Sdraiata per terra in mezzo agli animali

di Marina Caneve

Un orso nero che usa il sottopassaggio sulla US 93 nel Montana. Foto fornita da MDT, CSKT e WTI-MSU – https://www.themunicipal.com/2019/05/itd-eyes-potential-animal-detection-systems-wildlife-crosswalks

Uscire dalla dicotomia natura-paesaggio con l’uomo che domina – o magari neanche necessariamente domina ma sta da una parte a guardare – mi risuona nella testa come un mantra; tuttavia, pensando a come ci rapportiamo al paesaggio seguendo le logiche di una gerarchia animale, cercando di dominarlo e controllarlo, pensandolo come qualcosa di esterno a noi, ecco questo mi fa sentire il bisogno di ripetere il mantra a lungo e intensamente.
Stefano Mancuso in La nazione delle piante ci propone di ripensare le nostre gerarchie per il futuro facendo riferimento al sistema vegetale ramificato piuttosto che a quello animale gerarchico. Sempre di più chiedo questo al mio lavoro, di affrontare i temi attraverso una pratica (1) ramificata, laterale e contaminata – una pratica lontana dall’idea di opera unica, immagine iconica e unidirezionale. Mi sembra necessario guardare al paesaggio come luogo di contraddizioni che sono poi naturalmente, come ci ha ampiamente insegnato l’esperienza della Scuola italiana di paesaggio (2), specchio della contemporaneità. Il paesaggio è dunque tutt’uno con noi, gli uomini sono paesaggio, il cemento è paesaggio, gli oggetti sono paesaggio: il paesaggio e la natura sono esattamente qui dove viviamo noi, sarebbe forse violento pensare di separarci (3).
Assecondando tutte queste idee, con la mia pratica di fotografa e artista, mi sforzo di guardare al paesaggio non tanto come a qualcosa di maestoso da ammirare e raggiungere, né tantomeno cercando in esso scene drammatiche, quanto prediligendo le stratificazioni di esperienze. Il paesaggio di cui mi occupo è un paesaggio secondario, ovvero quello che emerge in risposta al principale, tradizionale, stereotipato, le cui immagini e definizioni non fanno altro che rispondere a dei desideri.

Tra il 2015 e il 2019 ho lavorato ad un progetto sul rischio idrogeologico nelle Dolomiti, Are They Rocks or Clouds?, abbandonando integralmente l’idea della montagna sublime, celebrativa e iconica per abbracciare invece un immaginario frammentario ricco di stratificazioni di esperienze – vernacolare, tecnico-scientifica, osservativa – rispettivamente ripercorrendo la memoria storica degli eventi accaduti nel passato, confrontandomi con l’antropologia, esplorando la visione geologica e tecnologica che ha a che vedere con analisi, monitoraggio e protezione e affidandomi all’intuito che ho sviluppato nel tempo interrogandomi sui codici visivi della fotografia documentaria e sulla storia delle campagne fotografiche pubbliche e, successivamente, private o autoalimentate. Storia alla quale fanno capo esperienze come la «Mission Héliographique» (1851), la prima committenza fotografica pubblica che coinvolse cinque noti fotografi francesi dell’epoca per assecondare l’esigenza di disporre prima di uno strumento per individuare i monumenti di pregio messi in pericolo dall’azione del tempo o danneggiati e successivamente sovrintendere al loro restauro, e la «Farm Security Administration», agenzia creata nel 1937 dal governo americano come organismo per combattere la povertà rurale durante la Grande Depressione, famosa soprattutto per il suo piccolo ma molto influente programma fotografico, fino ad esperienze più recenti dove la fotografia è stata messa in dialogo con altre discipline come le analisi urbane, la letteratura, il suono, le altre arti visive. Abbandonare il paesaggio dei desideri per guardare con empatia mi è sembrata l’unica operazione possibile da fare per insinuare un ragionevole dubbio rispetto al modo in cui siamo abituati a guardare al paesaggio e dunque ragionare sulle sue criticità. Il distacco rispetto alla rappresentazione tradizionale e l’effetto che essa ha su di noi mi ha permesso in altre parole di lavorare sul come capiamo l’ambiente e in questo caso sulla ricerca della decifrazione di un ambiente a rischio (4).
Are They Rocks or Clouds? cita uno dei racconti sul mondo alpino di Dino Buzzati, in cui l’autore scrivendo «Sono pietre o sono nuvole? Sono vere oppure è un sogno?» sintetizza la confusione che esiste tra reale e immaginario, nonché la difficoltà di fronte alla quale siamo posti quando ci dobbiamo confrontare con la lettura di un paesaggio; abbandonare la fascinazione e lavorare con visioni e discipline diverse è servito a innescare cortocircuiti di senso e visione.
Ho iniziato a provare interesse per questo tipo di paesaggio laterale, emergente e lontano dai centri di potere probabilmente per un sentimento di appartenenza e affezione legato a ragioni biografiche (5). Non tanto per un sentimento di rivendicazione ma per un’idea di collisione di esperienze che data la mia esperienza personale mi sembravano in qualche modo ovvie.
In ogni progetto infatti mi aggrappo gelosamente ad una definizione di Robert Adams che compare in Beauty in Photography: Essays in Defense of Traditional Values (6), che recita «credo che le immagini di paesaggio possano presentarci tre verità: la verità geografica, quella autobiografica e quella metaforica. La geografia di per sé stessa è a volte noiosa, l’autobiografia spesso banale, e la metafora può essere equivoca. Ma prese insieme (…) questi tre tipi di informazione si rafforzano a vicenda e alimentano ciò che tutti cerchiamo di mantenere intatto: l’attaccamento alla vita». Robert Adams, noto per il suo impegno ecologista, ci ricorda che ogni immagine di paesaggio è una metafora, una geografia e che in ognuna dovremmo ricercare anche una connessione con la nostra autobiografia, che non significa tanto che dobbiamo lavorare nelle geografie che conosciamo quanto piuttosto che ogni volta che lavoriamo sul paesaggio dovremmo ritrovare dei punti che siano rilevanti a partire dalla nostra esperienza individuale.
Tutti questi elementi sommati a un’affezione per l’atteggiamento di tender cruelty, empatico ma mai pietistico (7), più una costante messa in discussione del ruolo delle immagini, in particolare delle immagini che direttamente mostrano il dolore (8), spiegherebbero il mio attaccamento ai microcosmi, ai luoghi secondari ma soprattutto a un modo di guardare mai diretto e frontale. Di nuovo, il paesaggio, e in particolare i paesaggi marginali, sono intorno a noi per ricordarci i nostri fallimenti, gli errori di valutazione, le speculazioni, la nostra impotenza o volontà di sopraffare che è in qualche modo una metafora del fallimento del pensiero antropocentrico (9); tutto questo ha molto a che vedere con i luoghi in cui sono cresciuta, ecosistemi meravigliosi ma anche estremamente fragili.

Nei progetti più recenti ho ricercato proprio questa confusione tra immaginario e quel che può evocare, tra ruoli e narrative dominanti. Spostandomi verso territori fisicamente lontani dalla montagna (10) la mia idea di paesaggio si è sempre più evoluta in qualcosa che ha a che vedere con uno strumento di riflessione sulle nostre libertà e sul rapporto con gli altri viventi a partire da domande che intersecano rappresentazione e geografie. Spostare l’asse da che cosa sia il paesaggio verso che cosa ci serve rappresentare del paesaggio mi sembra fondamentale per guardarne la rappresentazione con fluidità e abbracciare il fatto che la fotografia di paesaggio non necessariamente va fatta con un grandangolo, macchina fotografica su cavalletto, altezza occhio o magari più alta, linea dell’orizzonte dritta ed esposizione perfetta: è per me piuttosto un lavoro sulla complessità in cui intercorrono relazioni e visioni angolari.

Insieme ad Are They Rocks or Clouds?, che si è concluso nel 2019, dal 2015 lavoro anche ad un altro progetto ancora in corso che nasce dalla necessità di confrontarmi in un luogo altro dalla montagna con le modalità che stavo sperimentando: Bridges are beautiful (working title). Mossa da una provocazione, ovvero la proposta di realizzare una nuova serie a patire dal tema «Paradise» ho iniziato a sviluppare una riflessione sulla rete Natura 2000 come espediente per ricercare il posto che l’essere umano occupa all’interno della natura.
La rete Natura 2000, nata in risposta al peso e frammentazione generata da infrastrutture viarie e politiche nazionali, è costituita da una serie di corridoi ecologici promossi dall’Unione Europea, creati per preservare la fauna, la flora e la biodiversità. È un sistema di comunicazione transnazionale che va oltre le politiche di confine di ogni Stato e mette al primo posto logiche ecologiche. I ponti sono alcune delle infrastrutture più importanti della rete, poiché consentono agli animali di superare più facilmente le barriere architettoniche come autostrade e strade. Al tempo stesso, più recinzioni e telecamere di sicurezza monitorano e seguono i loro movimenti, mettendo in dubbio la loro apparente libertà di movimento.
La serie prende come pretesto la rete di ponti per gli animali, che di per sé sono una sorta di contro-infrastruttura che va a interporsi tra l’infrastruttura principale della viabilità e le riserve naturali. In questa rete secondaria rivedo il progetto utopico del Monumento Continuo immaginato da Superstudio tra il 1969 e 1970 per riportare ordine cosmico sulla Terra e l’idea di connessione attraverso un unico oggetto architettonico. Questa contro-infrastruttura mi spinge a riflettere sul paesaggio da molteplici punti di vista: da un lato su come disegniamo il paesaggio per noi e per gli altri (11); come lo rappresentiamo e il ruolo della fotografia e delle immagini nella rappresentazione; che cosa ci permette di evocare. La serie infatti include diverse tipologie di materiali, dalle fotografie di spazi naturali ispirate ad una visione tradizionale del paesaggio, a immagini ispirate ai codici della fotografia di architettura, nonché istantanee in infrarosso di animali catturati dalle telecamere di sorveglianza installate dai ricercatori sui ponti che alla base non hanno altro valore che di documento.
Il progetto esplora le tensioni che emergono dal potere che gli esseri umani cercano di esercitare sulla natura non solo attraverso le immagini, ma anche attraverso la costruzione di un apparato di ricerca teorica che esplora le relazioni contraddittorie che emergono nella costruzione di infrastrutture, le politiche, la libertà di movimento e la conservazione della natura.
I ponti faunistici in questo lavoro stanno sempre più diventando un pretesto per esplorare i cambiamenti del paesaggio, attraverso l’infrastruttura, attraverso la loro immagine (12), ma anche attraverso le trasformazioni della vegetazione. In effetti come disegniamo il paesaggio per noi e per gli altri diventa quasi un ossimoro se pensiamo che il paesaggio che disegniamo per gli animali viene poi riplasmato empiricamente e casualmente attraverso una secondaria circolazione di vegetali che avviene attraverso i semi attaccati alle pellicce o presenti negli escrementi degli animali in movimento.
Inoltre non serve ricordare che gli uomini fin dai tempi antichi utilizzavano storie di altri animali per parlare di loro stessi e come la fauna spessissimo sia stata strumento straordinario per proiettare noi stessi ed evocare questioni che hanno a che vedere con il nostro stare nel mondo.
Nella primavera 2022, in occasione di una committenza della Direzione Regionale Musei Lombardia, mi sono trovata a riflettere sul Parco Nazionale delle Incisioni Rupestri di Naquane e in particolare proprio sulla rappresentazione del paesaggio prima dell’avvento della prospettiva; il paesaggio nelle incisioni rupestri non era tanto fatto di finestre, sezioni, sottrazioni, quanto piuttosto di sistemi in cui gli uomini erano in rapporto con la fauna, i simboli e le cose che costruivano. Kafka in una delle Lettere a Felice scrive: «(…) se non ti fossi sdraiata per terra in mezzo agli animali, non avresti potuto contemplare il cielo stellato e non ti saresti salvata». Per i camuni, per esempio, il paesaggio non è mai tableaux che inquadra ma un insieme di presenze che raccontano lo spazio non meno bene di una fotografia grandangolare e perfettamente esposta, scattata dal punto in cui loro all’epoca si trovavano sdraiati a incidere cervi, cani, volpi, cinghiali e uccelli acquatici sulle rocce. Ragionare sulla rappresentazione del paesaggio attraverso le incisioni rupestri mi ha permesso di stabilire una connessione con quello che stavo facendo con la rete ecologica e focalizzarmi su come la rappresentazione degli animali ancor più diventi in sé e per sé lavoro sul paesaggio. L’empatia che generano gli animali in chi li guarda, forse, a causa del loro sguardo bilaterale può essere un fortissimo sottile ma profondo veicolo di critica politica e sociale.

Lavorando a questo progetto, che sta sempre di più diventando un progetto a capitoli, dove la libertà di movimento, il nostro rapporto con gli altri animali, la vegetazione e la storia delle immagini si fondono, si va delineando una narrazione del paesaggio totalmente non frontale, né idilliaca né tragica, quanto piuttosto contaminata e ricca di frizioni, contraddizioni visioni angolari e frammenti.

(…) selvatici anche dove sembra impossibile.
I giardini invisibili, Antonio Perazzi


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1. Fotografia

2. La cosiddetta Scuola italiana di paesaggio è costituita da quel gruppo di fotografi che a cavallo tra la fine degli anni ‘70 e l’inizio degli anni ‘80 ha focalizzato la sua attenzione nello spazio urbano e in particolare come metafora della rivoluzione sociale. Solo per citare alcuni autori in ordine alfabetico: Gabriele Basilico, Mario Cresci, Luigi Ghirri, Guido Guidi. Come autrice il mio lavoro trova origine in questa Scuola.

3. Concetto apparso in Marco Petroni, intervista con Timothy Morton, La natura è un concetto razzista, “Domus”, 2 marzo 2019.

4. In alcuni contesti viene insegnato che la montagna è sublime, in altri pericolosa, in altri ancora bucolica. Mi è sembrato che non ci potesse essere un paesaggio più adatto a questo tentativo di sradicamento di un immaginario preconfezionato che la montagna. In effetti, a posteriori, mi sono trovata nel 2019-2020 a lavorare ad un ulteriore progetto, Entre Chien et Loup, che rifletteva sull’immagine stereotipata della montagna a partire dagli archivi del Museo Nazionale della Montagna Duca degli Abruzzi di Torino e in qualche modo mi sono trovata a confrontarmi con l’idea di molteplici immagini stereotipate, spesso anche antitetiche.

5. Sono nata alle pendici delle Dolomiti, paesaggio che mi è sembrato assolutamente ordinario fintanto che non sono andata a vivere a Parigi nel 2011 e ho dovuto cominciare a visualizzarlo per raccontarlo alle nuove persone che entravano nella mia vita e mi chiedevano da dove venissi. Credo di essermi posta lì, per la prima volta, il problema della rappresentazione del paesaggio.

6. R. Adams, Beauty in Photography: Essays in Defense of Traditional Values, 1996, ed. italiana La bellezza in fotografia. Saggi in difesa dei valori tradizionali, p.8

7. Ossimoro coniato da Lincoln Kirstein negli anni 30 per parlare del lavoro del fotografo americano Walker Evans

8. Susan Sontag in Regarding the pain of the others ci ricorda che “nessuno può pensare e al tempo stesso colpire un altro essere vivente”

9. Non a caso la profezia di Benjamin Labatut recita «Le piante, nutrite all’eccesso da un’umanità in soggezione, sarebbero state libere di crescere a oltranza, proliferare ed espandersi sulla superficie della Terra fino a ricoprirla interamente, soffocando qualsiasi forma di vita sotto una terribile cappa verde». B. Labatut, Quando abbiamo smesso di capire il mondo (Adelphi, 2021). Titolo originale, in spagnolo, Un verdor terrible)

10. Che non è nient’altro che un pretesto per ragionare sulla comprensione dell’ambiente e la collisione tra esperienze diverse.

11. In questo caso specifico per gli altri animali

12. Tuttavia ci sarebbero una serie di parentesi da aprire rievocando per esempio storie di non comunicazione tra Paesi come quella dell’orso Bruno, ripopolato in Italia ma poi ucciso in Germania.

 

 

 

Marina Caneve

Marina Caneve, fotografa, esplora in che modo prende forma la nostra conoscenza attraverso un approccio basato sulla ricerca e sulla multidisciplinarietà. I suoi lavori sono esposti nelle collezioni di Istituzioni come MUFOCO, MiBACT, ICCD, National Mountain Museum. Insegna al Master IUAV in Fotografia e a Spazio Labò. Fra le sue pubblicazioni: Are they Rocks or Clouds? (Fw:Books), Di roccia, fuochi e avventure sotterranee (Quodlibet/Ghella), The Valley Between Peaks and Stars (Quodlibet), The Shape of Water Vanishes in Water (A+Medizioni). È co-fondatrice della piattaforma multidisciplinare CALAMITA/À (2013-ongoing), e membro della MAPS agency.