La fine del mondo

di Matteo De Giuli e Nicolò Porcelluzzi

immagine tratta dalla copertina di "Medusa" di De Giuli / Porcelluzzi
immagine tratta dalla copertina di “Medusa” di De Giuli / Porcelluzzi

Un paio di anni fa abbiamo partecipato a una mostra collettiva negli spazi di Manifattura Tabacchi a Firenze, ideando un percorso immersivo in cui i visitatori erano costretti ad attraversare una cacofonia di immagini proiettate su decine di schermi, scene che raccontavano la quotidianità sommersa di esseri umani e altri animali sul nostro pianeta in crisi. Erano video disturbanti e surreali, incredibili e autentici, estratti da YouTube, dagli archivi Rai, da spezzoni di film che noi avevamo deciso di affiancare per costruire una sorta di archivio mediatico sull’emergenza climatica. I titoli dei video, messi uno dopo l’altro nella brochure, creavano tutti insieme qualcosa di più grande delle parti, una poesia allucinata che cercava di dare un nuovo significato al vortice di racconti apparentemente slegati dal caos di internet: Cervo entra in una chiesa / Polpo video frammento lisergico / Incendio in California / Wet Market Wuhan / De Martino, Italia e magia / Bolla d’acqua sotto al prato / Simulazione del crollo della Diga delle tre gole.

Naturalmente perdersi tra tutti quei video lasciava un forte senso di inquietudine; naturalmente però era anche un’esperienza estetica a suo modo appagante. «Siamo nel vortice, e siamo il vortice», avevamo scritto; avevamo costruito una trappola, che lo volessimo o no, e quella trappola ci portava di nuovo a una domanda che ci girava in testa già da tempo, da quando avevamo aperto una newsletter su questi temi, dove raccontavamo (e raccontiamo ancora) gli intrecci culturali, letterari, politici e scientifici dell’impatto dell’uomo sulla Terra: come si evita il feticcio inutile dell’apocalisse, il fascino morboso per la fine del mondo?

Proprio in quei giorni abbiamo iniziato a lavorare al nostro primo libro: un saggio narrativo sull’Antropocene. Come avremmo scritto nel libro, è innegabile che gli esseri umani nutrano «un certo fascino per la fine, siamo sedotti dalla tragedia suprema perché rende prevedibili le minacce pendenti a mezz’aria, dà un nome alla nostra mortalità, dà un volto concreto alle nostre fobie; l’ansia dell’incertezza svanisce».

Un fascino della fine che, negli ultimi anni, non ha risparmiato laboratori culturali anche più raffinati dei blockbuster apocalittici; abbiamo assistito a una proliferazione di articoli e saggi sul tema, spesso anche rivelatori e molto interessanti, ognuno con il suo preciso aroma millenarista: c’è chi se la prende con la tecnologia, chi ne vuole accelerare il passo, chi celebra il vuoto spirituale, chi invoca la rivoluzione gnostica, psichedelica, la rivoluzione e basta. Abbiamo preso parte anche noi a questo balletto, cercando poi di fare ordine tra i nostri passi. E così, per esempio, nella disamina apocalittica, nel racconto dei vari modi della fine del mondo, alla fine abbiamo guardato alla nostra tradizione culturale, alla ricerca di una via “mediterranea” all’Antropocene. Tra gli altri, ci siamo rivolti a uno dei padri dell’antropologia italiana, Ernesto De Martino.

«Che altro vuoi che abbiano pensato gli Incas o gli Aztechi di fronte ai conquistadores spagnoli, questi marziani piovuti da chissà dove, se non che quella era la fine del mondo?». Si chiedeva De Martino, in una conversazione con Cesare Cases, sui Quaderni piacentini. “«Noi possiamo dire che era la fine del loro mondo, ma che cos’è la fine del mondo se non sempre la fine del proprio mondo?».

La fine del mondo c’è sempre stata: delocalizzata nel tempo e nello spazio, discreta. Online si possono recuperare diversi documentari etnografici ispirati alle sue ricerche, che esplorarono il legame tra Sud Italia e magia, possessioni, fatture, esorcismi, rituali che invece di scomparire si rafforzarono negli anni del boom economico, nelle comunità contadine e nei circoli borghesi di un meridione abbandonato – senza sviluppo e senza difese culturali collettive – davanti allo sconvolgimento della modernità.

Tutto quello che facciamo su MEDUSA si può inquadrare in una esplorazione continua della crisi della presenza demartiniana: vivere nel mondo degli uomini significa esserci, agire secondo dei codici, «operando e ri-operando il mai definitivo distacco dalla immediatezza della mera vita naturale». Fuori da questo spazio, al buio, si nasconde «il rischio radicale dell’essere-agito». Da chi, da cosa? Da un «agente occulto operante su un piano diverso da quello storico».
Detto questo, definire “apocalittici” i problemi del nostro presente (emergenza climatica, sesta estinzione, cicli pandemici, i conflitti che ne conseguono) oscura la loro dimensione sociopolitica ed economica. Anche nei casi apparentemente più freddi, biologici: dopo anni e anni di estetica della fine, di sperimentazioni letterarie, musicali e visuali, figurative, è apparso il virus feroce, invisibile ma capace di farci male solo esistendo. L’unica cosa che non si è bloccata del tutto, in questo biennio, è stato il mercato. I rami più alti dell’albero.

Il motore economico ha continuato a ronzare, a basso voltaggio, in un mondo che non sembra riflettere sulle sue storture, i nodi che strozzano l’albero. Alle radici invece, dove le basi di ogni cultura prendono nutrimento dall’ambiente che la ospita, dove l’uomo si mescola all’animale: lì, regna il caos.

De Martino capì che il passato non si lascia esiliare, che riemerge nelle lacerazioni e nei vuoti che si creano nelle transizioni tra un’epoca e l’altra, e che il pensiero magico è pronto a farsi strada tra le crepe.

Scrivendo cerchiamo di carezzare la superficie del presente che ci è capitato, alla ricerca di crepe, depressioni e nodi, come se il tempo – invece del fiume borgesiano di ferro – si presentasse così, come un ciocco. Cerchiamo le crepe, le superstizioni e le soluzioni, la paura della fine; scrivendo diamo fuoco a tutto.

 

 

Matteo De Giuli e Nicolò Porcelluzzi

Matteo De Giuli è senior editor del Tascabile. Scrive per diverse riviste culturali, cartacee e online. Ha collaborato con Rai3 e Radio3. 
Nicolò Porcelluzzi è editor del Tascabile, ha scritto per Internazionale e altre riviste. 

Insieme hanno scritto “MEDUSA. Storie dalla fine del mondo (per come lo conosciamo)” (Not, NERO editions, 2021).