Animali, aporie e antropocene

di Graziano Graziani

foto di Valentin Jorel / unsplash

Esiste una certa corrispondenza, che non sorprende ma che produce effetti per nulla scontati, tra una certa crisi che attraversa la narrazione di storie – sia essa letteraria, teatrale, cinematografica – e una coscienza ecologica che tende a riscrivere non solo l’orizzonte politico, ma anche quello ontologico, in cui si inscrive l’esperienza umana. Certo, parlando i “crisi” occorre precisare che cosa intendiamo: quello che stiamo vivendo è un momento in cui lo story telling, il memoir, le serie televisive che reinventano i generi si moltiplicano e moltiplicano i loro pubblici. Eppure molto spesso queste narrazioni spesso ricalcano stancamente degli schemi conosciuti, in cui è facile capire dove si va a parare, siano esse storie familiari, di relazioni sentimentali o che seguano lo schema del racconto d’avventura. La saturazione delle narrazioni, da un certo punto di vista, riflette la saturazione del mercato, in una società occidentale dove si annodano fenomeni contrastanti non ancora del tutto decifrabili nella loro portata (come la scolarizzazione di massa e una certa tendenza all’analfabetismo di ritorno, la disponibilità di risorse da destinare al consumo culturale e una tendenza all’impoverimento della classe media e alla polarizzazione della società tra super ricchi e frange sempre più povere). In questo contesto il senso stesso del raccontare storie ha mutato forma e attraversa un certo senso di smarrimento più che comprensibile. Ma una parte di questo smarrimento, a ben guardare, si evidenza non tanto come l’incapacità di registrare le grandi mutazioni del presente; piuttosto è esso stesso un segnale, un sintomo, di un cambiamento di sensibilità già in atto. La crisi ambientale – e, in senso più ampio, l’idea di Antropocene – ha ridisegnato il ruolo e le ambizioni di Homo sapiens proiettandole in un contesto più ampio, non antropocentrico e ricco di interrogativi ai quali è ancora difficile fornire una risposta. È in corso una frattura cognitiva che si riverbera anche sulle storie che continuiamo a raccontare nei libri, al cinema, a teatro e che proietta l’umano in una più ampia sfera ecologica ricca di rischi e di possibilità. La scienza, dal canto suo – e la maggiore attenzione che le stiamo dedicando nel dibattito pubblico – ha contribuito a precisare questa frattura e illuminarne le implicazioni. E chi oggi è alla ricerca di storie da raccontare non può non registrare questo movimento tellurico che attraversa il pensiero di molti.
Questo secondo numero della serie di 93% dedicata alle “prospettive non umane” si concentra sulla sfera animale e, già nello scrivere questa frase, ci troviamo di fronte a un’aporia: anche noi, come homo sapiens, siamo parte della sfera animale ma, allo stesso tempo, continuiamo a percepire noi stessi come qualcosa di profondamente separato da essa. Questa contraddizione è un indicatore dei processi mentali con cui concepiamo il mondo. Ma, nello stesso tempo, il rapporto con gli animali – i viventi più simili a noi – è quello che in modo più facile e intuitivo riesce a riconnetterci con un orizzonte più vasto, dove lo sguardo umano sul mondo non è più l’unico possibile (o l’unico degno di essere tenuto in considerazione). Alcuni indicatori, come le leggi in favore dei diritti degli animali, concepiti come soggetti di diritto e non come “proprietà”, e il progredire di pratiche una volta marginali come il vegetarianesimo, ci parlano di una sensibilità collettiva in profonda mutazione. Vale allora la pena indagare questa mutazione e cercare di capire come sta influenzando il nostro racconto del mondo.
Per farlo siamo partiti dalla filosofia, la disciplina che negli anni si è maggiormente interrogata sulla portata di questo cambiamento cognitivo, e lo abbiamo fatto coinvolgendo Simone Pollo che in alcuni saggi (come Manifesto per un animalismo democratico) ha cercato di tracciare le implicazioni politiche di questa metamorfosi della sensibilità collettiva. Enrico Pitzianti, che da anni osserva le evoluzioni della street art e dell’arte pubblica, analizza il lavoro di tre artisti come Crisa, Tellas e 108 per raccontare come già oggi le nostre città siano intrise di immaginario animale grazie ai mondi che questi artisti fanno affiorare dai muri dello spazio pubblico. Il progetto «ri-creatures» raccontato dalla curatrice Ilaria Mancia, invece, ci porta dentro un singolare cortocircuito di immaginari tra luoghi e visioni: la scelta di far “tornare gli animali” nello spazio dell’ex Mattatoio di Roma, dove un tempo venivano uccisi per uso alimentare, è una vera e propria riscrittura artistica che mette a confronto epoche e sensibilità. Infine Riccardo Corcione traccia una parabola degli spettacoli teatrali che hanno cominciato a fare i conti con l’animalità come estensione della sfera del vivente che ridisegna i confini umani, come quelli della compagnia FC Bergman e di Sergio Blanco.
Insomma, il processo è in corso. Sta a noi cogliere le opportunità della crisi per trasformarla in orizzonte più ampio.