Racconto dei paesaggi laterali

di Graziano Graziani

Crateri in un poligono di esplosioni sotterranee nucleari del Nevada. Da
https://it.wikipedia.org/wiki/Robust_Nuclear_Earth_Penetrator

L’indagine sul paesaggio scarsamente antropizzato, condotta attorno a quei luoghi che vengono ridisegnati dall’abbandono, dove albergano tracce più o meno antiche delle comunità umane che li hanno abitati come se si trattasse di stratificazioni geologiche, è un elemento particolarmente fecondo della riflessione artistica e antropologica di questi ultimi anni. È vero, il fascino per i luoghi abbandonati non è affatto recente, ha interessato generazioni di artisti e scrittori, ma oggi ci troviamo difronte a qualcosa di diverso, perché – segno anche di una sensibilità che muta – le riflessioni di artisti e studiosi si sono rivolte soprattutto agli effetti di questa assenza, spogliando l’abbandono dal romanticismo che lo ha avvolto per riconsegnarlo a una visione più ampia, che mette in discussione la centralità dell’essere umano nella storia del pianeta. È quasi impossibile oggi concepire luoghi “incontaminati” sulla Terra – con l’inquietante polisemia che questa parola si porta dietro in epoche di inquinamento globale e cambiamenti climatici – ma non è affatto impensabile trovare luoghi dove l’attività umana si è ritratta, si è fatta meno percettibile, oppure le sue tracce hanno finito per fondersi (e confondersi) con i processi di rimodellamento dell’ambiente. Un ambiente che non è più “paesaggio”, nel senso armonico e ordinato che diamo a questa parola, armonia e ordine quasi sempre frutto dell’intervento umano; ma diventa spazio ibrido, informe, per così dire, anello di congiunzione tra il selvatico e lo spazio organizzato. Un luogo, per definizione, di possibilità – ecologiche, di biodiversità, ma anche di generazione di immaginario.
Nella serie di riflessioni sulle “prospettive non umane” condotta quest’anno da 93%, allora, non poteva mancare un affondo sul paesaggio, che è spazio del possibile proprio nel momento perde la sua mitizzazione contrassegnata da aggettivi come “naturale”, “intatto”, “vergine” e decostruisce la contrapposizione tra purezza e contaminazione che contrassegna il senso di colpa dell’essere umano (che così facendo si mette ancora una volta al centro della narrazione). È ovviamente sempre lo sguardo umano a cogliere questa ricontestualizzazione, sono le parole degli esseri umani a descriverla, ma in questo atto di allontanamento dal centro del discorso si fa spazio una concezione del vivente più complessa, interdipendente, dove l’elemento umano è uno tra gli altri, in grado di interagire in una rete di relazioni anziché indirizzare ogni sforzo al controllo e al dominio dello spazio e della vita che lo attraversa.
Gli sguardi qui raccolti nascono da prospettive differenti. Annalisa Metta proviene dal campo dell’architettura ed ha di recente pubblicato un volume – Il paesaggio è un mostro – dove riflette sulle nature ibride e le città selvatiche, un’esperienza urbana che sta diventando sempre più presente, utilizzando la metafora dell’immaginario fiabesco, mitologico, sovrannaturale o contronaturale. Qui riflette sui «paesaggi di vacanza», nel senso di sospensione dell’attività che li caratterizza, sia essa un’interruzione programmata o improvvisa; una smobilitazione che si traduce in possibilità. Azzurra D’Agostino, poetessa che ha riflettuto sul tema della sottrazione della presenza umana in uno suo libro di alcuni anni fa – Canti di un luogo abbandonato – smitizza l’idea di desolazione e si concentra su una presenza umana che non scompare del tutto, ma che sembra ritrarsi mano a mano, lasciando tracce che si fondono con il territorio. Lo spopolamento, allora, non è né il luogo del fascino romantico né quello della rigenerazione rispetto alla città, ma una polarità differente, anche difficile, con la quale confrontarsi per potervi entrare in relazione. Marina Caneve, fotografa e artista, si è concentrata sui paesaggi “laterali” rispetto ai centri del potere, partendo (come pure D’Agostino) da una condizione biografica, di persona che vive luoghi del genere, oltre ad esplorarli artisticamente. E anche in questo caso si va oltre l’idea di un “naturale” segregato e contrapposto rispetto all’artificiale delle città, con il racconto di un progetto – Bridges are beautiful – che ha documentato una serie di “corridoi ecologici” transnazionali voluti dall’Unione Europea, per consentire tra le altre cose agli animali l’attraversamento in sicurezza di quelle barriere invalicabili, come le autostrade, create dall’attività umana. Infine Sarah Gainsforth racconta il libro dell’autrice scozzese Cal Flyn, Isole dell’abbandono, che raccoglie alcuni viaggi in luoghi dove la presenza umana è stata di forte impatto, a causa dello sfruttamento industriale o delle catastrofi ecologiche, rilevando come dopo anni di abbandono emergano sulle macerie nuovi affascinanti ecosistemi.
Quattro racconti dell’ambiente e del paesaggio in mutazione, dove è proprio l’assenza di progettazione a dischiudere delle possibilità, complesse, a volte difficili, al di là di qualunque semplicistica e romantica semplificazione.