La selva chiara

di Marcello Sambati

Marcello Sambati, foto di Daniele Vita
Marcello Sambati, foto di Daniele Vita

Ogni pianta, portatrice di doni, abita
il cielo, abita la terra e in ogni stagione
si oltrepassa

Nel mio Trittico Tenebre ho attraversato la mia condizione umana, dall’Oscurità del mio essere un io, all’Incompatibile coesistenza con la mia stessa specie e con l’Addio a questa appartenenza. Ho lasciato la condizione di sembiante di me stesso per tentare di oltrepassarmi.

La selva oscura è del pensiero umano, del suo buio cuore. Con le sue angosce, trappole, illusioni, amarezze. È il suo smarrimento. La selva reale – foresta, macchia, bosco, orto – è solare. È dove c’è vita, fuoco e gelo, dolcezza, bellezza. Un pullulare di esistenze, di esistenti, di linguaggi, di voci,
di armonie, di continue nuove fioriture. Ciò che sappiamo della selva reale è come non saputo, tutto ciò che è stato scoperto e rivelato è come non saputo. Siamo noi a fare di questo insaputo la nostra letteratura, la nostra poesia, la nostra arte. Ma ci sono i poemi silenziosi della selva, anzi i floemi. Noi possiamo solo pensarne il non pensiero.

Noi pensiamo alla possibilità di una relazione che non si darà mai, a un toccarsi che non si toccherà, al nostro sguardo che non incontrerà mai l’altro sguardo, che non è per noi. Tutto ciò che delle piante e degli animali è stato detto dall’uomo è per sé, dunque come non detto per le altre specie. Noi, con le nostre comparazioni, empatie, tentativi d’intesa, corteggiamenti da insetti nocivi, non udiamo le voci del giardino silenzioso, del grande giardino-terra. Ci è data la grazia di poterlo abitare e la maledizione di non poterlo capire.

Entriamo dunque nella selva sotto la guida di Orfeo, che ben conosce la grandezza dell’albero in ascolto (Rilke). A pensarne l’ascolto, ascoltarne la pensosità, la quiete, il senso. Non siamo qui per abbracciare gli alberi o per mimetizzarci, come fanno molti insetti per sfuggire ai predatori, o per danzare come steli al vento e creare immagini e video a testimoniare la nostra empatia e il nostro affetto per i vegetali, né per manifestare l’espressività delle piante con le nostre fascinose nomenclature di botanici.

Nella selva – che si presenta a noi a macchie, prati, distese, labirinti e intrichi impenetrabili – c’è mondo, c’è lotta in un tempo senza tempo. Selva è luogo di fili invisibili, di forme formate e forme formanti. Là esiste davvero relazione: rettili stesi sul corpo caldo delle pietre, cardi spinosi, formiche, mosche carnarie, rovi, muri crepati, pietraie, esseri alati radunati nelle chiome al tramonto per l’oscurità imminente. I nostri passi suscitano fruscii di fughe improvvise e crepitii di foglie secche. Qui tutto testimonia l’armonia delle cose differenti. L’armonia è il punto d’incontro delle differenze, di noto e ignoto. Osserviamo con attenzione il lavoro del tarlo nel legno, la sua opera-polvere, che insegna ciò che perde forma, ciò che infine non è.

«Il grido di un fiore afferra un esistere». Paul Celan ci ha lasciato questa gemma, questo prisma poetico che ricorda le potenze vitali di Aristotele – vegetativa, sensitiva e intellettiva – che sono in realtà una sola potenza. Ha ragione di essere pensata ancora la tripartizione degli enti? Pensiamo, con Eriugena, alla vita vegetativa come vita germinale (germinalis vita). Il resto viene da sé. Il grido di un fiore afferra un esistere: il poeta parla come un fiore. Se il fiore è muto, la mutezza è il suo grido. Immaginiamo un uomo minore, che sappia risalire al generativo, alle semine feconde, alle abbondanze della terra, ai suoi linguaggi senza fine, che sappia ricominciare con umiltà di radice, prodigio e sforzo di ogni vita. Quando s’interra un seme si dice mettere a dimora. Dimora non è la terra che non abbiamo mai posseduto, cioè amato?

È primavera e ho questi pensieri. Guardo le gemme, le gemme mi guardano. Tocco un ramo che mi tocca: il mio immaginario. Le piante non sono per noi, sono con noi. Bisogna dunque pensare il con e non il per. M’incammino calpestando l’erba. M’incammino nella differenza di una relazione, in una relazione di differenza. Tenersi saldi nella differenza, innamorarsi della differenza.

L’albero che mi stava davanti ora è alle mie spalle – è chiaro che l’albero non mi seguirà. Qui posso pensare la sovranità della sua presenza, la maestosità del suo corpo, ascoltare la sua vibrante voce-vento e la sua fermezza in questa relazione di differenza. Il mio pensiero è una delle relazioni della differenza. E vorrei avere un pensiero di non-pensiero, incamminarmi in un cammino immobile. È chiaro che sono innamorato di questo maestro anacoreta, che in un palmo di terra è nato, vive e morirà. Posso soltanto pensarlo l’albero, pensarlo come singolarità di figura nella sua pluralità di selva e lasciarmi ammantare dalla sua figura, lasciarmi ombreggiare, rinfrescare, profumare. La sua interiorità – che sospettiamo – è forse in questo essere germinato e germinante presenza. Il resto è il nostro tutto dire che non lo tocca. Possiamo dimenticare tutto l’immaginario simbolico dell’uomo sulle piante.

La selva è formata e continua a formarsi negli spazi sterminati del fuori dell’umano, il fuori di innumerabili singolarità. Vagabondando in luoghi e spazi della selva, annotando segni dall’infinità dei segni, voci dall’innumerabilità delle voci, l’uomo s’incammina per sentieri impervi, sosta in prossimità di rocce, muraglie di rovi, dialoga con la rosa damascena, s’intrattiene tra le querce, ascolta il vento, le voci, i sussurri, il murmure delle chiome, le sonorità delle foglie vibranti, coglie i
fruscii degli animaletti invisibili nelle sterpaglie di spinosi cardi mariani, ammira la bellezza dei rettili benché invisi all’uomo, siede su una pietra sulla riva di un torrente suscitante memorie. Annota la qualità della luce nelle diverse ore del giorno, accarezza le cortecce degli alberi stupito dai disegni che il tempo traccia sulle superfici scabre dei tronchi e comprende che la differenza esistente tra le specie della selva è diversa, meno profonda da quella che c’è tra due esseri umani.

Cosa coglie dunque l’uomo con le sue modalità percettive dalla totalità della selva, cosa può restituire coi suoi linguaggi di ciò che ha colto? Se dunque pensiamo l’essere umano come specchio (opaco) di tutto l’esistente ci rendiamo conto che esso non può trattenere nulla, se non come immagine, come specchio appunto. Ciò che può restituire è un immaginario. L’immaginario è il territorio d’incontro, l’universo comune, la scena del teatro del mondo.

Nelle stagioni, e negli anni, ho meditato l’esperienza delle gemme e annotato i teatri di un istante, che in ogni istante si manifestano, piccole vite che ho incontrato e cercato di ascoltare, che avrei voluto interrogare, sapendo che sono senza lingua, che siamo senza lingua. Qualche volta sono stato testimone di eventi impercettibili, senza rumore e senza storia, le voci di certe creature, di certe piante animate dal vento, che ancora soffiano leggere nella mia scrittura e la sperdono in afonie e silenzi.

«Quando l’uomo si fa degno di udire le melodie delle piante, il modo in cui ogni pianta intona a Dio il proprio canto…», così recita un testo chassidico.
Così ho annotato nel mio Atlante dell’attore immaginario:

L’uomo, dal suo recinto di bestia in allarme, guarda le scie argentate dei gesti arborei.
Agrimonia, Acer, Hedera, Fagus, Fumaria, Alchemila, Brubella, Citrus, Oxalis, Prunus, Spina, Viola, Lilium, Iris, Centaurea, Anemone, Fragaria, Quercus…
Nomi come note musicali. Respira la stessa aria, nella stessa luce, ondeggia allo stesso vento, vive le stesse stagioni con gioia indicibile. Alberi, alberi… la vostra carne, i vostri lieviti, le vostre mani aperte, il vostro cuore. Le foglie lacerate, i rami spezzati. La certezza del passero è la vostra cima che canta poemi di vento. Il vostro respiro è movimento verso il dire. Complice ascolta i loro alleluia, lo stormire come parola, e lo scintillio del fogliame, la fedeltà delle radici alla terra e delle scure chiome al cielo stellato.

Corpi arborei come ali di angeli sotterrati. Immense, ramate luccicanti creature. Non si staccano dalla terra, non la disertano, inverandola come interiorità che tutti li unisce e colma. Nell’attesa senza finalità, col silenzio delle loro figure, ognuna dentro la propria forma ritorta e danzante alla violenza del vento, nei conflitti tra la luce e la tenebra. Ne ascolta le offerte vocali, ritagli di fiati, richiami chimerici. Sente auree di menta, allegorie di pollini gemiti e deliri. Vegetali come comparanti, somiglianze di corpi-suoni. Reminiscenze come spore vaganti: l’albero del pepe, la stella assenzio, le api di malaria. Corpi vibranti su erbe lune, lampi fenomenici. Nel tempo di qualche infelicità o di un’attesa senza fine o sulla soglia di una perdita, l’uomo cerca il fiore del vero. Famelico mangia una rosa per incorporarne lo splendore.

*

Alcuni passaggi dai miei lavori poetici e teatrali come comparazioni di stati d’esistenza, di pura presenza nell’aperto del mondo, con affettività e fratellanza terrestre:


da Tavolette apule

m’inchino alla gemma e alla radice
e cedo all’assidua carezza
dell’ortica tremolante corolla cerca sole

l’anima vegetale rabbrivida Orfeo
di legni cavi s’infoglia la primavera
delirando salive la parola spera

arde l’estate di gelsi e di stupori
e il rosario di uve passite
la sillaba di pane e il verso
capogiro

da Danze locuste

geografo d’aspre resine
l’albero crescerà poemi
per le foglie bambine

lattici amarissimi, fiere
ortiche sanguinano
d’un povero sentire

da Esitazioni

sotto scorza
ai margini dell’apparenza
germogliano le spine

cicoria degli azzurri
dai tappeti di muschio
inseguendo la farfalla che volteggia
l’anima abbandona la lettera
per la linfa dell’acero

vieni, resta
ai legni nudi, ai muschi
stellati dove si ascende
e si diventa niente

da Prometheu

Tavola di aromi

Per te, che sai leggere ciò che non è scritto,
ho apparecchiato questa tavola di aromi,
coi dolci inganni delle labbra foglie,
col soffio dell’alba e il brivido del cardo,
con gli sciami di stelle, con le arance sorelle,
col respiro del vento,
profezia di farine e mele cotogne

da Natura requiem, una veglia francescana per la terra e le sue creature, meditazione sulla tragica de-creazione in atto, sulla scomparsa di specie animali e vegetali, paesaggi, orizzonti, luoghi della coscienza e della memoria dell’uomo, con lo sguardo verso questo allontanarsi della natura fuori dall’esistente, che vorremmo trattenere al di qua della perdita:

anemone regina,
fiore del vento
gemma senza illusioni

rettile, albero, poiana
su un cielo senza fondo
vengono, vanno
invisibili sulla terra del dono

il corpo di bosco
come incenso brucia
ardendo di ogni vita
fino all’ultima vita

Infine dal più recente Clorofilla, con Alessandra Cristiani, generato da questi versi:

sul sentiero della nostra fragile vita
la rosa canina chiede:
a che serve il tuo, il mio sguardo?
chi ci rivendica?

come richiamati a uno sguardo e ad una interrogazione generativa, a sentire le vibrazioni e le tensioni di un destino comune.

Frutto è la terra,

noi siamo i vermi
nati nel suo ventre

ne usciremo
insaziati

*

Si tratta di riconoscere la viltà di tutti gli Io della storia umana che hanno afflitto da sempre la magnifica terra. Si tratta di farla finita con gli specchi, con l’inconscio, con il destino. Forse non è possibile. Poiché tutto è pensiero, visione, scrittura… tutto è potere, tutto è platea e palcoscenico dell’uomo. Quanta cecità e quanta regressione dal sogno di Nietzsche di oltrepassare l’Uomo. Se un giorno apparirà una nuova specie di uomo, che chiamerò l’uomo minore, che poi è ciò che auspicava il filosofo, egli sarà, nel passo lento delle stagioni, in armonia col moto vitale che pervade tutti i viventi, ognuno dei quali è in se stesso integralmente vita.

 

 

Marcello Sambati

Marcello Sambati, poeta regista e drammaturgo, fondatore di luoghi teatrali reali e utopistici; protagonista del teatro italiano di ricerca degli ultimi trent’anni. Creatore nel 1980 di Dark Camera e del teatro Furio Camillo di Roma, ha collaborato con artisti della scena contemporanea nazionale ed internazionale. Ha pubblicato e messo in scena testi teatrali e sillogi poetiche tra cui Eros, Liebe (Dark Camera 1991), Carta dei respiri e Tavolette Apule (I Quaderni del Battello Ebbro 1996 e 1998), Prometheu e L’Opera delle farfalle (Flore & Faune 1998 e 2000), Natura Requiem e Tenebre (La Camera Verde 2009 e 2010). Esitazioni (Empiria 2016). Apparire, Essere (Spazio Oscena 2017) Del 2018 Margine, Meraviglia: la scena corporea di Marcello Sambati (Editoria & Spettacolo). Nel 2019 mette in scena Qualcosa da selvaggiamente sprecare e Atlante dell’attore solitario capitolo uno La marionetta.