Se la danza potesse parlare
di Gaia Clotilde Chernetich
Per quanto possa risultare paradossale o eccentrico, questo articolo vuole prendere le mosse da un post scriptum di cui ho iniziato a sentire l’esigenza nel momento in cui questo stesso scritto si apprestava ad assumere la forma con cui viene diffuso. Recentemente, infatti, ho avuto l’opportunità di presentare l’esito dei primi passi del mio primo studio post-dottorale sulla drammaturgia della danza, il primo “nuovo” argomento sul quale mi affaccio dopo più di tre anni trascorsi occupandomi, invece, dell’epistemologia della danza contemporanea in relazione a temi quali la memoria, le modalità di trasmissione delle conoscenze coreografiche e gli archivi; tutti argomenti con i quali, piuttosto inaspettatamente, i miei nuovi interessi sembrano potersi rinnovare, intrecciandovisi.
In sintesi, sto cercando di studiare se e come le strutture che sottendono al funzionamento della drammaturgia della danza possono essere ascrivibili, in termini di funzionamento e di mediazione, alle logiche che generano e strutturano il linguaggio e le narrazioni umane e, di conseguenza, mi interrogo su quali tipi di linguaggi, di narrazioni e di scritture sia opportuno ragionare.
Il contesto di questa mia prima presentazione è stato un convegno di studi filosofici – From the Aesthetic Mind to the Symbolic Mind. Perceptual Dynamics, Mimetic Practices, Human Theatricality – che si è tenuto presso l’Università degli Studi di Firenze. L’invito a scrivere su queste pagine mi concede, dunque, di approfondire alcuni temi che mi stanno a cuore potendo condividere nei brevi paragrafi che seguono alcuni estratti dallo spettro di riflessioni che sto portando avanti proprio in questo periodo in maniera complementare tra studio e pratica, a contatto e in dialogo con danzatori e coreografi.
Il mio auspicio è che si legga quanto segue come l’istantanea di un lavoro in progress, senza dubbio ancora acerbo e costellato di numerosi punti interrogativi ai quali altri potrebbero aver già dato risposta.
Estensioni
Secondo Albert Mehrabian, i cui studi hanno ispirato il progetto di questa rivista, la comunicazione verbale – apparentemente preponderante – rappresenta invece solo il 7% della comunicazione totale espressa dal corpo umano. Questa visione si iscrive in una serie di studi che basano la propria prospettiva sul rilevamento delle incidenze e sull’assegnazione di diversi “pesi” alle numerose componenti della comunicazione umana.
Qui, vorrei proporre di considerare che l’universo dell’espressione umana si estenda entro due estremi ai quali è posta non l’assenza e la presenza della parola, non la misura della sua capacità di influenzare le comunicazioni, ma l’essere umano osservato secondo due diverse prospettive che non hanno per oggetto la comunicazione intersoggettiva, ma chi la produce.
Rispetto al 100% del potenziale di intersoggettività, da un lato, l’uomo e la donna mi sembra che siano concepibili come soggetti – luoghi di intenzionalità e di preterintenzionalità – privi della facoltà di alterare o di interrompere la propria continua produzione di segni significanti, più o meno strutturalmente complessi, più o meno interpretabili. Dall’altro, invece, poniamo che possa esserci l’idea di soggetti in pieno possesso della gestione delle proprie emissioni di segni e significati.
Ora, stando al panorama della danza, arte che in sé racchiude tutte le arti, entrambi questi due estremi sono possibili nella figura del danzatore e della danzatrice.
I danzatori, infatti, sono in grado di esprimere entrambe le configurazioni. La danza ci permette di osservare il corpo non solo in una particolare condizione di sofisticato controllo e di previsione delle proprie azioni, ma anche in una condizione dove l’uscita dal controllo e dall’intenzionalità avviene in una condizione, per così dire, da laboratorio.
Si potrebbe dire, in un certo senso, che la danza garantisce un ottimo punto di osservazione su tutto ciò che eccede dalla comunicazione pensata come 93 + 7 %, somma di intenzionale e non intenzionale, verbale e non verbale, movimento e parola.
Se riconsegniamo al corpo la parola, uscendo dal dualismo corpo-mente che – in poche parole – tende ad assegnare la verbalizzazione al pensiero e il corpo all’istinto, intravediamo, sotto nuova luce, la figura del danzatore, non come artista di un’arte muta, ma come il più loquace dei teatranti.
Da dove si vede la danza nel XXI secolo
Giunti quasi alla fine della seconda decade del XXI secolo, possiamo annoverare numerose aree della conoscenza che si sono occupate di indagare e chiarire aspetti specifici della socialità umana, di cui il movimento corporeo, di natura artistica e non, e la comunicazione intersoggettiva sono due delle maggiori espressioni.
Se da un lato le scienze cosiddette “dure” hanno generato un’inedita, imponente mole di dati sul corpo umano in movimento per ragioni espressivo-sociali e su quello danzante – tra l’altro, considerandoli spesso in maniera indistinta – dall’altro è emersa la tendenza a non ragionare più sulla danza al di fuori di un approccio interdisciplinare, combinazione di conoscenze afferenti alle scienze sociali, alle scienze psicologico-cognitive, alla neurofisiologia e ad altre.
Effetto di questi nuovi apporti, sulla danza, è una costante condizione di interdisciplinarietà negli studi che poggia, però, su una base non sufficientemente solida che riguarda diversi aspetti: dall’assenza di un vero e proprio lessico condiviso alla confusione ancora esistente tra le diverse categorie storiografiche in uso.
In questo panorama, le riflessioni esprimono una forte fluidità non solo disciplinare, appartenendo a un’ampia gamma di “materie” di cui gli studi sulla danza occupano – ancora e dopotutto – una posizione tendenzialmente marginale, ma anche per certi aspetti identitaria. Sembrerebbe necessario domandarsi se nozioni largamente utilizzate come quelle di “linguaggio corporeo”, “gestualità”, “espressione corporea”, “movimento corporeo”, “movimento espressivo” e altre non vengano spesso confuse come sinonime di danza o addirittura balletto, performance, improvvisazione coreografica e altre.
L’impressione è che la partita si giochi su due confini, entrambi molto sottili, che riguardano – il primo – la possibilità di percepire il movimento e il gesto come condizioni o come qualità del corpo umano e – il secondo – la possibilità di determinare la soglia oltre la quale un corpo in movimento è considerato in stato di danza.
Come parlare di un’arte senza parole
Colgo questa occasione per sottolineare come la danza soffra di una forte carenza terminologica che complica e non di poco l’esposizione, orale e scritta, delle riflessioni sul suo conto. Non è un paradosso che l’arte che meglio indaga quel pesante 93% della comunicazione umana non possa avvalersi di un lessico sufficientemente articolato e completo?
A onor del vero, alcuni tentativi sono stati fatti, negli anni, ma nessuno di questi sembra aver sufficientemente attecchito e, tra l’altro, non solo nella lingua italiana, ma nella quasi totalità delle lingue europee.
Se la musica si studia in musicologia, il teatro ha la sua disciplina, la teatrologia, e le teatrografie indicano l’insieme delle produzioni teatrali di un certo autore, possiamo provare a chiamare “danzografia” un insieme di spettacoli di danza e “danzologia” la disciplina che li studia? Se un suono può essere più o meno musicale, un gesto o un movimento ancora non possono essere “danzosi”? Se in musica è possibile parlare di musicalità, per la danza non si può certo parlare di “danzità”, però, a meno che non si voglia passare per audaci creatori di oscuri neologismi. Un termine come “danzità”, tra l’altro, sarebbe particolarmente utile per poter parlare dell’intensità della qualità “danza” presente in un gesto, in un movimento umano (Il termine dansité, omofono di densité, è stato utilizzato da Jacques Lacan in occasione di un discorso riguardante il rapporto uomo-animale. Si veda: Lacan J., «Subversion du sujet et dialectique du désir dans l’inconscient freudien», in Ecrits, Seuil, Le Champ freudien, 1966, p. 807).
Ma non è finita, perché “musicalmente” si possono pensare moltissime cose diverse, ma la danza non ha un proprio avverbio.
La questione dell’assenza del lessico offre una prospettiva sulle qualità intrinseche del pensiero e dei discorsi sulla danza, che sono costretti a utilizzare figure retoriche di vario tipo e costruzioni perifrastiche non solo per descrivere movimenti che non possiedono una nomenclatura (come molti movimenti al di fuori del glossario del balletto), ma anche per rendere conto di altri elementi che, qualora esistessero le parole per descriverli, permetterebbero di fare ordine nel discorso sulle arti e mostrare come la danza intrattiene rapporti di interdipendenza con le altre arti che sono diversi rispetto a quelli che vengono normalmente espressi nei vari manuali di storia delle arti.
Rivoluzione è dire che la musica, la poesia e le arti plastiche sono arti minori
Sembra esserci qualcosa di programmatico nella disabilità lessicale dei discorsi sulla danza e nella ristrettezza di un vocabolario privo di alcune componenti grammaticali fondamentali come aggettivi e avverbi. Di certo, quello che la realtà ci racconta è che alle carenze lessicali della danza corrispondono non solo una storica condizione di inferiorità disciplinare e storiografica rispetto alle altre arti, ma anche una postura politica particolare che costringe da sempre il mondo della danza a tentare di comunicare attraverso concetti traslati, metalessi, metafore e, molto più spesso, veri e propri giri di parole. Di fatto, la danza e il movimento corporeo – pur alimentando il 93% della comunicazione umana – vivono una condizione di inferiorità nel sistema economico delle arti e nel sistema di diffusione del pensiero.
Secondo il filosofo Michel Foucault, fenomeni come questo non appartengono al caso, ma rientrano in quelle dinamiche attraverso cui viene istituito un certo “controllo del discorso” (sociale, politico, scientifico, artistico, ecc.) che detiene il potere di penetrare molto profondamente nella percezione che abbiamo del mondo e nel modo in cui vi interagiamo.
Eppure, prese singolarmente, nessuna delle arti cosiddette maggiori esisterebbe senza la danza, ovvero senza le possibilità di movimento di pensiero e del corpo umano.
Uno scultore è tale per la precisione e la sapienza del gesto che è in grado di imprimere sulla pietra, prima ancora che per la bellezza dei propri manufatti. Un compositore è certamente dotato di una sapienza musicale volta all’organizzazione dei suoni, ma ogni composizione esprime innanzitutto una specifica sensibilità ritmica. A questo proposito, anche il linguista Emile Benveniste, in Problèmes de linguistique générale, rivedendo l’etimologia della parola “ritmo”, ne ha ricondotto la natura al movimento, all’intenzionalità, alla danza. E dunque anche il poeta, che gioca e si esprime attraverso le forme delle parole, la cadenza della lingua, e i suoi significati, esprime una condiziona ritmica della lingua, danzante (come danzanti sono i movimenti ondulatori oppure il battito del cuore), che può essere natura oppure fenomeno del mondo, ma altro non è che danza.
Gaia Clotilde Chernetich
Gaia Clotilde Chernetich è nata nel 1985. Nel 2017 ha concluso un dottorato di ricerca europeo presso la scuola dottorale in Scienze Umane dell’Università degli Studi di Parma e in Arti con specializzazione in Danza presso l’Université Côte d’Azur di Nizza. Attualmente sta lavorando a un libro tratto dalla sua tesi di dottorato sulle modalità di trasmissione delle conoscenze e della memoria nella danza che è l’esito di uno studio sul Tanztheater Wuppertal Pina Bausch realizzato grazie al supporto della Pina Bausch Foundation. Successivamente alla laurea in Comunicazione Interculturale e Multimediale all’Università degli Studi di Pavia, ha studiato presso l’Ecole des Hautes Etudes en Sciences Sociales di Parigi e presso l’Université Paris 3 La Sorbonne Nouvelle – Ecole Normale Supérieure. È membro del gruppo di studio sull’epistemologia della danza del laboratorio CTEL (Université Côte d’Azur), di OBVIL (Paris-Sorbonne), dell’atelier dei dottorandi e dei giovani ricercatori del Centro Nazionale della Danza (Parigi) e della aCD (Association des Chercheurs en Danse, Francia). Le sue ricerche vertono sull’estetica e sull’epistemologia del teatro e della danza, sulla trasmissione delle conoscenze e sul funzionamento della memoria nelle arti sceniche. I suoi principali ambiti di interesse riguardano la relazione tra danza e scrittura, la drammaturgia della danza, gli archivi per le arti performative, la storia orale come metodologia per la ricerca negli studi teatrali e il rapporto tra teatro e racconto (biografia, autobiografia). È redattrice per il giornale online “Teatro e Critica” e dal 2015 fa parte della Springback Academy del network Aerowaves Europe. Ha lavorato come danzatrice fino al 2010 e in qualità di dramaturg di danza collabora con la coreografa Giorgia Nardin (“L’Après-midi d’un faune”, Balletto di Roma, 2017) e con il regista Giuliano Scarpinato (“Alan e il mare”, CSS Udine, 2017). Negli ultimi anni, oltre allo studio ha animato diversi progetti di formazione del pubblico e di divulgazione della conoscenza della danza, del balletto e del teatro in teatri e festival nazionali e internazionali.