Il rituale: a un modo d’azione specifico corrispondono forme specifiche di esercizio del pensiero
di Eleonora Musella
Tra le tante angolazioni dalle quali l’antropologo Carlo Severi (1) ha studiato il rituale, ve ne è una, a mio avviso la più interessante, secondo la quale indagare il rituale significa indagare un modo d’azione specifico, talvolta definito anche come “contesto tecnico” specifico, a cui corrispondono delle forme di esercizio del pensiero altrettanto specifiche. Le sue ricerche comparative mostrano, ad esempio, che i rituali sono delle sedi privilegiate di una particolare forma di esercizio della memoria, risultato dell’interazione complessa di ingredienti molteplici quali le immagini, la parola rituale e l’immaginazione. Questo approccio allo studio del rituale sarebbe da ascrivere a un più vasto progetto di antropologia della conoscenza, alla quale l’allievo di Claude Lévi-Strauss e Georges Dévereau lavora da più di un decennio. Tale progetto affonda in una condanna dei modelli psicologici riduzionistici, come ad esempio quello piagetiano, limitato a una contrapposizione tra razionale e irrazionale, e si ispira invece a modelli più complessi, come quello proposto da Lev Semënovič Vygotskij, secondo cui varie e molteplici sarebbero le forme di esercizio del pensiero umano.
Nel desiderio di inserirmi in questo vasto progetto teorico di antropologia della conoscenza, mi chiedo se sia possibile concepire uno sviluppo degli studi “severiani” sul rituale, occupandomi di studiare una cosiddetta situazione “quasi-rituale”. Senza mai azzardarne una definizione, negli ultimi anni Severi ha infatti fatto accenno, perlopiù durante le ore del suo corso settimanale di antropologia della memoria, a delle situazioni, di cui il gioco è stato preso talvolta come caso esemplificativo, che potrebbero essere estrapolate da quel flusso indefinito del quotidiano che solitamente gli antropologi contrappongono al rituale (nel classico binomio: quotidiano VS rituale), al fine di essere dettagliatamente studiate.
Se si estendesse a queste ancora indefinite situazioni “quasi-rituali” la logica secondo cui a una forma d’azione specifica corrispondono forme di esercizio del pensiero altrettanto specifiche, la mia proposta, che diventa in questa sede la mia ipotesi, sarebbe che l’improvvisazione, e più nello specifico la composizione istantanea, costituisca un esempio interessante di azione specifica e, di conseguenza, di esercizio specifico del pensiero. Avendo questa ipotesi ancora molto generica come guida di ricerca, ho preso parte, nella veste di antropologa, agli ultimi tre incontri di Tempi di reazione, sperando di avere l’occasione di dialogare con alcuni dei danzatori, attori e musicisti invitati a questa rassegna dedicata all’improvvisazione.
Un progetto di ricerca ancora acerbo
Premetto che non mi sono mai occupata di studi sulle arti performative e lo spettacolo dal vivo, e che dunque tale ipotesi non è sorta da un esercizio intellettuale praticato in una biblioteca universitaria. La mia ipotesi prende forma in una scuola di danza torinese, dove ho sperimentato in prima persona, senza ancora sapere che cosa fosse, ciò che avrei in seguito scoperto essere la composizione istantanea di gruppo (dalle quattro alle otto persone). A partire da un tema surreale e da qualche regola condivisa riguardante a volte lo spazio, a volte il tipo di movimento, ecc., si praticava una forma di composizione istantanea che accanto al movimento non escludesse la possibilità di avvalersi né dell’uso della voce, senza restrizioni di forme, né di quello di oggetti. Metà del gruppo restava a guardare, così che vi fosse sempre la presenza di un pubblico. Un avviso importante fungeva da guida: la scena può essere piena di persone, parzialmente riempita, e essere anche lasciata vuota. Ideale sarebbe che sulla scena vi fossero solo coloro che in quel dato momento sono “nel sentire e non nel fare”.
Ho così avuto modo di sperimentare questo entrare in un mondo altro, così vero, magnetico e potente e al contempo così fragile, soggetto a sgretolamenti imprevisti e improvvisi: tre minuti sei dentro, e poi improvvisamente succede qualcosa e ritorni nel mondo abituale, mentre sei ancora sulla scena, e allora senti che vuoi uscirne, perché la scopa che tieni tra le gambe e che fino a poco prima era un cavallo e tu un cavaliere, è ora solo una scopa, il gioco non sai perché si è rotto e ti fa male fingere con te stesso e con chi ti guarda che quello che hai in mano sia ancora un cavallo. Per fortuna la regola principale del gioco è proprio questa: uscire dalla scena quando si sente che non si gioca più, senza giudicarsi o sentirsi in colpa con se stessi e con gli altri.
Ma fintanto che sei dentro, non ci sono mediazioni, il sentire coincide con il movimento, è attivato dalla presenza delle altre persone, dai loro movimenti, dai loro visi, dalle geometrie che si creano nello spazio, e al contempo emerge da un dentro multiforme di cui ci si scopre profani, come l’acqua dal dentro di una fontana dalle cavità misteriose scaturisce in un fluire di cui si è spettatori stupiti. Spettatrice stupita di me stessa e di quanto accadeva intorno a me, mi sono spesso sentita. Uno stupore che si estendeva anche alla sensazione che fintanto che noi che eravamo sulla scena eravamo in questo flusso, quest’ultimo sembrava coincidere con qualcosa che, per il pubblico, funzionava. Mi sono chiesta allora se questa sorta di stato altro di coscienza, vissuto talvolta anche solo per un tempo brevissimo da parte di coloro che erano sulla scena, e in qualche modo “diffuso” nello spazio, fosse in qualche modo visibile per il pubblico, e se fosse determinante nell’accogliere positivamente ciò di cui questo era spettatore. Da lì, mi è venuta in mente l’ipotesi di studiare la composizione istantanea: se vi sono degli “esercizi del pensiero” specifici, propri alla composizione istantanea, e se questi non restano solo a livello di un sentire individuale, ma si possono in un qualche assurdo e ineffabile modo vedere, allora forse si possono studiare!
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1. Carlo Severi è Direttore di ricerca a l’École des Hautes Études en Sciences Sociales di Parigi, membro del Laboratoire d’anthropologie sociale (Parigi) e del CNRS. Ha lavorato inizialmente sulla tradizione sciamanica degli Indiani Cuna di Panama, indagando le teorie indigene della malattia mentale e le modalità di trasmissione del sapere sciamanico. In seguito, ha sviluppato un’analisi comparativa delle arti della memoria proprie al contesto rituale, proponendo al contempo una teoria relazionale di quest’ultimo, concepita assieme a Michael Houseman. Attualmente si occupa delle forme di soggettività attribuite agli artefatti, specialmente nel contesto rituale (carloseveri.net).
Eleonora Musella
Nata a Roma, studia filosofia della scienza all`Università La Sapienza, laureandosi in filosofia della biologia con una tesi che indaga la teoria della selezione dei gruppi neuronali (teoria neurobiologica della percezione e della coscienza). Si trasferisce in seguito a Parigi per studiare antropologia sociale à l’École des Hautes Études en sciences sociales, specializzandosi in antropologia linguistica con una tesi su Keith Basso e la cultura degli Apache occidentali d`Arizona. Grazie a un progetto di ricerca antecedente, e sempre nel quadro della Laurea magistrale in antropologia, si trasferisce a Torino per il lavoro sul campo etnografico. Tema dell`indagine sono le valutazioni delle capacità genitoriali effettuate da psicologi ed educatori italiani nei confronti di genitori migranti residenti in Italia, nel quadro delle procedure d’adozione riguardanti i figli di questi ultimi. Nel corso del suo soggiorno torinese, scopre la pratica della composizione istantanea e da quel momento in poi, nasce in lei il desiderio di unire la passione per la ricerca teorica e l`indagine creativa in danza.