Discesa nel Maelström. Note sull’improvvisazione

di Vincenzo Cuomo

Stefano Questorio in Tempi di Reazione 2018 / SPAM! ph Andrea Simi

Improvvisazione e pericolo

Qualche anno fa David Toop, musicista e studioso di audio culture and improvisation, ha dato alle stampe il primo volume della sua storia delle pratiche dell’improvvisazione nella musica e nelle arti del Novecento, con il suggestivo titolo: Into the Maelstrom: Music, Improvisation and the Dream of Freedom – Before 1970 (1). Libro ricchissimo di notizie e di argomentazioni che spazia dalla musica alla letteratura alle arti performative. Nonostante questa straboccante ricchezza, che costringe il lettore ad un continuo riposizionamento cognitivo, nel libro è possibile rintracciare una linea argomentativa di fondo che, a mio avviso, intreccia continuamente due questioni: quella che potremmo denominare del sentire l’ambiente e quella che, invece, potremmo definire dell’ex-adaptation (degli strumenti).
Comincio con l’introdurre la seconda questione perché è immediatamente collegabile con il titolo, che ricorda innanzitutto il famoso racconto di Edgar Allan Poe, A Descent into the Maelstrom (pubblicato nel 1841), e, in secondo luogo, il titolo di un mitico album, del 1953, con lo stesso titolo, di Lenni Tristanoi (2).
Toop, in apertura del libro, ricorda un episodio che ritiene significativo. Era stato invitato a Los Angeles a suonare con un gruppo di musicisti. Li conosceva tutti personalmente tranne uno, Paul McCarthy; non lo aveva mai incontrato per suonarci insieme. Toop è colpito da un episodio: McCarthy che cerca di mettere a punto la sua elementare strumentazione elettronica: «Sembrava una persona che incontrasse per la prima volta il mondo, lottando per dare un senso all’intrattabile comportamento dei fenomeni terreni. […] Sul palco sembrava un uomo che non fosse in grado di aprire una scatola senza aiuto» (3), egli annota.
È un episodio emblematico perché ricorda, ma per inversione, ciò che il protagonista del racconto di Poe riesce, invece, a fare: utilizzare in modo improprio, per sopravvivere, gli strumenti che si trovano nell’ambiente, che, quindi, assumono un’importanza vitale proprio grazie al loro uso improvvisato e, ribadisco, improprio. La storia raccontata da Poe è nota: un gruppo di marinai norvegesi si imbatte in una tempesta che spinge la loro imbarcazione verso una zona di mare in cui frequentemente si forma un pericolosissimo vortice, chiamato Maelström; un solo marinaio riesce a salvarsi aggrappandosi a un barile vuoto e staccandosi dalla piccola nave, che inesorabilmente viene risucchiata nelle profondità dell’abisso. Poe sottolinea due cose. La prima è un sentimento di cupio dissolvi che a un certo punto sembra impossessarsi del protagonista, mentre l’imbarcazione gira in tondo nell’immenso vortice:

«Vi parrà forse una millanteria – narra il protagonista – ma in fede mia vi dico il vero: cominciai a riflettere che cosa stupenda fosse morire in quel modo, e quanto fossi sciocco a preoccuparmi di una cosa così piccola come la mia vita, di fronte a una manifestazione così magniloquente della potenza divina. […] Provai realmente il desiderio di esplorare i suoi abissi anche a costo del sacrificio che stavo per fare. […] Non potrò mai dimenticare il senso di spavento e d’ammirazione che provai guardandomi intorno» (4).

Tuttavia, ad un certo punto, questo desiderio di morte lascia il posto a una balenante speranza di sopravvivenza:

«Mi misi allora a osservare con uno strano interesse i numerosi oggetti che galleggiavano con noi. Certamente dovevo essere in delirio, poiché trovavo persino divertimento nel calcolare la velocità relativa della loro discesa verso il fondo schiumoso. “Quell’abete” mi sorpresi una volta a dire “sarà certo il primo a fare il tuffo tremendo e scomparirà”; e fui molto contrariato nel vedere che i resti di una nave mercantile olandese lo avevano raggiunto e sparivano per primi. […] Non era un nuovo terrore che così mi assaliva, ma l’alba ben più commovente di una speranza. Questa speranza derivava in parte dalla memoria, in parte dall’osservazione presente» (5).

Memoria e osservazione. Il protagonista ricorda che la velocità di affondamento dei rottami ha a che fare con la loro forma e, guardandosi intorno, nota alcuni barili vuoti, che, per la loro forma cilindrica, avrebbero potuto opporre maggiore resistenza al vortice.

«Non esitai più. Sapevo quello che mi restava da fare, e cioè legarmi saldamento alla botticella cui mi tenevo aggrappato, tagliare la corda che tratteneva questa alla gabbia, e gettarmi nelle onde» (6).

Il protagonista del racconto si salva in questo modo: improvvisando, cioè adattando, sotto lo stress che gli deriva dal pericolo estremo che sta correndo, uno strumento trovato (il barile vuoto) a un utilizzo apparentemente improprio, ma fondamentale per la sopravvivenza.

Ritorniamo al libro di Toop, perché forse ora la scelta del suo titolo ci apparirà molto più chiara e, forse, radicale. Poco prima di raccontare la scena dell’incapacità di McCarthy a cavarsela con elementari congegni elettronici (altro che “discesa nell’abisso”!), Toop scrive: «Gli uomini devono imparare ad improvvisare per fronteggiare gli eventi casuali, i fallimenti, il caos, i disastri e gli accidenti al fine di sopravvivere» (7). Questo esplicito legame che egli stabilisce tra l’improvvisazione e la sopravvivenza in situazioni catastrofiche, oltre ad essere un sintomo dell’epoca che viviamo, ha, a mio avviso, un valore teorico generale. Nelle situazioni di pericolo, nelle situazioni catastrofiche, il mondo-ambiente, che è innanzitutto un mondo “strumentale”, viene meno, anche nel senso che l’uso abituale degli strumenti diviene del tutto privo di senso. Allora bisogna improvvisare. Non “inventare”, perché non c’è il tempo per farlo, ma adattare alcuni strumenti a usi impropri benché, tutto a un tratto, vitali. Ecco che allora l’uomo potrebbe essere definito come quell’animale che ha l’assoluto primato (ma non l’esclusiva ovviamente) dell’improvvisazione. E il legame tra il pericolo e l’improvvisazione assumerebbe così una valenza potremmo dire antropo-genetica.
Certo, se, per così dire, cambiassimo la “scala” degli eventi e, invece che riferirci alle situazioni di pericolo o a quelle catastrofiche, ci riferissimo alla dimensione della vita quotidiana, piena di tanti piccoli imprevisti che richiedono a chiunque una costante attività improvvisativa a “bassa intensità”, allora, facendo cadere la sua relazione con il pericolo, dovremmo necessariamente “generalizzare” la nozione di improvvisazione allargandola alla dimensione dell’innanzitutto e per lo più (per dirla con Heidegger). In effetti, l’episodio narrato da Toop – quello di Paul McCarthy – così come del resto tutte gli esempi che egli fa delle pratiche artistiche, sembrano situare immediatamente l’improvvisazione – intesa come la capacità di cavarsela con quello che si ha a disposizione – proprio nella dimensione della vita quotidiana, a dispetto del titolo del libro e delle pagine che egli dedica al racconto di Poe. Si tratta solo di una incoerenza e/o discrepanza tra un titolo – che mette in relazione l’improvvisazione con le situazioni catastrofiche – e la (ricca) esemplificazione artistica che, invece, la lega, per usare un’espressione adoperata da Alessandro Bertinetto (8), alle “pratiche quotidiane” genericamente umane? Forse è così. Eppure, a mio avviso, il racconto di Poe, se valorizzato proprio nella sua specifica “scala” colossale e catastrofica e non “quotidiana”, ci porterebbe a domande sull’origine non solo di una ampia parte delle arti ma anche su quelle dell’umano in quanto tale, “origine” che, in qualche modo, le arti ripetono (e, forse, da cui si distanziano). Non ho il modo di sviluppare qui questo ragionamento (9). Tuttavia, una cosa mi preme dirla: non penso che riportare le arti alle pratiche quotidiane – per quanto in modo criticamente circostanziato e mediato – possa favorire la comprensione della loro funzione. Il cambiamento di scala non è mai neutro e senza conseguenze sul piano teorico generale. Il rischio, a mio avviso, non è solo quello di perdere di vista la frattura, a volte esplicitamente tematizzata, tra arte e vita (quotidiana), ma è soprattutto quello di perdere il nesso tra le arti e l’origine dell’umano, se per origine si intendano quei contingenti e concomitanti meccanismi bio-ambientali che nelle profondità della pre-storia fecero emergere il fenomeno umano. Perché, detto in altri termini, è senz’altro filosoficamente corretta e imprescindibile la riflessione sulla “specifica” creatività umana – come ha fatto ad esempio Pietro Montan (10) – ma credo che sia anche giusto porsi la domanda su ciò che ha prodotto l’emergere di tale “specie-specifica” creatività – che è innanzitutto bio-neurale – nella dimensione “ancestrale” (11) dei meccanismi antropo-genici, per usare una nozione di Peter Sloterdijkx (12).

L’improvvisazione viene da fuori

Ritorno ancora al libro di Toop e alla seconda tesi che è possibile rinvenire in esso. Mi riferisco al legame tra l’improvvisazione e il sentire ambientale.
Per affrontare i diversi aspetti di tale legame, vorrei farlo di nuovo attraverso Poe, ricordando questa volta un racconto che Toop dimentica stranamente di prendere in considerazione, e cioè The Fall of the House of Usher (1839). In questo famoso racconto, troviamo di nuovo descritta una situazione di imminente pericolo: la casa degli Usher, apparentemente solida, mostra agli occhi di colui che narra una «quasi impercettibile fessura» (13) che la rende instabile e avvolta in un’aura di imminente sventura. Ebbene, in questa casa, in cui, assieme all’instabilità fisica, regna un alito di morte, Roderick Usher, nei giorni successivi alla scomparsa, nello stesso tempo attesa e improvvisa, della sorella Madeline, si dedica ad “improvvisare” alla chitarra oppure dipingendo sulla tela:

«[…] ascoltavo talvolta, come dentro un sogno, le sfrenate e suggestive sue improvvisazioni colla chitarra» narra l’amico che è andato a fargli visita. «[…] Le lunghe nenie che Usher improvvisava risuoneranno eternamente nella mia mente; e rammento, in modo speciale, una perversa deformazione dell’ultimo valzer di Weber. Quanto alla pittura che gli nasceva dal calore della tormentata immaginazione […] non saprei ridurne che una parte minima dentro al compasso della parola scritta» (14).

Roderick Usher improvvisa, dunque, in singolare Stimmung con l’imminente catastrofico crollo della casa. Ma lo fa anche grazie alla sua intensa sensibilità che lo pone in stretta consonanza con l’ambiente.

«Ho accennato come il nervo acustico dell’infelice non tollerasse nessuna musica all’infuori che certi suoni degli strumenti a corda […] Era stata forse la ristrettezza dei limiti dentro i quali, per questa affezione morbosa, egli era costretto a suonare la chitarra, che aveva in gran parte provocato la bizzarria delle sue composizioni. Ma non si poteva pensare così della fremente facilità dei suoi impromptus. Sia le note sia le parole delle sue sfrenate fantasie (egli accompagnava spesso la propria musica con dei versi) dovevano essere, ed erano infatti, il risultato di quell’intensa concentrazione di forze spirituali che, come ho detto più sopra, si produce in momenti specialissimi della più acuta eccitazione artificiale» (15).

Toop insiste continuamente sulla capacità di sentire l’ambiente e, per così dire, il fuori della coscienza, fuori che può essere psichico oppure ambientale in senso proprio. In questo modo è in grado di mettere sullo stesso piano “improvvisativo” sia la “scrittura automatica” dei surrealisti (16) – è un esempio che fa anche Daniele Goldoni in un suo saggio (17) – che le jam session jazz – ma potremmo aggiungere anche (perché no?) le improvvisazioni psico-geografiche dei situazionisti (18). La connessione è a mio avviso illuminante perché lega in modo specifico l’improvvisazione alla capacità di ascolto del fuori. Per tale ragione potremmo affermare che l’improvvisazione viene da fuori (della coscienza). Questo spiega perché, anche se essa in genere accade in gruppo (19), ciò non sia una condizione necessaria (né sufficiente, ovviamente), in quanto non solo è possibile improvvisare da soli (perché non si è mai davvero “soli”), ma è possibile anche improvvisare rispetto a un genere artistico, a una tradizione culturale, scrivendo o componendo paradossalmente un’opera d’arte (20), perché l’opera d’arte “riuscita” (come avrebbe detto Adorno) è anche quella più imprevedibile rispetto alle attese (21). E anche in questo caso l’artista o l’improvvisatore opera secondo un doppio movimento: quello dell’adattare – secondo le modalità dell’ex-adaptation – il materiale artistico ereditato e preesistente ad usi (fino a quel momento) “impropri”, da un lato; e quello della recezione degli stimoli (di ogni genere) che gli vengono da fuori (dall’inconscio – e qui rimando ancora al saggio di Montani – o dall’ambiente).
Questo legame tra sentire, apertura all’ambiente e improvvisazione non solo spiega le giuste remore espresse da John Cage nei confronti di quella sorta di ideologia della improvvisazione creativa che, come accade per tutte le ideologie (Marx docens), nasconde la sua origine attraverso l’autonomizzazione dell’atto improvvisativo dal fuori, ma chiarisce anche il paradossale ripensamento di Cage, attestato da più parti, negli ultimi anni della sua vita; ripensamento che è dovuto molto probabilmente a una radicalizzazione della pratica improvvisativa che Cage arriva a identificare con quella “compenetrazione senza ostruzione” da lui teorizzata fin dagli anni Cinquanta dello scorso secolo (22).
Il legame strutturale tra improvvisazione e fuori spiegherebbe, infine, anche quella pulsione alla libertà di cui parla Ray Brassier (23) come sua caratteristica. Chi improvvisa sente l’ambiente e, sentendolo, si fa strumento passivo, ma sensibilissimo, della creatività che l’ambiente – inteso nella sua accezione più ampia – offre. Libertà “compulsiva” che diversamente non potrebbe essere spiegata.
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  1. N.B.: Il presente testo è una ripresa, leggermente aggiornata e parzialmente modificata nel titolo, di un articolo già pubblicato nel numero 3 (2016) della rivista Kaiak. A Philosophical Journey, dedicato al tema “Improvvisazione” (ecco il link all’intero numero on line: http://www.kaiak-pj.it/it/articoli/9-rivista/67-kaiak-n-3-improvvisazione.html). L’articolo è poi comparso a stampa all’interno del terzo numero dell’Annuario Kaiak (Improvvisazione, a cura di Igor Pelgreffi, Mimesis Edizioni, Milano 2018). D. Toop, Into the Maelstrom. Music, Improvvisation and the Dream of Freedom – Before 1970, Bloomsbury Academic, New York 2016.
  2. Ivi, p. 102 sgg.
  3. Ivi, p. 2.
  4. E. A. Poe, Una discesa nel Maelstrom, in Id., Racconti del terrore, trad. it. di D. Cinelli e E. Vittorini, Arnoldo Mondadori Editore, Milano 1985, pp. 188-190.
  5. Ivi, p. 192.
  6. Ivi, p. 193.
  7. D. Toop, Op. cit., p. 1.
  8. A. Bertinetto, Valore e autonomia dell’improvvisazione. Tra arti e pratiche, in Kaiak n. 3 “Improvvisazione” (www.kaiak-pj.it).
  9. Ragionamento che ho cercato di svolgere nel mio Una cartografia della tecno-arte. Il campo del non simbolico, Cronopio Edizioni, Napoli 2017.
  10. P. Montani, L’improvvisazione onirica al lavoro. Un’improvvisazione senza regole?, in Kaiak n. 3 “Improvvisazione” (www.kaiak-pj.it).
  11. Uso un po’ liberamente l’aggettivo “ancestrale” con riferimento a Quentin Meillassoux (cfr. Id., Dopo la finitudine. Saggio sulla necessità della contingenza, a cura di M. Sandri, Mimesis, Milano 2012; Id., Metafisica, speculazione, correlazione, trad. it. di E. Coccia, in I nuovi realismi, a cura di S. De Sanctis, Bompiani, Milano 2017, pp. 61-86).
  12. Cfr. P. Sloterdjik, La domesticazione dell’essere. Per una chiarificazione della Lichtung in Id., Non siamo stati ancora salvati, trad. it. di A. Calligaris e S. Crosara, Bompiani, Milano 2004, pp. 140-172.
  13. E. A. Poe, La rovina della casa degli Usher, in Id., Racconti del terrore, cit., p. 119.
  14. Ivi, p. 124. Sul racconto di Poe cfr. le splendide pagine che Francesco Piselli pubblicò un po’ di anni fa (F. Piselli, Interpretazioni di Mallarmé e Poe, Tempo Lungo Edizioni, Napoli 2000, pp. 53-63).
  15. E. A. Poe, Op. cit., p. 125.
  16. D. Toop, Op. cit., p. 33 sgg.
  17. D. Goldoni, Sorprendente, in Kaiak n. 3 “Improvvisazione” (www.kaiak-pj.it).
  18. Improvvisazioni di cui Toop, tuttavia, non parla. Cfr., sulle derive psico-geografiche dei situazionisti, D. Vazquez, Manuale di psicogeografia, Nerosubianco, Torino 2010.
  19. Vedi i due capitoli (il terzo e il quinto) del suo libro intitolati Collective subjectivities.
  20. Vedi D. Goldoni, Sorprendente, cit. e A. Bertinetto, Valore e autonomia dell’improvvisazione, cit.
  21. Cfr, tuttavia, il saggio di R. Tessari, L’improvvisazione come arte della memoria. Il caso della Commedia dell’Arte sempre in Kaiak n. 3 “Improvvisazione” (www.kaiak-pj.it).
  22. Sulla poetica di Cage rimando al mio Il silenzio e la domanda. Orientarsi su John Cage, in La ricerca di John Cage. Il caso, il silenzio, la natura, a cura di V. Cuomo e L. V. Distaso, Mimesis, Milano 2013, pp. 61-75.
  23. R. Brassier, Improvvisazione non-libera / libertà compulsiva, in Kaiak n. 3 “Improvvisazione” (www.kaiak-pj.it).

 

Vincenzo Cuomo

Vincenzo Cuomo (Torre Annunziata 1955) si occupa da molti anni di estetica e di filosofia della tecnica, anche in collaborazione con alcune Università italiane (Salerno, Napoli) e Accademie (NABA di Milano, Accademia di Belle Arti di Napoli). È direttore della rivista Kaiak. A Philosophical Journey (www.kaiak-pj.it), docente a contratto di Estetica dei nuovi media presso l’Accademia di belle arti di Napoli e membro della “Società Italiana di Estetica”. Tra le sue pubblicazioni: Le parole della voce. Lineamenti di una filosofia della phoné (Edisud, Salerno 1998); Del corpo impersonale. Saggi di estetica dei media e di filosofia della tecnica (Liguori, Napoli 2004); Al di là della casa dell’essere. Una cartografia della vita estetica a venire (Aracne, Roma 2007); Figure della singolarità. Adorno, Kracauer, Lacan, Artaud, Bene (Mimesis, Milano 2009); C’è dell’io in questo mondo? Per un’estetica non simbolica (Aracne, Roma 2012); Eccitazioni mediali. Forme di vita e poetiche non simboliche (Kaiak edizioni, Tricase 2014); Una cartografia della tecno-arte. Il campo del non simbolico (Cronopio, Napoli 2017).