Scavare la parola fino a ridurla come un torsolo di mela

di Graziano Graziani

Bosco Verticale a Milano

Viviamo un’epoca apparentemente schizofrenica. Alcune istanze politiche di cambiamento di questi ultimi anni, dai femminismi all’ecologismo, hanno conquistato una visibilità crescente, riuscendo ad orientare dibattiti, lessici e urgenze nella società e a smuovere le acque anche al livello delle istituzioni, senza che questo tuttavia abbia prodotto una crepa reale nel nucleo di rapporti di potere, innanzitutto economici, su cui disuguaglianze e sfruttamento poggiano. Di fronte a una retorica “vincente” a livello sociale assistiamo spesso a una riformulazione dei discorsi, più raramente delle prassi. Si potrebbe dire niente di nuovo sotto il sole, in fondo tra le istanze di cambiamento e la loro effettiva applicazione esiste sempre uno iato. Eppure oggi alcune parole d’ordine dell’ecologia o dei diritti civili sono penetrati stabilmente nella comunicazione quotidiana. È come se vivessimo due realtà contemporaneamente, una prima, dove la necessità di cambiamento si afferma con la sua potenza retorica, e una seconda, dove le condizioni che generano quegli stessi problemi proseguono indisturbate la loro azione sul mondo. Certo, viviamo in società complesse e plurali, dove spinte e controspinte di visioni contrapposte convivono, si confrontano e a volte si scontrano, ma se limitiamo il discorso alla rappresentazione della realtà, al suo racconto – che è poi la dimensione di cui facciamo maggiore esperienza al di fuori della nostra sfera privata e lavorativa –, la contraddizione rivela non tanto un pluralismo della società, quanto una continua e sotterranea mistificazione.
Anche qui niente di nuovo. Dagli studi sulla propaganda della Scuola di Francoforte, passando per le creative denunce di movimenti come il Situazionismo, che praticava una guerriglia comunicativa per rendere evidente la manipolazione intrinseca alla comunicazione politica, industriale, culturale, sono stati moltissimi, nei decenni, i contributi alla decostruzione della comunicazione mainstream. Quello che caratterizza il presente, tuttavia, è una velocissima assimilazione di concetti e parole chiave dei discorsi progressisti – come la necessità di transizione ecologica, o l’empowerment femminile – al mero scopo di creare una solida patente reputazionale da immettere sulla piazza del dibattito pubblico. Non assistiamo più soltanto alla costruzione di una narrazione che sostenga le posizioni di chi continua a portare avanti processi produttivi inquinanti o di chi giustifica politiche urbane classiste in virtù della rigenerazione delle città; quello che ci troviamo di fronte è il tentativo di presentare queste stesse posizioni come la scelta “più progressista” possibile. Non a caso, nel tempo, sono emersi concetti come greenwashing, pinkwashing e rainbowashing, per denunciare pratiche di marketing volte sostanzialmente ad ottenere un posizionamento presso un pubblico genericamente progressista, o sensibile a certe istanze di cambiamento, o ancora per presentare aziende e programmi in modo coerente a quanto richiesto in chiave ecologica (spesso, purtroppo, solo sulla carta) da istituzioni e bandi internazionali.

Quello a cui assistiamo, dunque, è un conflitto di retoriche che, per altro, poggia su contraddizioni reali. Fermarsi alla superficie delle istanze di rinnovamento può portare a dei cortocircuiti spiazzanti, come è stato per l’elezione della prima premier donna in Italia, una battaglia storicamente di sinistra che è stata incarnata da un’esponente di destra come Giorgia Meloni: se il dato storico rimane indiscusso, occorre però valutare le politiche sostanziali per capire se si tratta di un governo a favore o contro l’emancipazione femminile (e mentre scriviamo si dibatte sull’aumento dell’iva per gli assorbenti). La richiesta di pulizia, sicurezza e dinamismo per il proprio quartiere – tutte richieste sensate e comprensibili per chi vive in una metropoli dove i conflitti e le difficoltà gestionali sono sempre una scommessa – può trasformarsi nel cavallo di troia di politiche classiste, di allontanamento dei ceti poveri e di occultamento delle contraddizioni di un sistema che è, a sua volta, il primo generatore dei disagi che pretende di sanare. E via discorrendo.

Per questo, nel numero di novembre di «93%», abbiamo voluto scandagliare in vari settori della vita pubblica questo “conflitto di retoriche”, che cerca di disinnescare le richieste più radicali di cambiamento di un sistema – capitalistico, classista, patriarcale – attraverso lo svuotamento delle parole d’ordine con cui quello stesso sistema viene criticato. Lucia Tozzi affronta il tema della rigenerazione urbana attraverso un’analisi dell’estetica del “carino”, che vede coinvolti non solo i ceti più abbienti, ma anche i ceti medi e persino gli artisti, che prendono parte alla costruzione di immaginario che contribuisce a gentrificare i quartieri delle nostre città. A cavallo con le teorie green, ma sempre dentro il conflitto urbano, Sarah Gainsforth affronta il grande cortocircuito simbolico dei “boschi verticali”, come modello che coniuga il lusso e una finta patina ecologica. Mentre Monica di Sisto, numeri alla mano, fa i conti con le contraddizioni dei grandi programmi mondiali sulla transizione ecologica e della effettiva strategia – il più delle volte ad alto impatto ambientale – delle grandi compagnie commerciali, che magari vantano anche un profilo “green” certificato. Infine Elisa Cuter si addentra nel maquillage del pinkwashing non solo come strategia di marketing, ma come vera e propria ideologia delle classi dominanti, dove qualunque istanza può essere agevolmente ribaltata nel suo contrario, o usata come strumento retorico per un diverso fine politico.
Chi usa le parole sa che esse possono subire, al pari delle cose tangibili del mondo, una pesante usura. È un processo in parte inevitabile, che appartiene al normale evolversi della storia, delle relazioni e dei termini che le raccontano. Alle volte, però – ed è questa l’indagine che abbiamo proposto alle autrici di novembre – questa usura è uno stress calcolato e una precisa strategia politica.