Per Giacomo: 1988-2020

di Marco Martinelli e Ermanna Montanari

Giacomo Verde in “Siamo asini o pedanti?”, 1989, spettacolo della compagnia Teatro delle Albe, foto di Marco Caselli Nirmal

Il pensiero, quando pensiamo a Giacomo, corre a quella indimenticabile avventura vissuta insieme quasi trent’anni fa, quando eravamo poco più che trentenni. Avevamo da poco scoperto la Romagna “africana”, avevamo appena debuttato con Ruh. Romagna più Africa uguale, il battesimo delle Albe afro-romagnole: sulla scena mescolavamo teatro e danza con tre giovani immigrati senegalesi, un inedito per quegli anni, incorniciati in una drammaturgia che alternava invettive anti-capitalistiche a squarci lirici sulla distruzione della Madre Terra. Era il 1988: e ancora ci muoveva il desiderio di approfondire quel discorso sulla mutazione antropologica cui il nostro Paese stava andando incontro, discorso che a tanti in quegli anni sembrava fuori luogo, mentre a noi pareva essere il centro di una grande trasformazione. Ci mettemmo quindi a studiare le favole antiche e le tradizioni dei nostri nuovi amici, griots venuti dall’altra parte del mondo, e fummo incuriositi da alcune storie in cui protagonista era la figura dell’asino, animale magico: tale concezione rovesciata dell’asinità non ci suonava nuova, perché già nella tradizione occidentale l’animale preso di mira come simbolo di ignoranza era stato venerato come portatore di sapienza. Il titolo del nuovo lavoro arrivò subito: Siamo asini o pedanti?, in cui l’opposizione tra asinità e pedanteria, cardine della filosofia di Giordano Bruno, si presentava come uno sberleffo alla Totò. E fu proprio in quel periodo che conoscemmo Giacomo: la simpatia tra noi scattò immediata. Giacomo, “Giacomino”, come forse non solo noi all’epoca lo chiamavamo, era un fiume in piena di battute e di immediatezza: sia lui che noi non amavamo le pose da artisti, quel rincorrere la visibilità e il successo a tutti i costi, amavamo invece prendere sul serio le cose sulle quali altri ironizzavano, come la politica, che in quegli anni era passata di moda, e al contempo dileggiare le cose che per altri erano sacre, come i salotti che allora facevano tendenza. Eravamo un po’ alla rovescia: e di Giacomo ci piaceva inoltre la sua versatilità di musicista, la capacità di suonare diversi strumenti, e quel suo tratto meticcio, nascita in provincia di Napoli e formazione a Empoli, che gli permetteva di recitare indifferentemente in dialetto napoletano e in un toscano materico e popolare, possibilità queste per noi assai preziose, visto che sempre abbiamo chiesto agli attori di lavorare sulla loro lingua madre. Imbarcato quindi in Siamo asini o pedanti?, a Giacomo venne assegnata la figura di “Giordano, pastore zampognaro”.

Ci eravamo immaginati un apologo fantastico in cui tre poveri immigrati, Iba, Abib e Khadim erano costretti, per sbarcare il lunario, a vendere il tesoro che si erano portati dal Senegal: Fatima, un’asinella magica e parlante. A volerla acquistare un uomo d’affari in giacca, cravatta e pantaloni grigi, cranio mussoliniano, “l’Uomo in completo”, l’odierna versione del pedante, di chi ha un unico metro per giudicare le cose: il denaro. Che cosa ne farà di Fatima, non si sa: sta di fatto che al tramonto arriva nel piccolo appartamento dei senegalesi con una borsa piena di soldi e si mette a contrattare il prezzo. L’affare sembra fatto, ma poi Iba dice che, prima di affidargli l’asinella, Fatima dormirà ancora una volta in casa loro. Solo una notte, l’ultima. E se vorrà andarsene il mattino successivo con la merce, anche il pedante dovrà dormire lì. Non resta che accettare, se si vuole concludere il “business”. Ma quell’ultima notte si rivelerà un incubo: il piccolo appartamento si trasformerà in un circo di apparizioni oniriche, in cui l’Uomo in completo diventerà lui la vittima, verrà bendato, gli dipingeranno la faccia di nero, sarà sballottato tra scherzi e secchi d’acqua in faccia, tra Arlecchini africani e asini volanti, fino all’irruzione di tre carabinieri – evidentemente africani, ma con la faccia dipinta di bianco – che con modi bruschi e autoritari lo tratteranno come un povero straniero, chiedendogli “il permesso di soggiorno” e requisendogli la borsa cui tiene tanto. Al mattino l’uomo si ritrova solo, e non sa se ha sognato oppure no: sta di fatto che il suo viso è pitturato di nero… e la borsa con i soldi è sparita! A quel punto sulla porta dell’appartamento appare Giordano, lo zampognaro: fino a quel momento lo spettatore lo ha visto attraversare la scena della notte come un fantasma, ballando in tondo, suonando la zampogna, strumento arcaico, asinino. Giordano si lancia in un lungo monologo sulla Divina Provvidenza, tenendolo vocalmente in un unico interminabile respiro, intarsiando il napoletano all’italiano, passando in rassegna e annunciando al «popolo» presente in platea le «infinite minuzzarìe» che compongono le tragedie di questo mondo: e alla fine, davanti al pedante, impassibile, che vuol sapere cosa ne è stato della “sua” borsa e del “suo” asino, lo zampognaro, quasi che si rendesse conto solo allora della presenza nella casa di quel malconcio Uomo in completo, gli risponde: «Stai tranquillo. Tu… stai tranquillo! Avimm’ pazziat’!». Abbiamo scherzato: e se ne va, mentre l’eco sinistra di un tuono accompagna la chiusura del sipario.

Quella fu la nostra prima opera insieme. Giacomo era bravissimo a suonare con la voce come con la zampogna. «Surreale zampognaro e interprete dell’esilarante cantata finale, gelida come una doccia fredda, Giacomo Verde, che passa in rassegna statistica, tipo Censis, le ‘infinite minuzzarìe’ della Divina Provvidenza, dando un agghiacciante quadro generale delle cose in questo nostro pazzo, pazzo mondo alle soglie del Duemila», così scriveva Nico Garrone (1) su «Repubblica». Lo spettacolo, nei suoi tratti fantastici, custodiva in sé le riflessioni che avevamo fatto nei mesi di prova, tanti ragionamenti sulle cause delle migrazioni, sullo sfruttamento del sud del mondo da parte dei potenti della Terra, su come un certo progresso in realtà sacrifichi al denaro e alla finanza le vite delle persone, la ricchezza delle diverse culture e degli ecosistemi. Ci trovammo molto bene, noi Albe e Giacomino, e decidemmo di continuare la collaborazione, invitandolo a venire in Senegal per la Ravenna-Dakar, un viaggio di due mesi per “ricambiare la visita alle Albe nere”. Fu un viaggio di lavoro e di esplorazione: andammo a recitare Siamo asini o pedanti? al Theatre National Daniel Soriano di Dakar e in alcuni villaggi animisti della Casamance. Volevamo immergerci nella “loro Africa”, un mondo che conoscevamo solo attraverso l’immaginario della letteratura e del cinema, al fine di accumulare spunti e idee per la nuova produzione, già commissionata dal Festival di Santarcangelo allora diretto da Antonio Attisani. Rimanemmo in Senegal dal primo gennaio 1990 fino alla fine di febbraio: Giacomo arrivò munito di telecamera e nastri WHS, con l’intento di documentare gli itinerari, gli incontri, le scoperte. Fu solo il primo di tanti viaggi Albe in Africa, in cui insieme a Mandiaye N’Diaye ponemmo le basi per la costruzione di una “casa del teatro” a Diol Kadd, il villaggio natale di Mandiaye, guidati dal suo sogno di “tornare a casa” e mettere a frutto lo strano mestiere che aveva appreso in Italia. Su quel primo passo, Giacomo accumulò ore e ore di girato nei due mesi passati là, nei campus universitari e nei teatri, nella savana e sulle piroghe dei fiumi, dalle quali ricavò una perla di 15 minuti, un breve video che, per lampi, restituiva appieno il senso di quella avventura. (2)

A Ziguinchor, capoluogo della Casamance, regione animista nel sud del Senegal, venimmo a sapere di Alinsitowe Diatta. Attorno a uno squisito thè alla menta, ci raccontarono della piccola regina, ribelle ai francesi. Negli anni Quaranta del secolo scorso la società tradizionale dei dìola era una società anarchica e senza Stato, priva di autorità centrale: l’unico riferimento erano il re o la regina, nominati democraticamente dai diversi villaggi, il cui ruolo era più assimilabile a quello di sciamani e profeti. Alinsitowe seppe guidare i dìola alla ribellione contro i colonialisti: i francesi erano nei suoi discorsi doppiamente colpevoli, perché tenevano in catene il suo popolo e perché tagliavano gli alberi sacri, distruggendo la foresta. La rivolta venne soffocata nel sangue, Alinsitowe giustiziata, ma il suo corpo non fu mai ritrovato: a distanza di mezzo secolo, molti dìola credevano che la regina fosse ancora viva, nascosta da qualche parte. Quella figura di donna ci toccò profondamente, vedemmo in lei il simbolo della resistenza a ogni forma di colonialismo, vecchio e nuovo. Ci confrontammo tra noi per giorni, discussioni che si protraevano fino a tarda notte: l’esperienza di quei due mesi ci aveva fatto toccare con mano quanto l’indipendenza recente degli Stati africani fosse per tanti aspetti solo una forma, la sostanza erano i mille lacci di dipendenza dalle nazioni più potenti, tramite le banche, il Fondo Monetario Internazionale, e organismi simili. Decidemmo che la vita di Alinsitowe sarebbe stata il soggetto del nuovo spettacolo: debutto previsto al Festival di Santarcangelo nel luglio di quello stesso 1990.

Così come Giacomo chiudeva con il suo monologo Siamo asini o pedanti?, così Giacomo apriva il nuovo lavoro, Lunga vita all’albero. Lo spettacolo debuttò nel luogo più africano che il Festival ci mise a disposizione: la cava di Torriana, in cima a una collina e in una specie di anfiteatro naturale. A iniziarlo era un cantastorie, che si presentava, leggermente zoppicante, con un verde alberello legato dietro la schiena: si rivolgeva agli spettatori, dicendo che lui, Durante Verduzzi, «cantastorie da sette generazioni», stanco di raccontare le solite «storie di santi e paladini», aveva letto da qualche parte la curiosa vicenda di una regina africana, di una ribelle che pare fosse ancora viva… e voleva ora raccontarla agli spettatori lì convenuti ma… non se la ricordava più tanto bene! A soccorrerlo arrivava Mor Arlecchino, uno strampalato griot (3), immigrato in Italia a cercare lavoro, «a cercare da mangiare per i suoi diciotto bambini»: lui quella storia la conosceva a memoria, e se Verduzzi lo avesse pagato, gli avrebbe fatto da aiutante.

Giacomo in scena suonava la fisarmonica e parlava un toscano denso e popolare: era come quei giocatori capaci di coprire più zone del campo, passando dal napoletano al toscano, dalla zampogna alla fisarmonica. E in più qui mostrava una capacità comica: qui, ispirandoci come sempre ai corpi e alle voci e al vissuto degli attori, facemmo affidamento sulla sua ironia tagliente, sulle battute affettuosamente feroci che si scambiava con Mor e Mandiaye, scherzando sui reciproci stereotipi razzisti, sui “toubab”, parola wolof per designare i “bianchi”, che Giacomo declinava ghignando in un “tu babbo” dal sapore collodiano.

Ma torniamo alla vicenda di Alinsitowe. Se il sottotitolo di Siamo asini o pedanti? era «farsa filosofica», il nuovo lavoro lo avevamo sottotitolato «maggio epico»: la struttura drammaturgica contaminava la tradizione dei “maggi”, una forma di antico teatro popolare dell’appennino tosco-emiliano, con i sabar e la festosa teatralità senegalese, la “Bella ciao” suonata dalla fisarmonica di Giacomo dialogava con le percussioni di Mor Arlecchino. E la storia di Alinsitowe si intrecciava a un certo punto con una vicenda della Resistenza italiana di quegli stessi anni Quaranta: un “dettaglio” della storia di Alinsitowe faceva “ricordare” a Verduzzi la sua «nonna partigiana, la Bruna!», e quella memoria improvvisa che irrompe lo commuove, e non può fare a meno di evocarla. Così come avevamo discusso tanto di immigrazione nel costruire Siamo asini o pedanti?, così per Lunga vita all’albero ragionammo sulla politica italiana, sui tempi cupi che sentivamo avvicinarsi, sulla necessità di una nuova Resistenza: Silvio Berlusconi non era ancora “sceso in campo”, lo farà solo nel ’94, ma già possedeva il monopolio delle televisioni e dell’informazione. Non a caso quel bislacco imprenditore “lumbard” che, con la maschera di Pantalone sul viso, irrompeva nella cava di Torriana a bordo di un rombante trattore, e dopo aver acquistato tutti i diritti televisivi sul mercato si offriva di comperare anche la storia di Alinsitowe, promettendo un sacco di soldi alla improvvisata coppia di narratori, beh, quella maschera era direttamente ispirata al signorotto di Arcore.

Piaceva, a noi e a Giacomo, affrontare argomenti importanti in maniera divertente e leggera. Come dice Dioniso nelle Rane di Aristofane: «recitare cose gravi e insieme cose buffe, questo significa celebrare i Misteri». Ci piaceva costruire storie che intrecciassero livelli differenti di lettura, rivolgendoci a un pubblico il più possibile ampio. Su questo eravamo in perfetta sintonia. Era una gioia veder arrivare ogni sera centinaia e centinaia di persone in cima alla cava di Torriana per quel rito di resistenza, dove “bianchi” e “neri” si sfottevano e si rispettavano, cadevano e si rialzavano. Era un po’ come esserci portati dietro un pezzo di Casamance.

Poi i nostri destini, le nostre vocazioni si sono divaricate: poi Giacomo si è costruito un’identità che non è possibile racchiudere in un genere, si è inventato il teleracconto e altre belle diavolerie, ha continuato a tracciare, nel teatro italiano, una strada fatta di intelligenza, di anticonformismo, di ricerca mai doma. E quando talvolta, nel corso degli anni, ci siamo ritrovati a confrontarci sui rispettivi percorsi e a dialogare sul mondo, ricordavamo spesso l’avventura della Ravenna-Dakar, di quei due mesi così pieni di scoperte, di rivelazioni, di ostacoli, di contrattempi, di visioni. Anna Maria Monteverdi, cui dobbiamo il dono di averci fatto sapere di Giacomo e dei suoi ultimi giorni in ospedale, dandoci la possibilità di parlargli un’ultima volta, di ascoltare la sua voce viva e cristallina, ci ha poi raccontato che Giacomo «nel suo studio, esattamente nella parete della scrivania dove lavorava, aveva appeso una sola fotografia che ritraeva lui come attore in Lunga vita all’albero». E così continuiamo a ricordarlo, nella vasta cava di Torriana, con l’alberello dietro la schiena, che si batte in testa, ostinato, zoppicante, immagine di tutti noi, ostinati e zoppicanti, a cercare di tirar fuori perle di resistenza dallo scrigno della memoria. Lunga vita alla memoria di Giacomo, lunga vita al Teatro, lunga vita alla Vita.

 

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1. Nico Garrone, Quell’asinella ci salverà, “la Repubblica”, 5.5.1990, poi in Marco Martinelli, Teatro impuro, Danilo Montanari Editore, Ravenna, 2006, p. 304. Garrone è stato uno dei critici teatrali più attenti e sensibili ai percorsi del “nuovo teatro”, dagli anni Settanta in poi.
2. Giacomo Verde, Ravenna-Dakar. Il video è visibile sui canali vimeo e youtube del Teatro delle Albe.
3. Il griot, in Senegal, è una figura complessa, capace di interpretare ruoli differenti: narratore tradizionale, musicista, danzatore, comico popolare.

 

 

Ermanna Montanari e Marco Martinelli

Ermanna Montanari -attrice, autrice e scenografa- e Marco Martinelli -drammaturgo e regista- fondano il Teatro delle Albe (1983) e ne condividono la direzione artistica.
Portatori di una poetica che attinge dalla tradizione scardinandola, e che non scinde l’arte dall’esistenza, i due artisti concentrano il proprio lavoro nella ricerca d’attore e nella parola, addentrandosi ora in un crinale che attraversa i territori del dialetto romagnolo e della musica elettronica (con storici lavori come L’Isola di Alcina e Lus, e il più recente fedeli d’Amore, realizzati in collaborazione col musicista Luigi Ceccarelli), ora nella commistione con la cultura africana attraverso il coinvolgimento di attori senegalesi, tra cui ricordiamo Mandiaye N’Diaye, ora componendo affreschi e allegorie corali (come il recente Va pensiero, ma vanno ricordati anche Pantani e Vita agli arresti di Aung San Suu Kyi, da cui nel 2017 è stato tratto un film, scritto e diretto da Martinelli, soggetto cofirmato con Montanari che ne è anche protagonista).
Montanari e Martinelli hanno ricevuto numerosi premi e riconoscimenti in Italia e all’estero per il loro lavoro artistico; tra i più recenti ricordiamo il Premio Ubu 2017 al “Miglior progetto curatoriale” per INFERNO Chiamata Pubblica per la Divina Commedia di Dante Alighieri, opera che ha coinvolto in scena centinaia di cittadini, e il Premio Ubu 2018 a Ermanna Montanari come “miglior attrice” per fedeli d’Amore e Va pensiero.
Diverse le pubblicazioni da loro firmate e a loro dedicate: nel 2017 Ermanna scrive Miniature Campianesi (Oblomov editore) ed Enrico Pitozzi cura il volume in italiano e inglese Acusma Figura e voce nel teatro sonoro di Ermanna Montanari (Quodlibet), mentre nel 2018 è uscito per Editoria&Spettacolo Marco Martinelli Un Drammaturgo Corsaro a cura di Maria Dolores Pesce. Sempre nel 2018 Martinelli pubblica Nel nome di Dante, diventare grandi con la Divina Commedia (Ponte alle Grazie editore), un dialogo tra l’oggi e l’epoca in cui Dante visse e scrisse il suo capolavoro, un percorso vivo e originale che affonda nella rilettura della Commedia per il teatro. Sempre in questo solco Martinelli ha realizzato il film The Sky over Kibera (2019), che racconta la “messa in vita” della Divina Commedia con 150 bambini e adolescenti nell’immenso slum di Nairobi, Kibera.
Marco Martinelli è fondatore della non-scuola, pratica teatral-pedagogica con gli adolescenti, diventata punto di riferimento da Ravenna a Napoli a Dakar, da Mons a New York, raccontata nel volume Aristofane a Scampia (Ponte alle Grazie editore) ora in corso di pubblicazione in Francia per Actes Sud.

www.teatrodellealbe.com