Germogli tra le macerie – “Isole dell’abbandono” di Cal Flyn

di Sarah Gainsforth

Atollo di Bikini nelle Isole Marshall
Atollo di Bikini nelle Isole Marshall

Farfalle e falene «aleggiano sull’isola come nuvole di fumo», conigli, rondini e piccioni selvatici «si appropriano di vecchi edifici militari», mentre foche grigie, gazze marine, gabbiani tridattili e urie prendono ognuna il proprio posto sulle scogliere. Sono alcuni degli animali che popolano Inchkeith, un’isola a sei chilometri da Edimburgo, in Scozia. L’isola, lunga meno di un chilometro, fu sporadicamente occupata da militari inglesi e poi francesi e sprofondò nell’oblio dopo la Seconda Guerra Mondiale. Non interessava più a nessuno. Così la natura se ne è riappropriata.

«Se questo è un libro sulla natura, non è di quelli che decantano estasiati il fascino dell’incontaminato» ci avvisa subito Cal Flyn, la giornalista scozzese autrice di Isole dell’Abbandono, Vita nei paesaggio post-umano (Blu Atlantide, tradotto da Oddenino), un reportage in alcuni dei luoghi «più misteriosi e desolati del pianeta». Sono luoghi segnati dalla distruzione umana, da guerre e disastri ambientali, sono paesaggi contaminati, inquinati, zone di esclusione sconvolte dalla presenza dell’uomo, e poi abbandonate. Ancora, ambienti urbani segnati da declino economico e demografico, terre che cambiano con il mutamento delle pratiche agricole. Sono dodici le isole di abbandono che Flyn visita nel corso di due anni per scoprire che cosa succede quando ce ne siamo andati, che cosa succede quando, finalmente, lasciamo in pace la natura.

Scopriamo, passo passo, straordinari processi di rinaturalizzazione in atto. Flyn li racconta in dettaglio alternando alle descrizioni appassionanti digressioni storiche e scientifiche. È una prospettiva entusiasmante, scrive Flyn: «i benefici per l’ambiente legati all’assenza di persone sono incredibilmente superiori rispetto ai danni provocati da inquinamento o campi minati».

In Scozia, tra gli scarti della produzione di petrolio di scisto che segnano il paesaggio con cumuli rocciosi, vere e proprie vette di rifiuti, fanno capolino ninfee, betulle e una rarissima varietà di orchidee che si può trovare soltanto in tre località della Gran Bretagna, tutte post-industriali. La crescita avvenuta qui, ci spiega Flyn, è partita da zero – «nessun suolo fertile, niente di niente». Le specie sono arrivate portate dai venti o dagli uccelli. Nell’atollo di Bikini, utilizzato negli anni Cinquanta dagli americani per esperimenti nucleari, grazie all’assenza umana è fiorito nel tempo un rigoglioso ecosistema sottomarino. Allo scalo di Tempelhof, a Berlino, hanno trovato casa «334 specie di felci e piante da fiore, e poi volpi, falchi, tre specie di scarabei fino ad allora sconosciute, e un ragno raro precedentemente osservato solo in alcune caverne del sud della Francia». Ancora, una discarica, e una zona di produzione e collaudo di dinamite, sono diventati luoghi di straordinaria biodiversità. «Tali scoperte hanno portato a un cambiamento radicale nel modo in cui guardiamo il mondo ecologico intorno a noi» scrive Flyn. «Queste zone venivano viste, essenzialmente, come sprechi di spazio – terreni trascurati, inadatti all’agricoltura, difficili da attraversare per i viaggiatori – ed erano oggetto di interventi di ‘miglioramento’ che le trasformavano in campi agricoli produttivi». In questi spazi, bollati come scarti, germoglia la vita. E il nostro punto di vista, mentre ci addentriamo in queste isole dell’abbandono e apprendiamo i nomi delle specie che vi abitano, cambia. È la conoscenza, ci dice Flyn, che «rafforza l’apprezzamento» e modifica la nostra percezione di questi spazi, che modifica il nostro gusto.

«I luoghi esteticamente sgradevoli, come le aree industriali abbandonate, possono insegnarci un modo nuovo e più sofisticato di concepire l’ambiente naturale: tralasciando l’aspetto pittoresco e le attenzioni che gli sono state dedicate e concentrandosi invece sulla sua virilità ecologica. Dopo aver imparato ciò, il mondo appare molto diverso. Posti che a un primo sguardo definiremmo ‘brutti’ o ‘privi di valore’ possono rivelarsi profondamente importanti dal punto di vista ecologico, e la loro bruttezza o la loro mancanza di valore potrebbero essere proprio le qualità che li hanno preservati e salvati da riqualificazioni o cure troppo zelanti, e quindi dalla distruzione».

In questa nuova luce la mania “del bello” e dell’ordine artificiale, quella che ci porta di estirpare piante ed “erbacce” che crescono spontaneamente nelle crepe nei marciapiedi delle nostre città (ma anche tigli e fichi “abusivi” come ha fatto la giunta Raggi a Roma) mentre «ci ostiniamo a mantenere quelle ornamentali, costose e inadatte», appare davvero insensata. In un’ottica ecologista, le operazioni di abbellimento non sono sostenibili. La High Line di New York, per esempio, non ha nulla di “naturale” se non l’apparenza. Quella che era la ferrovia sopraelevata che tagliava la città è stata trasformata in un giardino dove la vegetazione spontanea è stata estirpata e sostituita da «innesti naturalistici che cercano di ricreare l’esperienza emotiva dell’immersione nella natura», come si legge – racconta Flyn – sullo stesso sito web della High Line. «Qui convivono piante che in natura non si incontrerebbero mai, interrate in un terriccio preconfezionato. I giardinieri sradicano le erbacce, innaffiano, potano, correggono, modellano. L’intervento umano è costante e molte condizioni del sito sono artificiali». È un impulso curatoriale nocivo dal punto di vista ambientale, secondo l’autrice scozzese, che ricorda come nel 1967 lo storico Lynn White sostenne che le radici della nostra attuale crisi ecologica possono essere ricondotte all’arroganza giudaico-cristiana nei confronti della natura.

Se lasciata a sé stessa, la natura se la cava benissimo. Barbagianni, piccioni, volpi e falchi abitano una città fantasma nella zona cuscinetto a Cipro. A Variseia, un villaggio cipriota abbandonato, i mufloni, ridotti a poche decine nel ventesimo secolo nonostante lo status di simbolo nazionale, hanno occupato le case vuote; oggi si stima che siano tremila o più. In Estonia le strisce di terreni coltivabili hanno lasciato spazio alla foresta. Qui è in atto un processo di riforestazione delle terre collettivizzate e coltivate prima del crollo dell’Unione Sovietica, nel 1991. Da allora un terzo dei terreni agricoli sovietici, per un’area grande quanto la Francia, è stato abbandonato. La copertura arborea in Estonia è cresciuta dal ventuno percento del Paese, nel 1920, al cinquantaquattro percento nel 2010. Questo processo è avvenuto in molte aree del mondo. Negli Stati Uniti, ad esempio, il disboscamento era al suo apice nel periodo di Vita nei boschi sul lago Walden di Henry David Thourea: «persino la capanna di Thoreau fu costruita in una radura recentemente disboscata, e lui stesso lavorò come agrimensore degli appezzamenti confinanti, lottizzando i terreni pronti per il raccolto». Nel 1997 i terreni agricoli nel nord-est degli Stati Uniti erano un quarto di quelli coltivati nel 1880. Ma se l’abbandono rurale è in aumento, questo non significa che siamo esenti da responsabilità: non c’è abbastanza terra per assorbire tutta l’anidride carbonica che stiamo producendo. «Al momento, le foreste sono in declino in circa un terzo dei paesi del mondo, stabili in un altro terzo, e in crescita nell’ultimo. È molto rassicurante pensare che dobbiamo semplicemente aspettare che due terzi del mondo si mettano in pari», scrive Flyn.

Sappiamo che ci vorrebbe ben altro per invertire la rotta, mentre il mondo torna a parlare di possibili guerre nucleari. A Pripyat, la città evacuata dopo il disastro di Cernobyl, «i palazzi emergono come isole di cemento da un mare di verde» – betulle, aceri, pioppi. Qui è stata evacuata una zona grande quanto la Cornovaglia che comprendeva due città e settantaquattro villaggi. Dopo qualche stagione, sono tonati linci, cinghiali, alci, castori, gufi reali. Non si tratta, di nuovo, di una assoluzione – ci vorranno 270 anni prima che il cesio e lo stronzio tornino a livelli relativamente sicuri. Piuttosto, secondo l’autrice scozzese il ritorno delle piante e degli animali è la prova che «i benefici legati all’assenza degli umani hanno un peso di gran lunga superiore rispetto ai danni» delle radiazioni.

Anche le città possono essere isole di abbandono. A Detroit ottomila case sono vuote, e diciannovemila sono state demolite. Interi isolati, edifici e aree un tempo industriali sono rimaste deserte dopo che la crisi economica, nella seconda metà del secolo scorso, ha investito la città simbolo dell’industrializzazione americana, trainata dalla produzione automobilistica. Oggi, dopo il tracollo, più di 62 dei 360 chilometri quadrati della città sono in stato di abbandono. È il tanto temuto “degrado” che affligge le città, il risultato anche di interventi di “rinnovamento urbano” calati dall’alto che hanno rotto quei legami comunitari che, come le radici delle piante estirpate, tengono insieme il tessuto sociale – scrive Flyn (rialzandosi dopo essere inciampata sulla teoria delle finestre rotte, secondo cui il degrado genera la criminalità, una teoria da tempo confutata). Gli orti nei lotti vuoti e i murales sui fianchi di edifici disabitati sono la traccia che la vita resiste, e si riappropria, curandolo, dello spazio urbano.

Prima ancora di Detroit, l’epicentro del capitalismo e dell’America moderna era stata Paterson, capoluogo della Contea di Passaic nello Stato del New Jersey. «Nel ventre della collina furono scavati canali, condotte, dighe e chiuse in grado di portare gli impetuosi flussi dal salto d’acqua alle bocche affamate dei mulini, e sulle rive sorsero le strade della prima città di fondazione industriale d’America». Oggi Patterson è il simbolo del declino dell’industria manifatturiera, «dei lasciti tossici dell’epoca industriale»; è il «punto zero del capitalismo americano». Qui gli spazi sono abbandonati ma non vuoti, ci mostra Flyn, guidandoci attraverso aree industriali dismesse abitate da una popolazione di persone senza casa, o semplicemente in fuga, in cerca di una forma di libertà. Qui c’è la povertà. Ancora, attraversiamo raffinerie petrolifere e cantieri navali dismessi, cimiteri di relitti di barche affondate nel fango, aree di rifiuti tossici, ex concerie, ex fonderie, fabbriche di vernici, stabilimenti chimici e farmaceutici, cartiere, stabilimenti che hanno contaminato il terreno con sostanza altamente nocive come la diossina. Eppure ci troviamo pesci serra, weakfish, tautog, pesci gatto e pescecani, tossici granchi blu e una nuova tipologia di killifish tollerante agli agenti inquinanti. «La si potrebbe chiamare ‘selezione innaturale’. Gli scienziati preferiscono ‘evoluzione rapida’».

Come le falene sulle betulle di Manchester, che si fecero nere quando l’inquinamento ricoprì la città a metà Ottocento, così le specie si adattano rapidamente al mondo stravolto dagli umani. Se l’evoluzione avviene per caso, da secoli ormai «gli uomini sono l’unico vero fattore evolutivo» a cui tutto deve adattarsi. Come le piante cosiddette iperaccumulatrici che crescono nei siti contaminati, dove la violenza delle guerre ha lasciato ordini e veleni, assorbendo metalli pesanti – un’azione di fitorisanamento più preziosa di una bonifica, illustra Flyn. Ancora, sono gli esseri umani a introdurre le specie “aliene” che alterano ecosistemi come di Amani, in Tanzania, dove le forze coloniali tedesche crearono un guardino botanico trapiantando duemila specie. Qui, nella foresta, «è in corso una battaglia al rallentatore» tra specie aliene e specie autoctone. Dalla contaminazione nascono nuovi ecosistemi – neoecosistemi creati dall’uomo, ma autosufficienti. Che fare? Accettarli, o intervenire eliminando le specie aliene? Il dibattito è aperto, ma Flyn sembra propendere per la seconda opzione anche perché, ribadisce, dobbiamo svestire i panni di amministratori della terra che decidono chi vive e chi muore e che gestiscono il pianeta come un enorme giardino botanico. Gli umani giocano a essere Dio. Sotto il nazismo due scienziati si misero in testa di creare, attraverso un processo di selezione genetica, l’uro, l’antenato della mucca, che si sarebbe stinto 1627 (fu una delle prime estinzioni mai registrate). Del resto, se è vero che il bestiame da allevamento è stato selezionato geneticamente nel tempo, che il processo di addomesticamento è il risultato dell’azione umana, si sarebbe potuto fare il contrario, e risalire alla mucca primigenia. A quanto pare i tedeschi vi riuscirono, ma gli animali non vissero a lungo: furono di nuovo sterminati nel bombardamento dello zoo di Berlino. Quello che Flyn ci racconta di prima mano, invece, è l’affascinante processo di inselvatichimento di una mandria di bovini rimasta sola sull’Isola di Swona, a largo della Scozia. Mentre visita l’isola disabitata, da sola con gli animali, Flyn è attaccata e respinta da uno stormo di uccelli. La natura, ci ricorda, è minacciosa.

Viaggiamo ancora in spazi dimenticati dalla civiltà, in comunità temporanee e mobili, dove forse alcuni già abitano come se il disastro fosse già successo. Ma il libro, ci dice l’autrice, si concentra sui risvolti positivi – sull’erba che cresce tra le crepe del marciapiede. «Non posso certo fingere di non vedere il catastrofico, irreversibile cambiamento globale causato dalle azioni umane». Ma quello che il suo sguardo ci offre è qualcosa che va oltre le previsioni apocalittiche e le rappresentazioni immaginarie del disastro. È più interessante. È il racconto di cosa avviene dopo di noi, di che cosa succede davvero quando non ci siamo, quando abbiamo distrutto e abbandonato parti del pianeta. «Dovunque abbia guardato, dovunque sia stata – posti piegati e distrutti, depredati e desolati, inquinati e avvelenati – ho visto nuova vita germogliare dalle macerie di quella precedente, una vita ancora più curiosa e preziosa in virtù della sua resilienza», scrive Flyn. Non è per noi un lasciapassare, ma un raggio di speranza.

 

 

Sarah Gainsforth

Ricercatrice indipendente e giornalista freelance. Scrive di trasformazioni urbane, abitare, diseguaglianze sociali, gentrificazione e turismo. Ha scritto per Internazionale, La Repubblica, L’Espresso, Il Manifesto, Valigia Blu, FanPage, Roma Today, Dinamo Press e Jacobin Italia.  È autrice di Airbnb città merce, Storie di resistenza alla gentrificazione digitale (Derive Approdi, 2019), finalista Premio Napoli 2020, e Oltre il turismo, Esiste un turismo sostenibile? (Eris Edizioni, 2020). Vive e lavora a Roma.