Improvvisare è fallire
di Enrico Castellani
Improvvisare è un salto nel vuoto.
Sempre.
Se poi a definire l’ambito d’azione non c’è alcun appiglio né contorno, se nessun ruolo è stato definito, se nessuna situazione è data, se le persone chiamate a interagire non si conoscono e appartengono ad ambiti diversi, hanno formazioni distanti, non sono della stessa generazione, allora l’altezza del trampolino da cui gettarsi cresce a dismisura.
L’improvvisazione assume quasi la forma dell’incoscienza.
È stata questa incoscienza che mi ha spinto ad accettare l’invito di Roberto Castello a partecipare a “Tempi di reazione”.
Da alcuni anni l’improvvisazione è entrata a far parte del nostro lessico teatrale. Direi da Pinocchio (2012) in poi. Non la utilizziamo in modo costante e omogeneo, ma è un territorio in cui spesso sconfiniamo.
Ci interessa in particolar modo quando ci permette non solo di indagare e ricercare nel corso delle prove, ma quando, all’interno di maglie più o meno larghe, entra a far parte della forma spettacolo. Troviamo sia molto interessante quando gli attori si muovono all’interno di una ragnatela dove esistono degli spazi di libertà. Spesso questi spazi si trasformano nella possibilità di vivere un qui e ora che, dove esiste un margine reale di improvvisazione in scena, può offrire all’attore la possibilità di uscire dalla reiterazione. Questo meccanismo a volte può essere una via verso l’autenticità dei corpi sulla scena. Una via che ci interessa indagare.
Ancora più interessante per noi è il meccanismo in cui viene coinvolto il pubblico, quando si trova a osservare una situazione in cui non gli è chiaro se ciò a cui assiste è stato predeterminato o se è realmente spettatore di qualcosa che non è stato codificato e che succede nel momento in cui lo fruisce. Quando la linea di demarcazione tra realtà e finzione si perde, oscilla, diventa un elastico con il quale allontanare e avvicinare il pubblico.
L’improvvisazione è un tema con il quale ci continuiamo a scontrare, senza giungere ad avere risposte certe. È una strada che sembra ogni volta impossibile trasferire dalle prove allo spettacolo, ma che per noi non può essere relegata semplicemente all’ambito degli strumenti da poter utilizzare in fase di ricerca, di studio, a porte chiuse.
Ora per raccontare la mia esperienza a “Tempi di reazione” devo partire da una sensazione che mi sono portato a casa.
Una sensazione chiara e netta.
Una sensazione di disagio.
Sul palcoscenico avvertivo in modo fisico, epidermico, che non esisteva possibilità di dialogo tra me e il mio teorico interlocutore.
Tra di noi non esisteva un lessico comune.
Mi sentivo come un husky a Dubay.
È stato chiaro subito, immediatamente.
Era chiaro ancor prima di salire sul palco, perché il mio interlocutore lo avevo già visto in azione con Andrea Cosentino.
Mi sono proposto di non farmi condizionare, di non mettere giudizi che non avrebbero aiutato nessuno: né me, né il mio compagno, né la possibilità di creare un dialogo.
Ma non è servito a nulla.
La distanza siderale di linguaggio si è manifesta in modo netto fin da subito.
Ho percepito forte la volontà di Eugenio Sanna di creare una storia, di inanellare con una logica anche se improvvisata, in qualche modo lineare, azioni, suoni e parole. Di far tornare le cose. Provavo a fuggire, ma dall’altra parte la mia fuga non trovava eco.
Ho avvertito forte il ricorso a una finzione, rifugio a cui in tutti i modi ho provato ad oppormi, ho esplicitato sulla scena che non avrei fatto alcuna voce o vocina per dar vita a caratteri vuoti, ma come unica risposta ho ricevuto un incalzante assedio. Ho manifestato il mio disagio. Ho chiesto a Eugenio di abbandonare il microfono per tornare alla chitarra.
Ho provato a manifestare la mia impossibilità di interagire sui piani proposti attraverso la stasi e il silenzio, ma anche questo tentativo non è stato in grado di creare una situazione di ripartenza per dar vita a un territorio comune.
Ho avuto la netta sensazione che le nostre sensibilità ed estetiche teatrali fossero inconciliabili: appartenessero a scenari senza possibilità di dialogo.
Ci siamo ritrovati in una situazione in cui, credo, sarebbe stato utile mettere uno stop. Ripartire. O al contrario in cui avremmo dovuto continuare più a lungo per abbattere resistenze e schemi che avevamo costruito. Ci siamo ritrovati in una situazione in cui la presenza del pubblico è diventata ostacolo.
Verso la fine dell’improvvisazione ho parzialmente ceduto e, se tornassi indietro, non lo rifarei. Forse l’unica strada per dare un senso all’improvvisazione a cui abbiamo dato vita io ed Eugenio sarebbe stata continuare fino in fondo a procedere su binari paralleli e distanti, dove nessuna linea si sarebbe mai intersecata con l’altra.
Enrico Castellani
Enrico Castellani è laureato in Scienze Giuridiche presso l’Università di Verona con tesi sulla legge in Shakespeare. Ha una formazione teatrale non accademica.
E’ fondatore con Valeria Raimondi di Babilonia Teatri.
Drammaturgo, autore, regista e attore dirige la compagnia dalla sua nascita, occupandosi dell’ideazione, della scrittura, della messa in scena, della regia e in molti casi dell’interpretazione dei lavori del gruppo.
Babilonia Teatri è una formazione entrata con passo deciso nel panorama teatrale contemporaneo distinguendosi per un linguaggio che a più voci viene definito pop, rock, punk.
I fondatori del gruppo compongono drammaturgie dall’incedere unico, sorta di litanie scolpite nelle contraddizioni dell’oggi, portate in scena con attitudine ribelle. Hanno indagato diverse angolazioni della vita di provincia, cristallizzandola come microcosmo di un dolore universale, affrontato con coraggio dissacrante. Babilonia Teatri si caratterizza per uno stile fuori dagli schemi che intende il teatro come specchio della società e della realtà. Attraverso l’uso di nuovi codici visuali e linguistici esprime la necessità e l’urgenza dell’interrogazione, per far emergere conflitti e tensioni, con ironia e cinismo, affetto e indignazione.
Nel corso degli anni numerosi sono stati i riconoscimenti ricevuti per il lavoro portato avanti con Babilonia Teatri, tra cui il Premio Scenario 2007, il premio Speciale Ubu 2009, il primo Premio Off del Teatro Stabile del Veneto nel 2010, il premio Ubu 2011 come migliore novità italiana per The end, il premio Hystrio 2012 alla drammaturgia, il premio Franco Enriquez 2012 per l’impegno civile, il Premio Associazione Nazionale dei Critici di Teatro 2013, il Leone d’argento per l’innovazione teatrale alla Biennale di Venezia 2016.
www.babiloniateatri.it