Che fine ha fatto il futuro?
di Graziano Graziani
Con una forza icastica e allo stesso tempo ironica il poeta e critico letterario canadese e statunitense Mark Strand affermava già nel 1970 che “il futuro non è più quello di una volta” (the future is not what it used to be è l’ultimo verso di una sua poesia inclusa nella raccolta Darker). Non è quindi una dimensione inedita quella che stiamo vivendo, un momento della Storia in cui sembra particolarmente complicato addentrarsi nelle nebbie del futuro. Ma nella crisi immaginativa che sembra aver colpito l’Occidente – proprio nel momento storico in cui questa stessa area del mondo partorisce un profluvio di narrazioni cinematografiche, letterarie e di ogni altro genere – ci sono forse dei caratteri diversi, peculiari, che distinguono questo tempo dai millenarismi che lo hanno preceduto.
Partiamo dalla fine: è vero, viviamo un’epoca che sta facendo i conti con un senso di finitezza e precarietà particolarmente intenso, in cui le narrazioni apocalittiche sono diventate una delle narrative centrali della scienza e della riflessione filosofica, dell’arte e dell’intrattenimento di massa, fino a sfiorare la banalizzazione del concetto stesso di apocalisse, la sua normalizzazione che in fondo si traduce con l’anestetizzazione della stessa idea di fine. Ma, appunto, non è la prima volta che questo avviene: non è la prima volta, cioè, che le società sognano la rottura finale, la distruzione edipica senza redenzione dell’intero genere umano. Ma quello che sta accadendo è che, nel raccontare questo senso di inquietudine, sembra che le immagini e le simbologie stiano venendo meno.
Nel provare a raccontare la crisi climatica, gli sconvolgimenti ambientali, le grandi migrazioni – e l’effetto che tutto questo ha sulla psiche delle persone – le narrazioni odierne sembrano tornare con insistenza a modelli del Novecento, della fantascienza classica e del cinema anni Quaranta e anni Ottanta (un decennio, questo, dove all’inquietudine di certe immagini cupe e nefaste si accompagnava un certo gusto divertito tipicamente pop che oggi sembra essere molto lontano da noi). È come se fossimo ingabbiati in una coazione a ripetere delle forme perché, in fondo, più che il futuro in sé – che è qualcosa di ciclicamente critico, poiché le “fini del mondo” riguardano, prima ancora che le catastrofi, le estinzioni culturali, come ha ricordato Ernesto de Martino – è il concetto di futuro ad essere entrato in crisi.
Il concetto di futuro, la possibilità immaginativa di fare ipotesi su ciò che avverrà, con tutti i suoi corollari di speranza e di disperazione, è una delle capacità – secondo antropologi, filosofi e neuroscienziati – con cui la nostra specie ha imposto il suo dominio sul mondo materiale. La trasformazione, la tecnica, la progettazione nascono da lì. Il futuro è quindi un potenziale trasformativo prima ancora che un elenco di possibilità. Un potenziale che, a partire dall’epoca moderna, è diventato un ideale: positivista, scientista, politico. La promessa di un mondo migliore, più giusto, o perlomeno di una migliore amministrazione della cosa pubblica, è la costante che innerva i discorsi dei politici di qualunque schieramento. Nessun politico chiederà di guardare al passato (all’età dell’oro, come accadeva nell’antichità) poiché il senso stesso della figura sociale del politico è essere un evocatore del futuro.
Se quel futuro non sappiamo più evocarlo, allora, la crisi oltre che ecologica è epistemologica, politica, immaginativa. E allora vogliamo chiederci cosa ci sfugge di questa crisi e cosa invece ci accompagna nelle narrazioni letterarie, cinematografiche, musicali, teatrali che segnano il nostro presente. I contributi di Pier Paolo Di Mino, Andrea Pocosgnich, Danilo Zagaria e Claudio Kulesko si muovono in differenti campi dell’arte e del sapere ma lungo lo stesso crinale, cercando di rispondere alla domanda: che fine ha fatto il futuro?