Una questione collettiva
di Ginevra Lamberti
Cosa chiede chi vuole tornare indietro rispetto alla pandemia, magari autoconvincendosi che questa non esiste? Cosa chiede chi invoca una presunta normalità? E chi non vuole parlare della guerra né pensare alla guerra, anche se questa scoppia alle porte di casa? Togliendo ogni strato superfluo, la richiesta centrale di queste voci sembra essere: torniamo a quando potevamo non pensare alla morte tutti i giorni, in ogni momento.
Se fosse espressa in questi termini – in termini dunque espliciti, che presuppongono una profonda autocoscienza – la domanda avrebbe un suo senso. Si tratterebbe di un altro modo per dire: come facciamo a sopportare il pensiero costante della morte se, come società, non abbiamo più gli strumenti per elaborarlo?
La negazione della mortalità è un argomento su cui provo a ragionare da un tempo antecedente quello pandemico. Ufficialmente dal 2018, ufficiosamente da tutta la vita. La data ufficiale coincide con il periodo in cui ho iniziato a lavorare alla stesura di un romanzo che, a volerlo definire con maggiore precisione, può essere chiamato reportage narrativo. Si intitola Perché comincio dalla fine ed è uscito per Marsilio a settembre 2019, pochi mesi prima che la morte tornasse ad abitare in modo massiccio anche il quotidiano di chi occupa le aree più privilegiate e longeve del pianeta. Perché comincio dalla fine sonda il tema della morte, e delle pratiche contemporanee del lutto, attraverso una serie di interviste a persone che il lutto lo frequentano a vario titolo. Lo fanno per professione, per curiosità, o perché prima o poi di perdere qualcuno succede a tutti, e a quel punto può capitare di interrogarsi.
Maneggiando questi temi noto che – sì, è vero – quasi nessuno vuole parlarne, ma – a ben guardare, in realtà – quasi chiunque non vede l’ora di farlo. Quella al voler raccontare, chiedere e sapere è una spinta istintiva che si muove in contrapposizione all’abitudine al diniego. Ci abitano entrambe, ed entrambe vanno ascoltate. Ragionare di fine ci mette in contatto con paure profonde che non hanno a che fare solo e necessariamente con la morte fisica. Perdere la stabilità, il lavoro, la casa, una terra che deve essere lasciata, una persona che non vuole più condividere il suo percorso con noi, perdere la salute o un pezzo del nostro corpo sono tutte possibilità che hanno a che fare con il lutto, e alla cui ipotetica realizzazione guardiamo con orrore. Tuttavia la fine ci strega, perché è imprescindibile. Riguarda le nostre esistenze biologiche, ma anche la struttura delle storie che raccontiamo e la forma di tutte le cose che conosciamo (una giornata, un anno accademico, un appuntamento). In tutti i casi la fine è forse ancora più carica di aspettative rispetto all’inizio. L’inizio è una promessa, la fine dovrebbe essere il suo mantenimento sotto forma di percorso compiuto nel migliore dei modi possibili. Vale per quanto pretendiamo da un libro, vale per quanto desidereremmo dalle nostre vite.
Nel 2018 ho dunque preso a scrivere Perché comincio dalla fine e buona parte del lavoro è consistito nell’ascoltare. Quello che ho compreso è che la morte dell’individuo è importante perché non è mai solo la morte dell’individuo. C’entra con il concetto di comunità e di rete sociale, più ancora che di famiglia in senso stretto. C’entra con il radicale cambio di abitudini piccole e grandi che segue la fine di una struttura organica e psichica tanto unica quanto insostituibile. Ci sono tre interviste, in particolare, che nel libro sono contenute e che esprimono con chiarezza la relazione tra morte dell’individuo e famiglia, società, mondo.
La prima è l’intervista a Simona Pedicini, che è una tanatologa (dunque una studiosa e ricercatrice nel campo della morte) e una tanatoesteta. La tanatoestetica è la professione di chi si occupa della pulizia, vestizione, trucco e incassamento della salma. Si tratta in altre parole di togliere dai corpi i segni visibili della morte, per concedere ai vivi l’opportunità di un ultimo saluto che sia meno traumatico possibile. Quando parliamo, sedute al tavolo di una trattoria a pochi passi dalla stazione di Firenze Santa Maria Novella, Pedicini racconta il suo lavoro e a un certo punto dice: «mi è capitato di manipolare il corpo di una transessuale. Per suo desiderio voleva essere incassata vestita da donna (…), ma la famiglia ha deciso di vestirlo come era nato. L’unica cosa su cui ho insistito fino alla fine è che ci fosse almeno una parte di lei, e ho avuto le unghie colorate».
La seconda è l’intervista a Ines Testoni, filosofa e psicoterapeuta, fondatrice e direttrice del Master in Death studies dell’università di Padova. Quest’ultima ha evidenziato fino a che punto il processo del morire – come dimostrano i dibattiti sulle dichiarazioni anticipate di trattamento (conosciute anche come testamento biologico), il diritto alla terapia del dolore, l’eutanasia –, sia inevitabilmente connesso con la necessità di rapportarsi alle istituzioni.
La terza intervista sono in realtà due interviste. Quella ad Anselma Lovens, rappresentante della cooperativa Boschivivi, e quella ai designer creatori del progetto Capsulamundi. Boschivivi opera in provincia di Genova gestendo un appezzamento di bosco in collaborazione con la Forestale. Grazie a un bando, di quell’area hanno fatto un cimitero verde in cui è possibile disperdere le ceneri dei defunti per interramento. Il principio è quello di scegliere un albero quando ancora siamo in vita, e così facendo scegliere di riunirci alla terra in un ecosistema protetto e tutelato. I designer di Capsulamundi hanno invece progettato una bara-seme biodegradabile. All’interno di questa la salma viene riposta in posizione fetale, seppellita e, nel processo di decomposizione, alimenterà la crescita di una pianta. Sarebbe una soluzione perfetta per le cosiddette sepolture naturali, ma le sepolture naturali di corpi non cremati al momento in Italia non sono concesse.
Il morire e la morte non sono dunque, come si potrebbe pensare di primo acchito, questioni unicamente private. Coinvolgono gli affetti diretti e il modo in cui possono sostenere le nostre scelte o interferire con esse. Si intrecciano con le leggi dello Stato. Possono essere gestite in modo più o meno eco-sostenibile, e dunque fare più o meno male al pianeta Terra. Ancora una volta, ragionare di morte ci affascina e ci spaventa perché vuol dire ragionare di vita. Superare i timori e abbracciare un confronto con il più inconoscibile dei temi è a maggior ragione importante oggi, perché significa recuperare la capacità di pensare in termini sociali e collettivi. L’istante del morire lo si compie forse da soli, ma pensare al morire si può fare insieme.
Ginevra Lamberti
Ginevra Lamberti è nata nel 1985 e vive a Vittorio Veneto. Dopo La questione più che altro (nottetempo, 2015) con Marsilio ha pubblicato Perché comincio dalla fine (2019, premio Mondello 2020). I suoi romanzi sono tradotti in Germania, Francia, Regno Unito, Cina e Brasile. Scrive per Domani.