Prospettive non umane: l’oceano

di Graziano Graziani

Canale di Beagle 2015, foto di Lorenzo Pavolini
Canale di Beagle 2015, foto di Lorenzo Pavolini

Chiudiamo la riflessione sulle “prospettive non umane” che ha caratterizzato questa annata di 93% con un’esplorazione scientifica, letteraria e reportagistica dell’oceano. La frontiera meno conosciuta tra le tante esplorate dalla specie umana, potremmo dire, e già questa affermazione suona come un paradosso, poiché ciò che caratterizza davvero il pianeta che abitiamo sono proprio le sue acque: il pianeta blu è tale a causa del riflesso delle acque che lo ricoprono per oltre il 70 percento della sua estensione, più di due terzi. Eppure, come notano diversi degli autori e delle autrici di questo numero, si sanno più cose di luoghi extra-terresti come la Luna di quanto si conosca il più grande spazio della nostra idrosfera. L’oceano è un ambiente misconosciuto, maltrattato tanto per incuria e per scarsa conoscenza, oltre che – naturalmente – per la voracità della nostra specie che non si ferma alle risorse alimentari ma riguarda anche l’estrazione di carburanti fossili, attività che ha un effetto domino sull’alterazione degli equilibri dei fondali. Eppure l’oceano è uno dei motori essenziali della vita sulla Terra, oggi lo sappiamo con maggiore definizione scientifica, ma è una realtà evidente che ha albergato nella coscienza dell’uomo fin dall’antichità. Si fa risalire a Talete, nella cultura occidentale, la definizione dell’acqua come principio generativo della vita – e oggi in effetti sappiamo che gli organismi viventi si sono generati proprio negli oceani primordiali, poco meno di quattro miliardi di anni fa –; ma probabilmente il filosofo greco aveva assorbito credenze precedenti, egizie e babilonesi, ma anche in Cina e nel Pacifico abbondavano i miti acquatici, tanto che spesso la cosmologia rappresentava il nostro mondo conosciuto come sorretto da una tartaruga d’acqua.
Per la sua vastità, inaccessibilità e determinazione della vita l’oceano è anche un potente generatore di simbologie, che ci mettono in contatto con la parte più misteriosa della nostra coscienza. Nella mitologia greca le acque erano un elemento così centrale da essere governate da un dio che era quasi al pari di Zeus, suo fratello e figlio degli elementi ancestrali Crono e Rea. Oggi sappiamo quanto questo elemento condizioni anche quella che era considerata la manifestazione di potenza del padre degli dei, ovvero i fulmini, e quanto sia proprio lo stato alterato degli oceani – dalla fusione dei ghiacci alla maggiore acidità delle acque, che non assorbono più l’anidride carbonica come un tempo – a generare quegli eventi climatici estremi che stanno diventando oramai sempre più quotidiani e rivoluzionano il clima, manifestando con un simbolismo arcaico la mutazione degli ecosistemi.
Se le “prospettive non umane” che abbiamo indagato in questi mesi ci hanno rivelato una nuova posizione dell’esperienza umana nel racconto dell’esistenza, questa posizione oscilla pericolosamente tra la centralità e l’indifferenza. Da un lato stiamo vivendo la prima era in cui l’attività umana è in grado di lasciare tracce geologiche sull’evoluzione del pianeta, il cosiddetto Antropocene, che eleva l’umanità a una forza quasi divina; dall’altro c’è l’indifferenza delle forze planetarie nei confronti delle sorti di questo primate che ha colonizzato le terre e le acque, ma che nonostante questo è così fragile da poter essere spazzato via come ogni altra forma di vita. C’è una sfocatura profonda nei discorsi che a volte si sentono sui media, pur mossi dal desiderio di stimolare una coscienza ambientalista: «dobbiamo salvare il pianeta» è una formula che rimette al centro di tutto l’essere umano, quando invece un pianeta alterato definitivamente potrebbe tranquillamente continuare in un’epoca extraumana, con organismi più adatti alle temperature calde e alle concentrazioni di anidride carbonica nell’atmosfera: saremmo semplicemente noi, a sparire.
L’oceano, con la sua vastità e indifferenza, simboleggia maestosamente questa condizione. Il numero si apre proprio con una considerazione sulla «noncuranza del pianeta per la nostra esistenza», che si prova soprattutto a contatto con le acque estreme, raccontate da Lorenzo Pavolini nel suo racconto reportage dal canale di Beagle, nella Terra del Fuoco, dove due oceani si toccano e lasciano intuire tutta la loro forza. È di fronte a essa che il marinaio si riscopre come «membro della specie», più che come individuo singolo dotato di una propria storia.
Topografie come “canale di Beagle” e “Terra del Fuoco” aprono una serie di connessioni di storie di esplorazione e scoperta, da Magellano a Darwin, e richiamano una mitologia mai sopita che è intrisa nelle storie dell’oceano, quelle dove l’essere umano rimpicciolisce e lascia spazio a una dimensione più grande. Sono storie che si sono rincorse nella mitologia e nella letteratura dall’antichità all’epoca contemporanea. Ne dà conto Matteo Trevisani, in una cavalcata che attraversa il mito della balena del profeta Giona e i personaggi di Achab, in Moby Dick, e di Santiago, ne Il vecchio e il mare, fino alle inquete mitologie lovecraftiane della città morta di R’leyh, che si trova non lontano dal Polo dell’inaccessibilità, il punto più lontano da qualunque terra emersa. Sono storie di simbologie e mistero che riverberano nell’inconscio umano come una forma di cattiva coscienza per le narrazioni che mettono l’essere umano al centro delle cosmogonie.
Sarah Gainsforth recensisce l’ultimo numero di «The Passenger», dedicato interamente all’oceano, raccontando storie nascoste, invisibili agli occhi dei più, eppure di profondo impatto sul pianeta, come il traffico di merci via mare o le trivellazioni che accelerano gli sconvolgimenti in corso. Sconvolgimenti che, con dovizia di particolari e piglio allo stesso tempo divulgativo ed evocativo, Danilo Zagaria inanella in una concatenazione di eventi, di cause e di effetti, che toglie il fiato e che incede implacabile, come una “ballata” che appunto dà il titolo al suo intervento. «Ciò che succede al mare non resta al mare» sentenzia all’inizio e alla fine del suo discorso, ed è un tassello limpido e preciso delle nostre “prospettive non umane”, che allargano lo sguardo oltre l’umano e la sua narrazione consolatoria o autogiustificantesi, ma che alla fine dei conti la condizione umana investono e riguardano profondamente.

 

___
Le foto che illustrano il numero sono di Lorenzo Pavolini, che ringraziamo. Sono state scattate nell’aprile del 2015 tra il canale di Beagle, Puerto Williams e in navigazione verso lo stretto di Le Maire.