Quasi Capo Horn
di Lorenzo Pavolini
L’oceano quaggiù è più simile a un bosco che a un deserto. La vita ribolle nonostante il gelo. Gli animali sono ovunque, anche se non lo danno troppo a vedere. A differenza delle distese marine tropicali, che per qualità desertica fanno degli incontri con altre creature, o con altre imbarcazioni, dei miraggi. Un atollo all’orizzonte ti interroga a lungo sulla questione della sua consistenza reale. Nell’oceano antartico sembra invece tutto molto più tangibile ed evidente. Ma non per questo meno indifferente. Perché comunque, somiglino più a boschi che a deserti, gli oceani restano spazi dove avverti tutta la noncuranza del pianeta per la nostra presenza. Una indifferenza totale.
Sarà la suggestione di questo canale, intitolato al brigantino dove si imbarcò Darwin (il Beagle, 27 metri, tre alberi), ma nel percorrerlo verso est hai la chiara percezione di essere accompagnato per mano, come genitori decisi ad abbandonarti, dalle due sponde di paesaggio maestoso. Catene di montagne scure e innevate. Adesso dovrai cavartela da te, sarai sputato fuori, nella zona in cui l’evoluzione dell’uomo non ha risolto poi molto a suo vantaggio. È qui dove Pacifico ed Atlantico si travasano in un solo oceano, qui dove Verne pose il suo Faro in capo al mondo, all’estremità del Paese dei Signori degli Stati, ultima isola e propaggine della Terra del Fuoco, che si compie con maggiore evidenza la regressione antropologica per la quale ogni marinaio non è altro che un “membro della specie” e può contare tutt’al più sulla rudimentale speranza che i preparativi, le provviste e i calcoli circa correnti e maree siano adeguati a sostenere la riuscita del viaggio.
Lungo queste rive argentine e cilene, l’avanzare a volte faticoso che hanno le chiglie delle imbarcazioni invischiate nelle foreste di alghe giganti e tenaci (kelp), lo stesso apparente controsenso per il quale temperature così rigide favoriscono un ricchissimo brodo di vita, il comportamento dei delfini, impegnati nel loro gioco misterioso con le prue delle barche – delfini tra l’altro che qui possono assumere una livrea bianco nera a campitura inversa rispetto a quelli più comuni e mediterranei, così da apparire fantasmi lucenti – lo sguardo di una foca che spunta ad osservarti, lucido e scuro, senza commozione, il bue marino che manco ci pensa ad abbandonare il suo scoglio, quel prenderti a riferimento per la scivolata d’ala che hanno gli albatros nel loro volo infinito, la più classica alzata di pinna del cetaceo di turno, affiancato da otarie e pinguini ti illudono che ci sei, che qualcosa reagisce al tuo passaggio – più o meno come succede in un bosco dove si cammina osservati da animali elusivi, anche se qui nell’oceano antartico appaiono certo più placidamente sfacciati, in sostanza talmente più a loro agio di noi negli elementi da appartenervi. Sono dentro l’acqua o dentro il cielo, mentre noi scivoliamo – planiamo intirizziti – tra uno e l’altro. Per questa nostra affrettata inadeguatezza, per questo nostro esserci appena e sparire, per questo sopravvivere scorrendo via velocemente dobbiamo alle preoccupazioni suscitate dalla millenaria convivenza con gli oceani, soprattutto quelle di chi si ostina a percorrerli a vela, una lezione di vigilanza continua e di pazienza (vale a dire una lezione circa la passione) nei confronti di certe soluzioni: energia da fonti rinnovabili, scarsità d’acqua dolce, approvvigionamento e conservazione del cibo, enigma dello smaltimento dei rifiuti. L’equilibrio della navigazione si fonda sulla loro gestione. E l’affanno che ci provocano fa ritenere che l’oceano intorno se la stia ridendo. Ecco cosa si sente quando anche il mal di mare si impossessa di noi e ci riduce a stracci sballottati nello stretto di Le Maire, tra raffiche a 50 nodi, onde come se in cima alle colline avessero piantato una ripida cresta e folate di neve, pallini di ghiaccio, buio e pioggia. Sei vagamente disperato e senti una gran risata intorno. Arrivi a salmodiare battute scespiriane della Tempesta, ti aggrappi alla traduzione eduardiana come una preghiera, ripeti tra i denti «l’acqua salata rire, l’acqua salata rire…».
Ed è per trovare consolazione e consiglio che il marinaio usa rifugiarsi nelle chiacchiere con altri “membri della specie” di cui riconosce l’onestà dell’esperienza. Uno accanto all’altro, nei tempi lunghi dettati dalle perturbazioni, si procede al cospetto di cotanta oceanica ilarità in una forma di confessione mascherata da salvifico scambio di informazioni, perché chi ha girato mezzo mondo per un verso può raccontare cosa attende a chi ha già girato l’altro mezzo venendogli incontro, e viceversa. Agguattati nei porti, ai margini delle distese che si preparano ad affrontare per circostanze di lavoro ed esplorazione, sarà il periodare del discorso comune a stabilire quando arriva il momento di salpare.
Approdando a Puerto Williams (Cile) – che tra i porti può considerarsi il più meridionale del globo, non raggiungibile via terra come Ushuaia, che sta sulla sponda settentrionale del Canale di Beagle (Argentina) – colpisce la qualità del verde dell’insenatura, la morbidezza delle rive conferita dalle torbiere che subito si stendono alle spalle delle prime conifere, mentre sullo sfondo si susseguono catene di montagne imbiancate. Ma soprattutto colpisce il pontile principale. È una nave semiaffondata.
Qui ci siamo incagliati, sembra dichiarare, abbiamo forse considerato male alcune variabili, ma da qui ripartiremo dopo averci bevuto su. Ormeggiatevi pure alle mie fiancate. Il Micalvi di Puerto Williams è uno yacht club unico al mondo, costituito da un cargo con l’acqua alla gola, le stive riempite di cemento per ancorarlo sul fondo, all’interno ambienti anfibi tra veglia e sonno, che sembrano concepiti per il letargo di creature marine, indescrivibili nella luce, nei salottini, nelle mappe e modelli di imbarcazioni sparsi ovunque, negli ottoni e nella chincaglieria oceanica che si cumula come in fondo alle baie più remote. Potresti restare là dentro in eterno, la stufa puzza e va, dagli oblò osservi la grandine e sai che il freddo all’esterno ti schianterebbe in poche ore, quindi ascolti volentieri le lamentele del barman sugli impossibili costi di gestione, la concessione dell’esercito cileno che dura solo sei mesi, la manutenzione di una struttura metà sott’acqua metà fuori, la desolazione dell’inverno australe…
Patricia detta Patty, per anni ha gestito il Micalvi e ora ha un bed & breakfast a poca distanza da lì – Puerto Williams è un avamposto di quattro strade fiancheggiate da baracche molto simili tra loro – conosce tutti i velisti che frequentano l’Artico e Capo Horn, ci aggiorna sulle vicende dei due mitici navigatori italiani, Mariolina Rolfo e Giorgio Ardizzi, nati e cresciuti tra le Alpi piemontesi, ma artefici della più minuziosa esplorazione, mappatura e descrizione di questa landa remota: Patagonia e Tierra del Fuego Nautical Guide. Un’opera unica, indispensabile a tutti i membri della specie che vogliano sperare di sopravvivere a lungo da queste parti a bordo di una barca a vela: frequenze radio, flora, fauna, storia e meteorologia, bibliografia e geologia, oltre 400 ancoraggi testati dagli autori stessi, cartine dettagliate che resteresti a studiarle per ore: la linea tra terra e mare qui è estremamente catafratta e circonvoluta, sembra davvero una lastra di ghiaccio presa a mazzate, talmente è infiltrarla di fiordi misteriosi, falsi canali senza uscita, isolotti e insenature labirintiche. Ci hanno messo dodici anni.
Noi in una mattinata sbrighiamo le pratiche con le autorità portuali. Il canale di Beagle ha la sponda nord argentina e quella sud cilena, i timbri sul passaporto si moltiplicano. Negli uffici incontriamo Katrine e Greg, australiani, lui viene da una famiglia di emigranti siciliani, originari di Sortino, vicino a Siracusa. Dice “mia famighia”. È un rasta professionista dell’estremo. Porta i turisti in kayak intorno agli iceberg. Katrine è il capitano di Spirit of Sidney. Hanno finito la stagione, 15 crociere in Antartide. Decidiamo di attraversare insieme lo stretto di Le Maire. Salperemo alle 6. Ci ancoreremo nella baia di Aguirre per attendere la corrente giusta e via… L’oceano intorno intanto ride.
Lorenzo Pavolini
Lorenzo Pavolini è vicedirettore della rivista Nuovi Argomenti. Ha pubblicato tra l’altro Accanto alla tigre (Marsilio/Feltrinelli 2019, finalista Premio Strega) e L’invenzione del vento (Marsilio 2019, finalista premio Flaiano). Con Davide Sapienza è autore del podcast Nelle tracce del lupo (RaiPlaySound).