Ricominciamo dalla fine

di Graziano Graziani

foto tratta da geomagazine.it
foto tratta da geomagazine.it

Negli ultimi anni le narrazioni apocalittiche si sono susseguite senza sosta, nel mondo della fiction come in quello dell’informazione. Serie televisive di genere “survival”, disaster movie, lande desolate popolate da zombi e collassi della civiltà provocati da virus sono diventate all’ordine del giorno. Niente di nuovo, se pensiamo al fatto che uno dei primi romanzi dedicati al genere, La nube purpurea dello scrittore inglese M. P. Shiel risale al 1901. La differenza, però, sta nel fatto che il racconto apocalittico, a differenza di quanto avveniva centoventi anni fa, ha cominciato a far parte della griglia di racconto della realtà anche al di fuori delle speculazioni narrative o filosofiche. E, in molti casi, spinti da vere emergenze. L’antropocene, il cambiamento climatico, la fine delle risorse energetiche, lo scioglimento dei ghiacciai sono temi con cui abbiamo imparato a familiarizzare. A volte assumono toni allarmanti, in molti casi giustificati dall’analisi dei dati, ma molto spesso la comunicazione mediatica salta di crisi in crisi, di disastro in disastro, lasciando pensare che forse quell’emergenza fosse più la materializzazione di un’ansia interiore (disclaimer: non è così) che una reale situazione di emergenza. È successo con la pandemia da Covid 19, che ha scalzato la crisi climatica, e ora con la guerra in Ucraina, che ha scalzato la pandemia. Tuttavia ciò che resta è l’idea di fondo di un mondo complesso, in costante mutazione e sostanzialmente ingovernabile se non in velocità e sempre in condizioni “di emergenza”.
Lasciamo per un momento da parte la questione se tali emergenze siano o meno prevedibili, e dunque gestibili con maggior anticipo e oculatezza (disclaimer: sì, le emergenze sono spesso affrontate all’ultimo perché il sistema capitalistico che regge l’economia mondiale è parte del problema, contribuisce a produrle, ma non si ferma nell’accumulo finché la situazione non è davvero insostenibile, e a volte neanche in quei momenti). E proviamo a domandarci come sta cambiando l’orizzonte percettivo di questi anni confusi.
Prima di tutto bisogna fare una precisazione. La narrazione della “fine imminente” non è esclusivo appannaggio dei primi decenni del secolo XXI. È esistita nel medioevo una narrazione millenaristica e, più vicino a noi, la paura di un olocausto nucleare durante l’apice della guerra fredda tra Usa e Urss, negli anni Sessanta, ha reso quella prospettiva una griglia quotidiana attraverso cui guardare il mondo. Eppure, a differenza di oggi, all’epoca esisteva ancora una visione progressiva, psicologicamente “salvifica”, del futuro. Si pensava, cioè, che se l’umanità fosse riuscita a non autodistruggersi ci si sarebbe tutti mossi pian piano verso una società più giusta, più libera, più ricca, con più diritti per i singoli, da sempre schiacciati nel giogo ideologico di patrie e religioni. Non era ancora crollata, cioè, la fiducia nelle “sorti meravigliose e progressive” innescata dall’illuminismo e dalla rivoluzione industriale, che aveva iniettato in un mondo (occidentale) da sempre rivolto al passato, a un eden perduto da rimpiangere, una spinta verso il miglioramento delle condizioni materiali e un ottimismo attorno all’idea del futuro. La promessa della ricchezza, o della rivoluzione, perdurava ancora negli anni Sessanta, nonostante il mondo avesse perduto la sua innocenza verso la tecnica con le bombe di Hiroshima e Nagasaki.
Oggi, invece, quell’idea di futuro si è inceppata. Da questo punto di vista il nostro mondo vive davvero un “crepuscolo”, nel senso che De Martino dava all’idea di apocalisse: quella di apocalisse culturale. Non necessariamente una distruzione materiale – che potrebbe comunque sempre verificarsi, anche se è più probabile l’ipotesi di un lento e progressivo declino del sistema economico che ha retto finora le sorti del mondo – ma certamente una distruzione culturale, alla quale fa poi da contraltare una rinascita.
Che cosa ci affascina nel racconto della fine? Siamo partiti da questa domanda per coinvolgere gli autori e le autrici di questo numero di 93%, che di questo tema si sono occupati frontalmente o lateralmente, e da prospettive diverse. I racconti dell’Apocalisse (di cui si è occupato Andrea Esposito) vengono da epoche remote e non riguardano solo la nostra, che però ha sviluppato specifici ambiti di narrazione e coniato parole nuove – come l’Antropocene (di cui si sono occupati Matteo De Giuli e Nicolò Porcelluzzi) – per raccontarli. La nostra è una società che la morte la rimuove (ne dà conto Ginevra Lamberti nel suo reportage narrativo) e al contempo si fa sedurre da essa (Kulesku ci racconta le radici di questa ambivalenza). D’altronde non può che essere così, se è vero che intere generazioni di adulti sono cresciuti e maturati nell’idea della fine, dai baby boomers nati con lo spettro dell’olocausto atomico ai nati negli anni Ottanta, alla fine del secolo breve (generazione di cui ci dà conto Nicola Borghesi).
Il fatto è che la prospettiva della fine ci allarma e ci affascina in egual misura. E se la prima reazione è quella più razionale, non per questo la seconda è meno vera. La seconda, anzi, ci racconta di quanto la “tentazione” di una liberazione dalle griglie che l’umanità stessa ha creato per allontanare la morte e la malattia e per ampliare lo spazio della comodità e del godimento che la Natura (ma esiste un simile concetto da cui l’essere umano può concepirsi separatamente?) normalmente ci nega. Per dare conto di questa contraddizione mi piace citare la lettera di uno scrittore statunitense, Frederick Turner, poeta e autore di racconti fantascientifici (reputo la categoria degli scrittori sci-fi tra le più titolate a parlarci in chiave simbolica delle nostre angosce sul futuro). Negli anni Settanta Turner era in corrispondenza con l’antropologo teatrale Richard Schechner, sodale di Peter Brook ed esponente di quel “teatro antropologico” che è stato alla base di tanta ricerca nella performance dei decenni successivi. Schechner riporta questo scambio epistolare nei suoi scritti, per raccontarci come sta cambiando l’idea di futuro negli anni in cui prende piede il concetto di postmoderno.

«Siamo in grado di fare precise profezie, dipendenti soltanto dalla profezia di altre menti e di altre realtà organizzate; e la profezia è la stessa cosa dell’azione. Anzi, più semplicemente, dipende dalle nostre azioni quale delle alternative si avvererà. Il futuro non esiste ancora e la consapevolezza di ciò ci rende uomini pubblici e ci impone una sorta di impegno sociale. Perché se le cose vanno male, siamo noi i colpevoli. Il pretesto dell’impotenza non regge, il potere che hanno gli altri è creato dall’immagine che noi abbiamo di esso e nient’altro. Possiamo cambiare questa immagine, sostituendovene un’altra più attraente. Se saremo distrutti da una catastrofe nucleare o ecologica, la causa non sarà imputabile deterministicamente alla tecnologia, a un istinto innato o a una cospirazione delle potenze economiche militari della storia. Sarà perché l’abbiamo scelto, collettivamente, e l’abbiamo scelto perché ci sembrava il futuro più bello, più bello perché lo abbiamo immaginato così. L’arte ha la funzione di esaltare e di salvare il mondo, di immaginare altri futuri che non prevedono il götter-dammërung del suicidio di massa. E non faccio appello a leziosi principi morali o nonviolenti.
Questi non fanno altro che accrescere il desiderio del proibito. Nella fantasia, la maggior parte degli ecologisti freak sono degli assassini di massa. Amerebbero ripulire dalla faccia della Terra lo sporco, complicato, sconvolgente, pretenzioso, amabile cancro dell’umanità. L’olocausto nucleare attrae perché sconvolge la storia. Senza grandi sforzi di immaginazione, rende di colpo la nostra generazione più importante di quella di Omero, di Cristo o di Shakespeare. È l’ultima distruzione edipica, l’ultimo concerto punk.
Vuoi sapere cosa penso che accadrà se noi, gli artisti e i creatori di tutti i campi, non facciamo niente? Penso che saremo distrutti perché ce lo siamo proprio voluto.
È (una cosa) così a buon mercato!»*.


*(da La rottura del contesto performativo: un discorso moderno sul postmoderno, articolo pubblicato nel 1981 e raccolto nel volume La teoria della performance, Bulzoni, 1984 – traduzione di Valentina Valentini)