alpino in cui è immerso che forma e informa in maniera assidua la vita e la creazione artistica.
Se la teoria è solo una porzione dell’orizzonte di ricerca e di influenza per OHT, un’altra parte è occupata dalla montagna e dalle relazioni con l’intorno fisico che avviluppano l’esistenza umana. Relazioni che eccedono la porzione di spazio che lo sguardo è capace di cogliere.

Nel 2020 Little Fun Palace, progetto di OHT che interroga lo spazio pubblico nel suo essere luogo aperto all’incontro spontaneo tra le persone, ha operato uno spostamento trasferendosi dalla città al paesaggio alpino e connotandosi come Scuola Nomadica.
Ispirata a esperienze come quella del Black Mountain College, in cui il tempo della vita e dello studio non erano separati, la scuola sperimenta una metodologia di ricerca che inventa continuamente il proprio modello, attraverso la creazione di comunità effimere ed eterogenee in ambienti diversi, la condivisione orizzontale di pratiche artistiche e conoscenze e la sua rifrazione nello scambio tra l’ambiente e i partecipanti.

Dopo aver percorso migliaia di chilometri per raggiungere diversi festival e città, la roulotte di Little Fun Palace è arrivata a quasi 2000 metri sul livello del mare; l’intorno vegetale, roccioso e animale si è fatto materia viva e la Scuola Nomadica ha preso forma in un paesaggio che rivendica la sua possibilità di azione, capace di cambiare le proporzioni e sbilanciare la posizione di dominio umana.
Da subito si è imposta la necessità di ripensare l’abitudinaria concezione di tempo e distanza, di assecondare l’incertezza e la velocità di un cambiamento meteorologico, di mettere in campo diverse forme di ascolto e conoscenza, in una continua negoziazione con l‘ambiente per poter agire.

Se l’albero orizzontale di 19 Luglio 1985 era indice di uno spostamento dal centro al margine della scena e dell’assunzione tematica di una prospettiva non antropocentrica, la Scuola Nomadica incorpora questa prospettiva, trasformandola in un esercizio, un allenamento ad abitare lo spazio in modo non dominante e a-gerarchico.
Per praticare ciò la scuola abbandona qualsiasi istanza di formalizzazione, non tende a risultati che possano definire un modello, accade nel suo essere nomade, permeabile, trasformabile.
Si colloca nella distanza, in quello spazio che distingue i mondi personali ed intellettuali dei partecipanti, le diverse pratiche artistiche e le conoscenze, il mondo animale da quello vegetale. Tenta di abitare lo “spazio che separa”, trasformandolo così in spazio di incontro e di accadimento. Uno luogo che, prendendo in prestito un’idea della paesaggista Annalisa Metta, potremmo definire “avanzato”, un termine duplice che indica sia un residuo che una progressione; la distanza del resto è uno spazio che si crea da uno scarto ed esiste solo nell’attraversamento. Questo luogo impossibile della distanza, campo comune perché appartenente a tutti e a nessuno, è generato dalla rete di relazioni che si instaurano nella materia (umana, non umana, discorsiva) che lo compone, relazioni che sono sostanziali della sua stessa possibilità di esistenza.

Nel sito montano che la Scuola Nomadica ha abitato per due anni consecutivi, la linea dell’orizzonte segue il vicino profilo dei monti e l’intorno visibile procede in un continuo aprirsi e chiudersi della vegetazione. Si susseguono abetaie e sfalci, ritmando un paesaggio verdeggiante che non fatichiamo a definire “naturale”, non soggetto all’azione umana, se ci atteniamo erroneamente a quella concezione di natura inventata dall’uomo tramite la sua stessa sottrazione, il passo indietro compiuto rispetto al resto del vivente per assumere la posizione bifronte di osservatore nostalgico e dominatore violento. Queste porzioni di territorio fratturano invece tale concetto di natura, svelando i complessi nodi relazionali che legano paesaggio ed essere umano, nello scoprire che talvolta il controllo di un bosco è utile a mantenere un’apertura, a preservare una biodiversità. Gli esseri agiscono, interferiscono, con-vivono, si mescolano e restano distinti; l’essere-nel-mondo è fare-mondo nello spazio delle differenze.


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1. Incantevole posizione è il nome del brano composto per lo spettacolo dal musicista Davide Tomat, prodotto da K7 Records

 

 

Veronica Franchi / OHT

Veronica Franchi ha studiato Architettura a Firenze e Teatro e Arti perfomative allo IUAV di Venezia. Dal 2019 collabora con OHT.

Fondato nel 2008, OHT [Office for a Human Theatre] è lo studio di ricerca del regista teatrale e curatore Filippo Andreatta, il cui lavoro si occupa di paesaggio e di politica personale sottilmente affrontata nello spazio pubblico e privato.
OHT collabora con diverse istituzioni e realtà a livello nazionale e internazionale. Centrale Fies è partner regolare di vari progetti. Per il biennio 2021-22, OHT è artista associata del CSC S. Chiara di Trento.