Il grande schema del vivente sulla Terra

di Alessandra Cristiani

Alessandra Cristiani, "Child of tree", commissione per l'Accademia Filarmonica Romana, evento Opening Cage, Giugno 2012
Alessandra Cristiani, “Child of tree”, commissione per l’Accademia Filarmonica Romana, evento Opening Cage, foto di Alberto Canu, Giugno 2012

L’approfondimento in ambito performativo l’ho avuto incontrando la metodologia del danzatore giapponese Masaki Iwana, autore del Butō Blanc, un campo di ricerca nato e coltivato in risposta e in difesa della poetica del fondatore della nuova danza d’avanguardia nipponica degli anni Cinquanta: l’Ankoku Butō di Tatsumi Hijikata. Lo schema metodologico di base con il quale Masaki Iwana avvicinava i partecipanti dei suoi laboratori alla pratica delle immagini di danza da lui proposta, era indicato con il titolo: A life of a plant. Il diagramma esplorava poeticamente i diversi atteggiamenti corporei dell’essere umano affiancandoli ai fenomeni fisici presenti in Natura. L’essere umano alla pari di un seme, dopo un periodo di latenza necessario al suo formarsi, viene alla luce, sboccia e fiorisce e allo stesso modo, rispondendo all’intelligenza processuale della vita sulla terra, l’invecchiamento dell’uomo viene assimilato alla pianta, all’arbusto che appassisce e ancora, nell’incessante risonanza e intreccio tra elemento naturale e strategia artistica, l’energia calma, nobile, stabile, incarnata dalla donna viene evocata attraverso l’immagine di danza a leaf of lotus, l’elegante fiore giapponese, che poggiando sulle superfici acquose su una larga foglia orizzontale viene trasportato passivamente dalle correnti del fiume; e così a seguire per lo stato corporeo del polline, della nebbia, per l’immagine dell’arcobaleno…

Queste sono solo alcune delle analogie poetiche o delle metafore creative messe in campo dai suoi defined dance exercises. Masaki Iwana, maestro recentemente scomparso, ci invitava a una esplorazione percettiva e immaginativa della corporeità. Concretamente questo potersi vedere attraverso il filtro e l’oggettività dei meccanismi organici consanguinei alle sostanze in natura, innervava in ciascun allievo il desiderio di corrispondere autenticamente alla propria natura, alle proprie dinamiche e risorse, nella visione amplia di sé come essere umano e entità materiale, nel grande schema del vivente sulla Terra.
In questo approccio metodologico le sessioni di lavoro dance in nature alla sua Maison du Buto Blanc, dimora e centro di ricerca nella Normandia, erano di estrema importanza. Al lavoro in sala si alternava il lavoro all’aperto, nel terreno che circondava l’abitazione, per risvegliare e tendere ad un corpo ricettivo, metamorfico, totale del performer, per riportarlo al suo linguaggio libero, aperto, necessario. La Natura era la grande insegnante. Era necessario sacrificare la propria personalità, scartare qualsiasi volontà d’espressione, azzerare ogni intenzionalità per inserirsi oggettivamente, ritrovare un posto, un ruolo nell’orizzonte sensibile e tagliente del paesaggio naturale. A tal proposito conservo tutt’ora stralci di appunti, accostati in maniera incongrua, presi da un testo fra i più destabilizzanti del fondatore Tatsumi Hijikata: From Being Jelaous of a dog’s vein, dove risalta maggiormente lo sguardo irriducibile ai fenomeni in natura. Sono annotazioni che nel trascorrere degli anni di vita e di performance continuano ad essermi di sfida e nutrimento per il pensiero e fonte inesauribile di suggestione per la pratica corporea: «attraverso di loro sono in grado di andare vicino al mio desiderio… ciò che i miei occhi hanno visto là è semplicemente un’intimità con le cose che continuano a vivere le loro proprie vite e morire le loro proprie morti».
Nello specifico dell’esperienza quali erano gli strumenti preziosi verso i quali Masaki Iwana ci spingeva attraverso quelle esplorazioni? Quali erano i cardini della sua poetica e della sua strategia? Certamente sentirsi alla pari se non al servizio dei fenomeni naturali, rispettarli e considerarli dei partner creativi; in seconda istanza, in accordo profondo con questa attitudine fortemente sollecitata, ritrovare l’ascolto del proprio respiro, una predisposizione calma, porosa, radicata nell’essere, in sottrazione del gesto e dell’azione. L’affidarsi all’attesa, al vuoto, alla capacità di abbandonare ogni considerazione e idea di sé, ogni tecnica acquisita e lasciarsi semplicemente e radicalmente trasformare, sovvertire dalla condizione in atto. Si era alla ricerca della presenza, della temporalità, della consistenza e dello spessore, alla scoperta percettiva del silenzio. La frizione era evidente fra il tempo e lo spazio ordinario, il tempo e lo spazio lavorato in sala e l’esperienza sensoriale degli stessi elementi, ma percepiti nell’ordine della dimensione, di oggetti prismatici, diamanti percettivi con i quali dialogare.

Come performer porto la testimonianza di alcuni miei assoli, solitarie manifestazioni e rielaborazioni di questi fondamenti ricevuti. Tentativi, avvicinamenti, tradimenti innocenti. Miele fu il primo azzardo professionale e apparteneva ad una trilogia intitolata La fisica dell’anima. Francesca Stern Woodman, dedicata all’artista italoamericana. Il lavoro era la sua terza tappa e debuttò nello storico spazio del Rialto Santambrogio di Roma. Nel suo piccolo giardino un lungo telo e un corpo nudo poggiato su quella che sembrava essere una fonte battesimale consumata dal tempo e avvolta da edera. Sparsi dei contenitori in vetro di diverse grandezze, che contenevano foto scattate in differenti formati, in una città abbandonata. Il desiderio era sostare, sospendere la ritmicità del tempo. Avevo ricoperto alcune cavità del corpo e alcune foglie di un grande albero, abitante del giardino, con del miele in modo che colando suggerisse delle secrezioni assimilando l’umano al vegetale. Agli spettatori venne dato un bicchierino dello stesso nettare da gustare in qualsiasi momento della loro visita. L’azione era descritta come una installazione di corpo vivente e questo il suo breve testo che cercava di cogliere una sensazione tattile, corporea e visiva: «…e la materia ritornerà alla madre, all’archetipo… un deposito graduale, dolcemente intimo, in un tempo epico inesplorato… un nuovo Narciso ricercando l’immagine di Sé finirà per innamorarsi dell’oblio».
Da questo passo iniziale e in qualche modo lirico sono poi giunta, anni più tardi, a Clorofilla, che va invece collocato cronologicamente tra i lavori maturi e professionalmente tra i più crudeli. La performance desiderava essere una summa sensoriale dei materiali di studio e di visione ruotati intorno alla figura e alla metodologia di Masaki Iwana.
Clorofilla è il titolo della performance di danza che ha ripreso la questione del corpo scenico offrendolo nella sua fenomenologia più sfuggente. Per addentrarmi in questa direzione ho richiesto la preziosa partecipazione di un mentore del panorama artistico di Roma, il poeta e attore Marcello Sambati, che ha sempre ricordato, attraverso il rigore dei suoi versi, l’aspetto miracoloso e minaccioso dell’elemento vegetale e animale, fatto di squarci di senso e di apparizioni quasi sovrannaturali, elemento dal quale il genere umano non dovrebbe mai prescindere. Sostanzialmente la performance è percorsa da tre fuochi d’attenzione. Il primo atto manifesta la dimensione rarefatta che il corpo come fenomeno naturale, nel suo linguaggio organico, può mettere in campo nel dialogo ricco e sottile tra il visibile e l’invisibile. Il secondo nucleo si concentra sull’aspetto furioso, sregolato e imprevedibile del corpo animale; il terzo è al buio e nella sola voce di Marcello, dopo un quasi vuoto e un quasi pieno, che sopraggiunge come dato pacificatore, universale e ineludibile dell’esperienza umana. Della performance scrivevo:

«Il lavoro è guidato dall’urgenza di andare al di là della rappresentazione. La sua struttura in maniera disagevole è più vicina al nervo della vita che non alle norme del costume scenico. La qualità e gli strumenti del performer, disarmati, vengono sedotti dal fondo più fondo del fondo del nucleo, da quel luogo profondo dove l’odore acre del perdersi è già un ricompattarsi di fibre umane. Il tempo si smarrisce e diventa bagliore, rigurgito, neve, fiamma… Nell’opera i due luoghi fisici e immaginali sono la possibilità di cadere, cadere verso le radici… di essere l’oblio, di essere lo slancio, entrambi portano a un nuovo inizio. L’incandescenza del nucleo è la richiesta di quiete, di brillare luminosi come visioni… Poi arriva la notte e nel sentimento della notte cerchiamo la resa…».
La performance giocata nei suoi momenti in estrema vicinanza al pubblico, concludeva con un’ultima offerta e visione, avvistata in lontananza e marcando nello spazio un luogo più intimo, che rendeva possibile la sua graduale apparizione. Accadeva in un albore biancastro dove il corpo, quasi inerme, giaceva delicatamente su un manto di piume, in attesa di addormentarsi. Piano piano spariva ogni realtà, il sogno e l’utopia.

 

 

Alessandra Cristiani

Nomination Premio Ubu 2018 come migliore attrice o performer per gli spettacoli Clorofilla e Euforia. Dal 1996 indaga la pratica e il pensiero dell’Ankoku Butō. Con il progetto La fisica dell’anima. Francesca Stern Woodman vince il sostegno Scenari Indipendenti 2008. Nel 1997 riceve il Premio Excelsior come migliore attrice per il corto La foto, regia Sara Masi. Lavora come solista e stabilmente nella compagnia Habillè d’eau (Silvia Rampelli) che vince il Premio Ubu 2018 per la danza con lo spettacolo Euforia.

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