L’etica hacker di Giacomo Verde, giocare i media per non esserne giocati
di Carlo Infante
Giacomo Verde vedeva lontano, “noomade” (nomade del pensiero) come pochi, viaggiava leggero, ludico, sarcastico e ci portava lontano, in un modo e in un mondo diverso.
Inventava continuamente nuovi modi per stare al mondo e giocarselo il mondo.
Era di una generazione forgiata nella temperie degli anni Settanta, per cui la dimensione culturale rappresentava l’alternativa alla norma. Si teorizzava allora un’eccezionalità anche perché si percepiva un’inquietudine secondo cui sembrava impossibile “essere normali”.
Giacomo Verde era un genio talmente libero da muoversi in estrema libertà tra mondi e linguaggi diversi, in una terra di nessuno: troppo ludica e performativa per quelli delle tecnologie e troppo tecnologica, imperscrutabile e quindi inquietante per i mondi della scena.
Apriva piste incognite come uno scout indiano, sapendo che la tecnologia va “craccata”, sfidata, “pacioccata”: giocata in una sorta di corpo a corpo, usata con la creatività migliore, spiazzante e aperta, disruptive (dirompente), si direbbe oggi.
Era open source nell’animo. Un hacker della performance. Lucido, ribelle e visionario insieme.
La sua esperienza sta a monte del performing media, un concetto (di cui c’è un lemma Treccani) che definisce l’ambito dell’interazione tra performance e media: dalle prime sperimentazioni delle arti elettroniche, come il videoteatro e la radiofonia che sconfinava nella sound art, fino alle installazioni interattive, le realtà virtuali e oggi le molteplici soluzioni mobile e di realtà aumentata. Giacomo le ha attraversate tutte, inventando forme inedite di una spettacolarità che contemplava una sfida percettiva.
C’era una verve ludica che lo caratterizzava, un’energia più caotica di quella apollinea di Paolo Rosa di Studio Azzurro o di quella ecosistemica di Silvio Panini di Koinè, giusto per citare solo due dei protagonisti che non sono più con noi e che hanno collaborato con Giacomo.
Era leggero anche nel conflitto. Il suo sarcasmo sapeva essere corrosivo, lasciava il segno.
Le sue impronte su questo pianeta, qui ricostruite, seguono un percorso condiviso direttamente con Giacomo Verde, per cui non sono citate tante altre, tra le sue innumerevoli esperienze. Emergono quindi quelle che ho vissuto da molto vicino… e qui libero la mia soggettività di protagonista, co-produttore e sodale, di gran parte dei fatti qui evocati, accogliendo la regola suggerita da Roberto Castello (che non condivido) di non parlare troppo di me nel parlare di Giacomo… come se non esistesse il cortocircuito tra arte e vita. Non sono certo uno storico, semmai un geografo (NdA).
Il suo “noomadismo” inizia il suo corso ai tempi dei gruppi di base alla fine degli anni Settanta, facendo parte del Teatro Instabile e Contento, di Banda Roselle e poi del gruppo di teatro di strada post-punk e anche un po’ funky Banda Magnetica, con cui realizzò, nel 1988, l’happening radiofonico Vita in tempo di sport per Teatri d’Ascolto di Audiobox-Radio1RAI. Un evento formidabile realizzato in un piazzale della periferia bolognese davanti al Circolo La Morara, dove gli spettatori erano invitati ad arrivare in auto, sintonizzati su Radio1 e al momento della messa in onda spuntava la Banda Magnetica che suonava sulle basi sonore diffuse dalle autoradio delle decine di auto disposte nel piazzale, in un gran bel gioco di guerriglia performativa che induceva un certo spiazzamento.
Nel mix tra conflitto e sarcasmo c’è la cifra più intima della sua alterità rivoluzionaria, più che militante: media-attivista, meglio ancora artivista, con un termine che lui stesso ha coniato, remixando la sua pratica artistica ribelle con quella di attivista politico-poetico.
Rivendicava una performance senza regole prestabilite, non sopportava le convenzioni.
Nel 1987 all’interno del festival “Scenari dell’Immateriale” a Narni, titolato La scena interattiva, fu emblematico il suo intervento di guerriglia video, con videoinstallazioni – una sorta di trompe l’oeil elettronici, nell’uso di monitor disseminati nel borgo medievale umbro – che trasmettevano cani abbaianti da dietro cancelli di un androne o la pietra mancante in un pulpito a Piazza dei Priori, in una gran bel gioco situazionista sul detournement nello spazio urbano. Due anni dopo, sempre a Narni, vinse il premio di produzione del concorso per storyboard “Le scritture del visibile” che permise la realizzazione di Stati d’animo, un’opera video (ispirata all’omonimo trittico futurista di Boccioni) di straordinaria qualità visiva, grazie all’applicazione dell’Harry-Paintbox in grado di gestire animazioni videografiche mai viste prima. Lo stesso anno con quel capolavoro di videocreazione venne invitato in Australia, dove a Melbourne per la rassegna “TeleVision”, presentò anche la videoinstallazione “Rivel/Azione” con un’azione performativa dentro una vetrina, in una delle strade più affollate della città, Lygon Street.
Tra le sue intuizioni fenomenali, semplici e sorprendenti, ci sono i teleracconti che hanno creato di fatto un nuovo format di performing media, inizialmente rivolto allo spettatore-bambino e poi sempre più declinato come modalità di performance videoteatrale. Sapeva dell’esperimento di VideoBrut realizzato al Centre Pompidou di Parigi dove nel 1985, nell’ambito del progetto “Les immateriaux” di Lyotard, si era creato un laboratorio pedagogico sull’uso delle telecamere che giocavano sui diversi punti di vista, rivelando un inedito approccio ludico con il video.
Con i teleracconti, nel 1989, si apre il cantiere creativo con Giallo Mare Minimal Teatro che fece scuola. Si aprì con H&G TV, basato sulla favola di Hansel e Gretel, narrata, con quel suo approccio di menestrello postmoderno, come un racconto distopico (sì, i fratelli Grimm sapevano bene che le fiabe sono dispositivi atti ad affrontare le avversità), dove bastava un gheriglio di noce (ingigantito dalla telecamera sul televisore-teatrino di figura) per rivelare l’orrore della strega malefica. A quel gioiello videoteatrale seguirono altre produzioni di cui furono protagonisti Vania Pucci, Adriana Zamboni e Lucio Diana. Negli anni seguenti questo format acquistò un’ulteriore qualità drammaturgica, nella collaborazione con Carlo Presotto e Paola Rossi con Fiori rossi sulla pelle, un’opera di straordinaria intensità ispirata al conflitto nei Balcani.
Negli anni Novanta esplora i mondi virtuali, si inizia a parlare di cyberperformance (nel corrispondente lemma Treccani è citato), diventa di fatto uno dei protagonisti delle culture digitali in Italia (è citato anche in questo lemma Treccani), sperimentando l’animazione in tempo reale (con Stefano Roveda) dando anima a burattini digitali con un data-glove.
Sparigliò l’efficacia artigiana di Giacomo Verde nell’animare questi burattini: il primo si chiamò Virgilio, nel 1996, a Firenze per Mediartech (il primo Salone su cultura e nuove tecnologie) e poi per Telecom arrivò Bit, protagonista di un’operazione veramente importante a Torino, nel 1997 per la Biennale dei Giovani Artisti del Mediterraneo, dove si utilizzò una delle prime reti in ADSL messe in opera in uno spazio pubblico, per gestire il burattino virtuale da postazione remota. In questa pratica di animazione digitale in real time si remixa l’origine di Giacomo come cantastorie, in un esercizio che attraverso un data-glove utilizzato con una presenza di spirito fenomenale, stabiliva empatia con gli spettatori. Si ricordano momenti di incredibile intensità, sia ludica nell’interazione con bambini e non solo, sia commovente, quando una donna pervasa dall’idea di avere a che fare con una sorta di confessore, scoppiò in lacrime, rivelando la sua intimità.
Rispetto a tutto ciò che sta accadendo nell’innovazione digitale oggi, in una convenzionalità manierista e pervasiva, il nostro amico cantastorie ci ricorda quanto sia importante esprimere il valore di un’autenticità capace di relazionarsi con la coscienza di chi si mette in gioco.
Quella di Giacomo Verde è un’esperienza-matrice: una condizione vitale che parte dal senso naturale delle cose, per arrivare a misurarsi con l’artificialità multimediale creando situazioni più teatrali (basate sul principio della partecipazione piuttosto che della rappresentazione) del teatro propriamente detto.
Epifanie sorprendenti, rivelazioni, come quelle che si sono create in una lezione alla Sapienza-Università di Roma nel 2018, di fronte a giovani che scoprirono come la creatività digitale possa essere perturbante. È stata la lezione di un vero maestro, elementare: ovvero ciò che concerne i fondamenti di una scienza, di un’arte, di un processo al suo grado zero.
L’etica hacker di Giacomo Verde comportava il fatto di offrire opportunità che anche altri potessero sviluppare, secondo una limpidezza d’animo che rivela la creatività come pratica nel saper smontare dispositivi per mostrare come rimontarli, rendendoli di pubblico dominio. Giocando i media per non esserne giocati, proprio come si declina la pratica del performing media.
Giacomo Verde sapeva cos’era il dreaming time, un tempo del sogno che nella cultura aborigena australiana (con cui impattò nel 1989 a Melbourne) traccia un percorso metafisico che coglie l’essenza delle cose (Bruce Chatwin ne tratta in Le vie dei canti). È come un’eco di ciò che è stato, a partire dagli antenati. Sarà paradossale, ma è bello considerare un compagno di strada che non c’è più come un “antenato”. Ripercorrere le sue tracce è un po’ come “cantarlo”, dopotutto Giacomo Verde era come un “trovatore”, un poeta viandante, un aedo, un menestrello digitale-esploratore che ha aperto delle strade. Non ci resta che percorrerle.
Carlo Infante
Carlo Infante è changemaker, docente freelance di Performing Media, progettista culturale, fondatore di Urban Experience.
Ha diretto, negli anni Ottanta, festival come Scenari dell’Immateriale, ambito in cui s’è sviluppato il videoteatro e le prime sperimentazioni di performing media (nel 1987 il titolo dell’edizione fu “La Scena Interattiva”).
Ha condotto (anche come autore) trasmissioni radiofoniche su Radio1 e Radio3, televisive come Mediamente.scuola su RAI3 e Salva con Nome su RAInews24 (nel 2009).
Ha progettato: percorsi di teatro antropologico in India (con il Teatro dell’Iraa), rassegne di videocreazione in Australia (con FILEF e Melbourne Art Festival) ed happening di drammaturgia sonora (con Multirifrazione di Luigi Cinque) in Brasile. E’ autore, tra l’altro, di Educare on line (1997, Netbook), Imparare giocando (Bollati Boringhieri, 2000), Edutainment (Coop Italia, 2003), Performing Media. La nuova spettacolarità della comunicazione interattiva e mobile (Novecentolibri, 2004), Performing Media 1.1 Politica e poetica delle reti (Memori, 2006) e di molti altri saggi (+ di 90) e articoli (migliaia) per più testate. Ha curato per l‘Enciclopedia Italiana Treccani (Scienza e Tecnica- doppio volume su Informatica) il saggio Culture Digitali e diversi lemmi correlati. Cammina, esplora, conversa, si mette in gioco nei walkabout, conversazioni peripatetiche radionoma di con i piedi per terra e la testa nel cloud (utilizzando radio e web, garantendo distanziamento fisico, incrementando prossimità sociale).
carlo@urbanexperience.it