Wonder Women II
di Graziano Graziani
Torniamo a parlare di “wonder women” ma dalla prospettiva dell’arte. Lo scorso maggio «93% – materiali per una politica non verbale» ha dedicato un numero a quattro donne che, in epoche e contesti molto diversi tra loro, hanno ideato e portato avanti pratiche di liberazione personale e collettiva, cambiando il contesto attorno a loro. La filosofa anarchica statunitense Emma Goldman, la rivoluzionaria russa Olimpia Kutuzova, la critica e saggista italiana Carla Lonzi, l’attivista brasiliana Marielle Franco, raccontate da quattro studiose che si sono occupate nel dettaglio delle rispettive parabole umane e politiche, hanno disegnato un arco plurale e diffuso nel tempo di che cos’è e cosa sia stato l’attivismo e la militanza dalla prospettiva femminile. Un’indagine fatta per ritratti, senza pretesa di esaustività, che voleva in qualche modo riprendere il filo e colmare la lacuna di una stagione artistica che SPAM!, lo spazio gestito da A.L.D.E.S., avrebbe dovuto dedicare alle grandi personalità femminili, ma che non è stata realizzata a causa della pandemia in corso. Quell’idea è tracimata dalla scena alla scrittura e questo secondo numero amplia il discorso cominciato a maggio, proponendo altri quattro ritratti di donne legate stavolta alla dimensione artistica, rafforzando l’idea dell’intreccio tra arte e politica che apparteneva anche all’idea originaria della stagione. Oggi il protagonismo femminile è diventato un tema di dibattito quotidiano, grazie alla ripresa di movimenti in tutto il mondo che non sono soltanto legati alla questione della presenza delle donne nei ruoli apicali delle nostre società, ma che inseriscono la visione femminista in una prospettiva intersezionale, intrecciata ad altre lotte delle altre soggettività escluse o marginali rispetto all’autorappresentazione che l’occidente fa di se stesso, ovvero di un mondo tendenzialmente inclusivo e plurale ma che, alla prova dei fatti, si racconta ancora principalmente attraverso la lente di sguardi e voci maschili, bianche, middle o upper class. È vero che alcuni discorsi, come quello delle soggettività LGBTQ, hanno progressivamente guadagnato spazio nell’immaginario e nel dibattito pubblico, ma questo non si traduce necessariamente – dal punto di vista di tutte le soggettività minoritarie – in apertura e in accettazione: basti pensare ai recenti fatti di cronaca, per quanto riguarda la seconda, o alla scarsa rappresentanza in luoghi di potere per quanto riguarda la prima. E ciò è vero, dalla prospettiva femminile, anche nel mondo dell’arte, dove ad esempio le direttrici di teatro si contano sulle dita di una mano.
Scegliere dunque di parlare di “maestri” della scena e dell’arte (ed è questo uno dei termini in cui il linguaggio tradisce maggiormente la sua radice patriarcale, giacché il termine “maestra” rimanda istintivamente alla sfera della scuola primaria, anziché alle “vette” della materia che si pratica) in una prospettiva interamente femminile non è però un’operazione che si ferma alle questioni poste dal dibattito contemporaneo. Significa guardare al passato, all’eredità fortissima lasciata dalle artiste che abbiamo scelto di raccontare – Pina Bausch, Trisha Brown, Meredith Monk, Gina Pane – che inevitabilmente fa riflettere sull’autorappresentazione del mondo artistico, molto più maschile di quanto questa eredità ci racconti. Non si tratta di perorare meccanismi simili alle quote rosa, o anche di altri colori, che sarebbe un tema in un contesto come quello artistico dove la qualità del lavoro dovrebbe essere l’unico metro di giudizio (per quanto non certo univoco e facilmente misurabile). Si tratta però di sottoporre a critica la lente con cui vengono riconosciuti i lavori degli artisti e delle artiste, una lente tutt’ora sbilanciata verso l’universo maschile. Il mondo del cinema lo sta facendo, con diversi approcci e sensibilità. L’ultima edizione della Mostra del Cinema di Venezia, con una forte composizione femminile sia in giuria che in concorso, ha visto una regista come Chloé Zhao affermarsi in una categoria tipicamente maschile (la scelta della giuria è stata contestata per un presunto squilibrio verso il cinema statunitense, ma non è questo il punto qui). L’occasione ha dato modo di ripensare a quante registe hanno vinto in questa categoria in passato nelle principali manifestazioni cinematografiche: a Venezia cinque donne in quarant’anni; a Berlino sei in quarantacinque anni; a Cannes una sola regista dal ’75. I numeri parlano da soli, anche se non è una questione che può essere affrontata soltanto attraverso i numeri. Non a caso iniziative come quella dell’Academy, che ha stabilito per i film un parametro di almeno il 30% del cast composto da categorie come donne, LGBTQ, minoranze o disabili, più che risolvere una questione attraverso il normativismo ha innescato una polemica rovente, che evidenza come la questione sia ben oltre i numeri che, in quanto neutri, possono persino essere oggetto di pinkwashing anziché strumento di vere rivoluzioni (è interessante, al riguardo, l’intervento di Loredana Lipperini sul suo blog). E lo stesso vale, su un altro versante, per la decisione del festival di Berlino di eliminare le categorie miglior attore e miglior attrice (ma mantenendo comunque due premi, per il performer protagonista e non protagonista), che cerca di intercettare una sensibilità mutata in fatto di generi – come premiare le persone trans o non binarie? – ma lascia aperti dubbi sull’efficacia (non verranno premiati più uomini, poiché più visibili, oppure più donne, per scelta politica?). Insomma la discussione è aperta e i criteri di dibattito per nulla pacificati. Mentre, tornando in campo teatrale, va sottolineato come l’ultima edizione dei Premi Ubu – che ho avuto l’onore di presentare assieme a Cinzia Spanò – abbia registrato un premio alla regia assegnato a Lisa Natoli, fatto che va registrato come la seconda volta in tutta la storia del premio fondato da Franco Quadri in cui una regista vince in quella categoria tradizionalmente maschile (la prima è stata Emma Dante).
È chiaro che le trasformazioni culturali viaggiano su binari più lenti e complessi di quelli a disposizione di meccanismi come quelli dei premi, che hanno certamente la responsabilità di fornire spaccati dei mondi che rappresentano aderenti alle sensibilità in movimento, ma che restano inevitabilmente visioni parziali, forzate dai rapporti di forza e “sfocati” poiché calati nell’immediatezza del dibattito contemporaneo. La lettura storica di eredità concrete di artiste del calibro Bausch, Brown, Monk e Pane ci permette invece di valutare la questione tornando a parlare di portata artistica, di invenzione seminale, di trasformazione dei linguaggi che è anche atto fondativo. Questa prospettiva è tanto più importante quanto si rende evidente che il tema dell’affermazione artistica non può esaurirsi, come avviene per il dibattito democratico, nel semplice maccanismo dell’inclusività. Lo scarto in più resta di natura artistica. E la lente scelta dalle autrici di questo numero – tutte donne, anche in questo caso, con l’eccezione della mia firma per l’editoriale, che si avvicenda a quella di Doralice Pezzola che ha introdotto il numero di maggio – va proprio in questa direzione. Le artiste, che non a caso appartengono tutte a una specifica area di ricerca dei rispettivi linguaggi, sono tutte personaggi seminali, che hanno messo in crisi le discipline che hanno attraversato e allo stesso tempo hanno aperto a nuove possibilità. C’è un prima e un dopo Pina Bausch come c’è un prima e un dopo Meredith Monk, cosa che non testimonia soltanto la grandezza delle artiste raccontate ma pone una questione sull’eredità che lasciano, che non è solo di immaginario. Monica Demuru, ad esempio, apre la questione di cosa resti di una ricerca che nella sua radicalità sembra non essere più “cool” per le programmazioni mainstream, come era invece negli anni Settanta, cercando di capire quali spazi e quali immaginari si sono creati e si sono consolidati a partire da quella stagione. Gaia Clotilde Chernetich, raccontando della sua ricerca attorno alle attività del Tanztheater Wuppertal parla di un periodo “post Bausch” della compagnia, fondata da un’artista che ha avuto da subito una forte visione della propria posterità. Rossella Mazzaglia mette in evidenza il continuo spostamento del limite, sia spaziale che fisico, nell’opera coreografica di Trisha Brown, madrina della post-modern dance, e la conseguente produzione di spazio di immaginazione che ha prodotto una disciplina dichiaratamente “post”, orientata cioè alla dissoluzione e alla frammentazione delle categorie che la precedevano. Chiara Pirri Valentini, infine, nel raccontare la parabola artistica di Gina Pane evidenzia come nella sua ricerca l’aspetto engagée è sì fondativo, ma non si esaurisce nella presa di posizione femminista, piuttosto apre a strade inattese che sfiorano il senso del sacro.
La galleria di ritratti di artiste che abbiamo raccolto – parziale, come tutte le gallerie; rapsodica per vocazione dello sguardo di 93% – rappresenta un momento storico ben definito a cavallo di due realtà, quella europea e quella statunitense. Uno sguardo sull’eredità artistica femminile ancora molto occidentale e bianca, come si può notare, della quale siamo consapevoli (nel caso di Wonder Women la presenza del ritratti di Marielle Franco mitigava parzialmente questa lente di osservazione). C’è ovviamente una ragione di tipo storico, poiché ci siamo posizionati su una prospettiva di lettura delle eredità artistiche che sono sbilanciate in quelle zone del mondo per importanza produttiva (gli Stati Uniti, la Francia, la Germania). D’altra parte, come si sottolineava prima, i processi di trasformazione culturale hanno tempi lunghi che stanno dando i loro frutti in tempi più vicini a noi.