Alcune note sul presente della danza

di Gaia Clotilde Chernetich

Loïe Fuller foto da https://it.wikipedia.org - origine: www.shorpy.com
Loïe Fuller foto da https://it.wikipedia.org – origine: www.shorpy.com

Qui riporto alcune questioni che ho trattato al convegno Il senso del tempo – Danza contemporanea, 40 anni in movimento. Nel passaggio da presentazione orale a testo scritto ho tenuto conto di alcune riflessioni emerse prima e dopo il mio intervento.

Mi misuro con questi argomenti sapendo di avere una prospettiva completamente interna. Prendere la parola interrompe la solitudine del mio lavoro e la immerge nella dimensione dell’incontro. Ne approfitto per ribadire l’importanza di momenti di dialogo per chi lavora in un’arte che si caratterizza come silenziosa. La comunicazione orale e scritta è una delle questioni più urgenti. Ci tornerò nei paragrafi che seguono.

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Situarsi

Il primo argomento che desidero trattare riguarda il posizionamento. Intervenendo sul “presente” della danza, ho pensato fosse importante provare a osservare la forma che questo stesso presente, oggi, assume. Mi sono accorta che parlare del hic et nunc della danza significa prendere in esame un orizzonte più ampio e, soprattutto, non progressivo e non lineare. È proprio negli ultimi decenni che si sono consolidate diverse forme di riutilizzo dei repertori, ricostruzioni metodologicamente multiformi di esperienze passate che hanno dato nuove dimensioni a ciò che si trova sulla linea del tempo.
Forse è ancora presto per capire fino in fondo che cosa avrà generato nella creatività futura questo soffermarsi sul passato. Sappiamo che guardare al presente della danza corrisponde, oggi più che mai, al tentativo di chiarirne l’orientamento o, in altri termini, l’estensione, più che il quid stesso. Nuove metodologie, identità professionali e pratiche che hanno iniziato a far parte di questo mondo sono state via via messe a sistema, ma il presente contiene anche, per sua natura, un accenno di futuro che qui si presenta articolato e fluido. Dentro questa complessità, che coinvolge spazi, tempi e modalità, ci sono le diverse tensioni evolutive delle abilità e delle tecniche corporee che caratterizzano la danza, da un lato, e, dall’altro, le ibridazioni e le influenze ricevute da tutte le altre pratiche sceniche e performative nel corso del tempo.

Una fotografia del presente immortala continuità e discontinuità che possono toccare polarità estreme. Ci sono agenti e posizioni del passato che persistono saldamente nell’oggi, fenomeni transitori, azioni concrete e tensioni invisibili, difficili non solo da rilevare, ma anche da inquadrare. Parlarne e occuparsene significa anche accogliere una quota di “inconoscibilità”, perché capire fin dove davvero la danza sia in grado di estendersi, o dove incontri i propri confini, è difficile. In un certo senso, siamo anni luce lontani dalla possibilità di dire “questa è/non è danza” e dalla possibilità di riconoscere chiaramente tutte le istanze da essa convocate.
C’è, quindi, la difficoltà di mettere a fuoco un territorio complesso, fatto di prassi, tradizioni, corpi, estetiche e tanti altri elementi sempre declinati al plurale. Questo accade a fronte di una “danza” che, troppo spesso, l’ambito istituzionale numera al singolare. La mia impressione è che spesso la danza “ecceda” i confini che le sono assegnati. Per accompagnare queste riflessioni, in preparazione del convegno ho ripreso un testo di Roberto Calasso, La rovina di Kasch, dal quale è tratto un passaggio che lo stesso autore ha ripreso poi nel suo saggio sul contemporaneo, L’innominabile attuale. Sono parole che descrivono bene l’atmosfera di questi tempi: «La sensazione più precisa e più acuta, per chi vive in questo momento, è di non sapere dove ogni giorno sta mettendo i piedi. Il terreno è friabile, le linee si sdoppiano, i tessuti si sfilacciano, le prospettive oscillano. Allora si avverte con maggiore evidenza che ci si trova nell’”innominabile attuale”» (1).

In questa pluralità eterogenea, sconfinata e dinamica, la definizione di una prospettiva di osservazione non è semplice. La difficoltà sta nel voler considerare la danza come “oggetto” plurale e allo stesso tempo tenere in considerazione quegli aspetti “prismatici” che le sono propri, e che sono in grado di modificare l’oggetto a seconda di come lo si guardi. È come meditare su un numero elevato alla x. Profili e conformazioni mutevoli non sono più da considerarsi casi particolari rispetto a un presupposto canone, ma prassi. Se questo è vero, il modo in cui questa particolarità della danza agisce può essere osservato anche su piani più pratici – dalla compilazione di un bando, alla stesura di un progetto di produzione passando per la comunicazione o le necessità di aggiornamento dei professionisti del settore – e resta una questione aperta. Forse, questa è proprio una di quelle “fessure” attraverso cui si insinua molta della fragilità di cui questo mondo artistico soffre. Come continuare a trattare un’arte che evolve soprattutto fuori dai confini che le sono assegnati nelle sedi istituzionali? Qualche anno fa, nel 2017, proprio sulle pagine di «93%» scrivevo a proposito del fatto che alla danza, di fatto, mancassero le parole. Non solo “di che cosa” ma anche “come” parliamo quando parliamo di danza? La domanda di allora è, per me, ancora valida (2). La difficoltà – quella di discutere di qualcosa che dal corpo (singolare) parte e al corpo (singolare) torna – si presenta immancabilmente. Aprire quella singolarità alla pluralità, e viceversa, è un compito arduo che si pone in egual misura a chi danza, a chi coreografa, a chi produce, a chi distribuisce, a chi insegna e a chi di danza, per qualsiasi ragione, scrive o parla. Il discorso sulla danza rischia infatti di essere, tra tutti i discorsi sulle arti, il più profondamente radicato nelle soggettività e il più difficile da estrarre, tradurre e condividere. Come sottrarlo a quella costante prospettiva soggettiva che sembrerebbe indebolirlo?

Durante il convegno, l’intervento di Massimo Marino ha offerto una prospettiva storica sulla danza e sulle sue collisioni più o meno accidentali col teatro e, più in generale, con la ricerca in senso lato. Il suo discorso ha sottolineato l’importanza della dimensione collettiva, ovvero quelle esperienze che sono diventate un “farsi luogo” oltre che un “farsi corpo” plurale. Probabilmente, oggi quella dimensione sovra-individuale è cambiata, sospinta verso altre forme comunitarie virtuali mediate dalle tecnologie. E, per certi versi, il senso stesso dell’essere comunità – una comunità danzante – è andato gradualmente perduto nelle forme della danza che siamo stati abituati a riconoscere. Curiosamente, è in questo stesso presente che, mentre un “noi” si dissolveva, “comunità” è diventata una parola chiave in tanti contesti (festival, progetti, formazione, ecc.). Sembrerebbe servire a poco immaginare un ritorno a qualcosa che non esiste più, ma mi sembra giusto che si continui a cercare un modo per “essere insieme” che resista al silenzio e all’isolamento, dimensioni non semplici, ma a volte più comode.


Interiorità

Spesso mi interrogo riguardo al mio rapporto con la danza. Non mi aspetto di rispondere sempre “positivamente”, ma fino a questo momento è andata così. Oggi posso dire di aver vissuto la totalità della mia vita nella danza, passando dalla formazione giovanile alla professione della vita adulta. Il mio lavoro nel tempo è cambiato, e probabilmente è proprio in questi ultimi anni che ho potuto notare la (talvolta involontaria) radicalità di alcune scelte, la fragilità cui spesso sento di essere esposta e la precarietà di un sistema che non offre nessuna sicurezza (eppure, rifarei tutto).
Parlare del sistema, della sua conformazione presente e della sua storia, significa anche e soprattutto, parlare di chi vive e rende vivo questo sistema, il sistema della danza. La mia impressione è che il passato recente di questo mondo sia ancora troppo sconosciuto. Spesso mi accorgo che le voci di chi abita o ha abitato la danza mancano. Mancano le occasioni per parlarsi, come dicevo poc’anzi, e bisogna essere consapevoli del fatto che l’assenza di comunicazione è, oggi, non solo una mancanza di memoria e storia, ma anche un problema che tocca l’esistenza stessa dei processi, delle professionalità, dei contesti.

Spesso, dall’interno si assiste a varie forme di scollamento tra ciò che agisce nella professione e ciò che lo circonda. Negli ultimi vent’anni, Per esempio, professionismo e amatorialità hanno visto convergere le proprie strade. Le politiche partecipative dell’arte hanno investito la danza. Gli artisti hanno accolto queste indicazioni, declinando la propria ricerca anche al di fuori dei percorsi tradizionali, facendo sì che, col tempo, questa desacralizzazione di Tersicore arrivasse a mettere in profonda discussione gli statuti e le pratiche abituali di tutte le figure del settore. Come di ogni processo, anche in questo caso alcuni aspetti sono rimasti “sotto controllo”, mentre altri hanno preso derive inaspettate. Dalle nuove esigenze emerse nell’ambito formativo a quelle relative alla messa in discussione dell’autorialità, si è aperto un ampio varco che fa della danza un osservatorio unico sul contemporaneo, essenzialmente queer. Se questo è l’orizzonte, sempre più difficile è il tentativo di articolare una conoscenza della danza, e così un suo discorso. Forse, molto in sintesi, è per questo che – al netto delle specificità del caso italiano – è molto difficile che nell’incontro con l’istituzione la danza ne riesca a uscire “intera”. L’osservazione del presente rimanda a un paesaggio che, ogni volta che si “istituzionalizza”, non solo viene limitato ma per sua stessa natura contraddice l’istituzione stessa. Questo accade non perché il campo della danza sia privo di regole, ma perché inquadrare la non-binarietà di un’arte che si è spinta, di fatto, lontanissimo dalle proprie origini è un’impresa che perde senso ogni giorno di più. Sembrerebbe necessario immaginare, insieme, altre strade.


Artistə

In questa categoria, che nasce con una schwa che definirei “genetica”, è possibile osservare tutte le ricadute dei discorsi che ho provato a delineare nei paragrafi precedenti. Danzatori non più meri interpreti, il cui apporto creativo è linfa vitale delle produzioni, e coreografi non più puri architetti della coreografia, il cui lavoro precede e succede a quello dei propri collaboratori su diversi piani, non esclusivamente artistici. Le autorialità in gioco si sono moltiplicate, allo stesso modo sono evoluti i formati scenici e le durate consuete dei lavori. Le narrazioni ammesse dentro il cerchio della danza sono più numerose e diverse. La gestione delle aspettative dei singoli artisti coinvolti nel sistema non sempre trova accoglienza nei formati e nelle pratiche che il sistema stesso promuove e accoglie. La danza è sempre più spesso collettore di istanze altre, e sta diventando talmente aperta da abbracciare tutto quello che esiste nello spazio tra il balletto e la pratica somatica, tra la scena esteriore del teatro e la scena interiore dell’esperienza.
Sotto la superficie di ciò che accade mi sembra che scorra un magma di inquietudine se non addirittura di frustrazione. Il tempo a disposizione e le risorse sono sempre poche. Per fare un esempio, il timore di essere sostituiti da una selezione di nuovi under 35 dopo il primo tentativo rappresenta un limite al consolidamento e allo sviluppo di chi desidera danzare o fare coreografia. La tecnologia, che non a caso è quasi sempre anche strumento di comunicazione, ha pesantemente influenzato il performativo, rendendo velocissime la produzione e a volte la vita della sua distribuzione. Rispetto a un passato non lontanissimo, anche dal convegno è emersa, e non a caso, una contrazione della creatività e una difficoltà a inquadrare una “danza contemporanea italiana” così come è stato possibile fare fino agli Anni Novanta. La richiesta chi si rivolge agli esordienti di oggi è di nascere con un focus già chiaro. Spesso, l’orizzonte biografico è il più sicuro e autentico cui attingere. A volte, questo è giudicato come un difetto da chi, invece, ha avuto tempi lunghissimi per osservare e conoscere questo campo e creare le proprie aspettative. Ma non assistiamo allo stesso fenomeno in letteratura dove la cosiddetta non-fiction predomina? Perché sulla “nuova danza” pesa l’aspettativa di saper fare domande che non appartengono a questa generazione?
E ancora: è davvero necessario inquadrare una danza italiana? Chi scrive appartiene alla cosiddetta generazione Erasmus, persone cresciute con l’idea che andare all’estero fosse più che un’opportunità, quasi una skill da acquisire per stare nel mondo. Moltissimi artistɜ italiani seguono percorsi transnazionali. È forse per questo che la danza italiana in questo momento è un’etichetta aspecifica, a meno che non la si guardi dal punto di vista produttivo. Se prima c’era un riconoscersi collettivo, un “insieme” che pur nelle diversità teneva insieme una generazione, o anche più di una, oggi non c’è un disegno di questo genere e dunque, forse, è necessario rimettere in discussione l’esistenza stessa, e la necessità, di queste etichette.
La danza è un’arte parzialmente effimera che ha impiegato tempi molto lunghi per ottenere un pieno riconoscimento culturale. La sua a-verbalità è evidentemente un’arma a doppio taglio, da un lato fa tendere la danza all’immediatezza, dall’altro rallenta il processo per cui essa è percepita e discussa come oggetto culturale. La particolarità di questo processo di riconoscimento è che non si esaurisce mai. Ogni grande fase evolutiva del danzare è passata attraverso una fase di rottura e talvolta di rifiuto, e così accade ancora oggi. Sommando questo aspetto alla difficoltà di resistere in un ambiente dal turn over artistico rapido, si ottiene un indizio che riguarda le ragioni per cui oggi, secondo alcuni, staremmo assistendo a qualcosa che potrebbe essere definito come una contrazione nell’articolazione del pensiero coreografico. Non sono tutto d’un tratto diventate scarse le fonti d’ispirazione, né gli artisti hanno smesso di essere creativi, ma probabilmente sono diventati velocissimi i processi. Quale sguardo portano sul mondo gli artisti che iniziano a creare? La danza richiede tempi lenti, la conoscenza coreografica avanza attraverso vari canali tra cui la consapevolezza di tutto quello che il corpo potrebbe conoscere e, di fatto, ancora non ha incontrato. È una strada vertiginosa. In questo orizzonte, negli ultimi anni, sono finalmente entrati, inoltre, soggetti che prima erano esclusi: corpi disabili che hanno allargato l’orizzonte. Su questo specifico ambito, l’Italia è un’anomala eccellenza. Grazie ad alcune istituzioni e a molti attivisti, il binomio danza/disabilità ha generato expertise e aperto strade con una forza che alla danza da tempo mancava. Anche questo è un settore in cui è necessario procedere con cautela e rispetto, però, perché il limite tra promozione e sfruttamento può essere sottile. Le curatele e le direzioni artistiche sono aree che si muovono lentamente rispetto al ricambio che caratterizza, invece, l’area artistica e altre figure. L’equilibrio tra permanenza e impermanenza sembra essere una delle chiavi di volta. Ho ascoltato con attenzione Roberto Castello e le sue osservazioni sulla nostra società, riflessioni dirette anche alla “nostra” arte, secondo lui troppo ancorata alla scrittura. Condivido in parte questo pensiero, e credo che la scrittura, la comunicazione, debba impegnarsi a trovare, tuttavia, una nuova e profonda funzionalità anche nella danza. L’impermanenza dilaga, si veda alla voce tecnologia, ma non è immaginabile un mondo senza danza, o un mondo in cui la danza non lasci traccia scritta. I corpi danzanti, con le loro invenzioni creative, richiedono tempo per germogliare, ma quando lo fanno hanno il potere di far avanzare la linea del tempo, annunciando il futuro. 


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1. (La rovina di Kasch, Adelphi, Milano, 1983, p. 318)
2. Qui il link al mio articolo di «93%»: https://novantatrepercento.it/003_02-se-la-danza-potesse-parlare

 

Gaia Clotilde Chernetich

Gaia Clotilde Chernetich è un’autrice, studiosa e drammaturga per la danza. Come autrice scrive di danza e teatro per Doppiozero, Teatro e Critica, 93% e Springback Magazine. Come ricercatrice post-doc dell’Università Ca’ Foscari di Venezia ha lavorato al progetto europeo “Dancing Museums 2. The Democracy of beings”. Dopo gli studi in Scienze sociali (EHESS – Parigi) e Studi teatrali (Université Paris 3 / Ecole Normale Supérieure, Parigi), nel 2017 ha conseguito con lode un dottorato europeo in Arte con una specializzazione in Danza all’Université Côte d’Azur (Francia) e in Scienze umanistiche all’Università di Parma. Il testo Architetture della memoria. L’eredità di Pina Bausch tra archivio e scena è il suo primo libro pubblicato (in corso di stampa per Accademia University Press, Italia). Le sue ricerche e i suoi studi pubblicati riguardano la danza contemporanea, l’epistemologia e la drammaturgia. Collabora con il progetto Ormete – Oralità, Memoria, Teatro, un progetto di ricerca che coniuga la metodologia della storia orale e della storia delle arti dello spettacolo. Ha curato il progetto “Archivio Anno Zero” per l’Associazione Culturale VAN. Ha curato e collaborato a diversi progetti educativi / di sviluppo del pubblico e di coinvolgimento riguardanti la cultura internazionale delle arti dal vivo.