Eppure so farlo
di Graziano Graziani
Dalla prassi alla teoria. Dopo aver raccontato nel numero scorso “Tempi di reazione” – la rassegna di happening multidisciplinari ideata da ALDES –, nel mese di maggio «93%» torna sul tema dell’improvvisazione scenica con delle riflessioni più ampie, che spaziano dalla danza alla musica al teatro. Artisti e studiosi che hanno contribuito al numero si sono cimentati con la difficoltà di definire una dimensione che, all’apparenza, sembra sfuggire all’analisi verbale, alla possibilità di essere fissata attraverso concetti astratti, poiché la pratica dell’improvvisazione si situa all’opposto di questa stessa prassi. Romano Gasparotti si spinge a parlare di “superstizione” per descrivere il ruolo di feticcio che il pensiero “che pensa prima di fare” ricopre nella cultura occidentale. È vero, il gesto dell’improvvisazione si colloca altrove rispetto al gesto del fissare, proprio dell’opera artistica riproducibile, e abita dalle parti dell’evento, come rileva Andrea Cosentino. Tuttavia questa contrapposizione tra pensiero e azione, tra opera ed evento, si rivela ad ogni riflessione sempre più evanescente, frutto di un pensiero binario che concepisce il mondo (artistico e non) per opposti. Mentre forse l’aspetto più interessante di ambiti artistici sicuramente diversi – la composizione e l’improvvisazione – si trova proprio nel punto di contatto, nell’osmosi possibile tra queste pratiche. Quanto c’è di improvvisato in un’esecuzione artistica? Quanto ci si può muovere liberamente all’interno di uno schema? E, per converso, quanto della reiterazione e dello studio, della meditazione e dell’approfondimento, fuoriesce nel gesto dell’improvvisazione, persino in quella più radicale?
Allora occorre nuovamente ribaltare la prospettiva e tornare a praticare l’andamento inverso: dalla teoria alla prassi. Non è un caso se un artista come John De Leo, per descrivere il suo rapporto con l’improvvisazione, arrivi a criticare l’esaltazione dell’“istintivismo”, utilizzando metafore che hanno a che vedere con la sfera del linguaggio, e cioè del logos. Ovvero facendo ricorso a quella dimensione che chi si aggira sul fronte opposto, quello della riflessione teorica, preferisce situare agli antipodi della pratica improvvisativa – come in parte fa lo stesso Gasparotti. Non è una contraddizione. L’improvvisazione, a causa del suo carattere sfuggente alla categorizzazione, finisce fatalmente per essere descritta più “come ciò che non è”, anziché come ciò che è. E allora intendersi sul processo che la rende possibile diventa una questione di toni, di illuminazione delle giuste sfumature.
Certamente l’improvvisazione ha a che fare con una rottura del quotidiano, dell’abituale. Vincenzo Cuomo, attingendo ai racconti di Edgar Allan Poe, la situa nella sfera del “pericolo”; Andrea Cosentino, instancabile osservatore della dimensione popolare e sempre a caccia di una dimensione meno ingessata del teatro istituzionale dove lo spettatore è sempre passivo, la colloca invece nel territorio della “festa”, un dispositivo nel quale chi osserva deve per forza “starci anche dentro”. Non si tratta di un atteggiamento romantico che tende a premiare, a livello di valore, ciò che “straordinario” rispetto a ciò che è “ordinario”, ma della constatazione che il nostro mondo è stato costruito sulla standardizzazione, la replicabilità, la prevedibilità e che questo influenza il nostro ambiente percettivo e, di conseguenza, le nostre esperienze estetiche. Entrambi gli atteggiamenti – improvvisare e reiterare – sono profondamente connessi alla psicologia umana e hanno contribuito all’evoluzione della nostra specie. Ma se il secondo ci pone in un ambiente prevedibile e dunque manipolabile, il primo apre all’imprevisto. E come maneggiare l’imprevisto? La risposta a questo quesito ci trascina inesorabilmente dai territori dell’arte a quelli del rito, sia esso di tipo mistico o performativo, come l’ambito delle competizioni sportive; un luogo dove corpo mente e ambiente agiscono e reagiscono costantemente. Per cui l’unica risposta possibile, tornando nel regno della parola, è affermare come fa John De Leo «non lo so». Ma, sottintendendo l’affascinante paradosso, “eppure so farlo”.