Ciò che accade e ciò che si racconta
di Graziano Graziani
In psicologia si chiama “metodo dei tempi di reazione” la procedura di misurazione del tempo intercorrente tra un input ricevuto da un soggetto e la risposta emessa da quest’ultimo.
Nei manuali di scuola guida si definisce “tempo di reazione” il tempo che intercorre dal momento della percezione di una situazione di pericolo a quando si inizia la frenata.
In neurologia il “tempo di reazione” è l’intervallo di tempo che intercorre tra il momento in cui il cervello rappresenta uno stimolo sensoriale e il momento in cui avviene la conseguente risposta comportamentale.
Anche se cambiano gli ambiti di applicazione, il nesso che tiene assieme tutte queste definizioni – così distanti, ma forse neanche tanto, dal mondo della creazione artistica – è l’interrelazione. Ovvero una situazione in cui due soggetti, o un soggetto e un evento, entrano in una situazione di relazione reciproca; che è poi uno dei nodi centrali dell’esperienza teatrale.
È per questo motivo che Roberto Castello e Alessandra Moretti hanno scelto di intitolare “Tempi di reazione” la manifestazione che ALDES dedica all’improvvisazione, all’happening, alla multidisciplinarietà. Tutte parole d’ordine – o di disordine – della stagione artistica che si sviluppò a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta del Novecento e che raccoglieva le istanze “liberatrici” delle avanguardie storiche, ma anche quelle della stagione di lotte sociali coeva che, parallelamente, stava cambiando le forme della partecipazione politica. Sembrava naturale, in quel contesto, abbattere gli steccati che le discipline avevano eretto attorno ai rispettivi campi di applicazione; sembrava addirittura ovvio che ciò che avveniva in scena dovesse “accadere” proprio in quel momento e non essere la stanca e reiterata formula della rappresentazione a cui il teatro di prosa più convenzionale aveva abituato il pubblico. Il qui e ora diventa così una categoria imprescindibile dello spettacolo dal vivo. La relazione, la forma principale con cui concepire l’esperienza teatrale.
L’improvvisazione libera – un concetto nato nell’ambito del jazz, che predica fughe radicali e improvvise da qualunque schema di esecuzione, poi tracimato in altri contesti artistici – è stato un nodo tanto centrale di quella stagione che oggi viene praticamente sovrapposto ad essa. Nella vulgata teatrale happening è sinonimo di anni Sessanta, ma questo genera una certa confusione. Perché se è vero che certe forme di libera improvvisazione erano pane quotidiano nella scena dell’epoca, sarebbe ingiusto bollare l’improvvisazione come una moda, immaginarla cioè come una “forma”, connessa a una determinata epoca storica. E ciò per due ragioni. La prima è che gli aspetti più radicali di quella sperimentazione hanno contribuito a fondare una nuova grammatica dello stare in scena che oggi viene utilizzata anche da un teatro più legato al testo e alla rappresentazione. Come spesso accade, alla rottura di codici segue un nuovo assemblaggio, una nuova lingua, una nuova e per certi versi imprevista concatenazione di elementi.
La seconda ragione è che l’improvvisazione rappresenta una parte essenziale di ciò che chiamiamo performance artistica, anche quando questa è stata codificata in una forma. Roberto Castello sintetizza la cosa in questo modo: «Si improvvisa sempre, anche quando sembra di non farlo. È questo che rende il teatro, ma anche la musica e qualunque disciplina artistica eseguita dal vivo, qualcosa di profondamente diverso dal mondo che io chiamo “della scrittura”, ma che è anche quello della musica riprodotta o del cinema. Tutti ambiti che produrranno archivi e annali importantissimi, che permettono la conservazione. Ciò che però questi ambiti non posseggono, e che è invece caratteristico dell’improvvisazione, è il rapporto profondo che gli esseri umani hanno con “ciò che accade” e che non è stato previsto, ovvero il loro rapporto con la vita». È un discorso che ha radici profonde, nel teatro e negli eventi dal vivo, a partire dalla commedia dell’arte e passando per i poeti che improvvisano a braccio.
Questo rapporto con la vita, con ciò che accade, è uno dei punti d’indagine privilegiati della poetica di Roberto Castello, sul quale torna ciclicamente sia come artista che come organizzatore. La prima edizione di “Tempi di reazione”, infatti, è del 2008 – cui hanno fatto seguito alcune altre edizioni – mentre l’ultima arriva un decennio dopo, nel dicembre del 2018. È quest’ultima edizione che proviamo a raccontarvi in questo numero di Novantatré Per Cento, attraverso le testimonianze, gli interventi e le riflessioni di alcuni degli artisti che vi hanno preso parte. Siamo consapevoli che, utilizzando la scrittura e il racconto, si torna inevitabilmente in quella sfera della “conservazione” di cui parla Roberto Castello, ma lo facciamo a cuor leggero, consapevoli che in fondo tra quelli che possiamo definire grossolanamente “mondo della scrittura” e “mondo dell’oralità” esiste comunque un rapporto osmotico, a volte conflittuale, ma comunque stimolante. D’altro canto la stessa scrittura, in quegli anni di improvvisazione, provò a incamerare al suo interno il concetto di ready-made, per aderire all’oggetto che voleva raccontare. In questo modo, ad esempio, Franco Cordelli definiva il suo diario del festival di Castel Porziano del 1979, divenuto mitico più per ciò che di imprevisto avvenne – il crollo del palco, la contestazione dei poeti della beat generation, l’afflusso incredibile di persone – che per ciò che aveva progettato di essere.
Una simile compenetrazione di ambiti avviene anche negli interventi di questo numero. Chi si appresta a mettere nero su bianco un’esperienza che mantiene un ampio margine di discrezionalità sa che è destinato alla parzialità – cosa per altro vera anche per la drammaturgia, che è sempre un oggetto a metà, una scrittura “orfana” della scena, che trova il suo completamento soltanto nella congiunzione con essa. Come colmare questa mancanza? Cercando di mutare la forma del racconto e della scrittura, di forzarla e renderla fluida come l’oggetto che vorrebbe afferrare. Ecco allora i reportage impressionisti di Gabriele Rizza, di Valeria Vannucci e della redazione de «Lo sguardo di Arlecchino» capitanata da Igor Vazzaz. Ecco gli interventi di alcuni degli artisti che hanno partecipato a “Tempi di reazione” dello scorso di dicembre, ognuno intento a colmare il gap attraverso una forma personale. Julyen Hamilton si avvicina alla poesia; Stefano Questorio sperimenta la “vertigine della lista”, un classico avanguardista; c’è chi assume come punto di vista il limite del racconto di qualcosa di inafferrabile, come fanno Mariano Nieddu e Giselda Ranieri; e chi cerca i punti di contatto tra teoria e testimonianza, come fanno Alessandro Certini e Charlotte Zerbey; e c’è pure chi sceglie di riflettere su ciò che si inceppa, sull’improvvisazione che non parte e il dialogo che non funziona, come Enrico Castellani.
Pur sapendo che, come la mitica isola di Gozzano, il nodo gordiano dello stare in scena si allontana da chi scrive tanto più questi gli si fa vicino, siamo però convinti che tracciare mappe infedeli sia comunque un esercizio utile. Forse più per proseguire il viaggio che per arrivare davvero da qualche parte.